AMOS LEE
LIVE AT THE RED ROCKS
ATO Records
***1/2

Nicola Gervasini
La tenace Mavis ha parlato dell'album al suo produttore del momento, Jeff Tweedy dei Wilco, il quale ha ripreso i nastri e ha registrato ex-novo le parti di basso e qualche chitarra. E, visto che era intento a registrare il suo album solista con il figlio Spencer, ha affidato al pargolo le poche parti di batteria presenti. Il risultato è in tutto per tutto simile ad album come One True Vine di Mavis Staples, ma il fatto che questa volta il tutto sia frutto di un abile mix di registrazioni fatte a distanza di 15 anni impone una riflessione: da una parte dimostra come 15 anni di soul-revival (da parte dei vecchi, più o meno tutti tornati in auge a turno) e new-soul (tante giovani leve che suonano esattamente come i vecchi) non hanno cambiato di una virgola la grammatica del genere, dall'altra esalta ancora una volta l'essenza di questa musica: basta una voce, una grande interpretazione, molta anima e, se possibile, anche qualche buona canzone (le dieci scelte in questo caso lo sono), e si può fare un ottimo soul-record. E volendo anche senza bisogno di grandi geni che ci mettano del loro, perché di fatto anche in questo caso Tweedy si limita a seguire gli schemi e a dare un contorno senza stravolgere troppo gli arrangiamenti originali. Insomma, Dont' Lose This, così come ci arriva oggi, nel 1999 sarebbe stato un miracolo, nel 2015 suona come un disco un po' tardivo, già sentito. Ma chi se ne frega in fondo, perché Tweedy o no, è un'opera di soul, cantata da un vecchio un po' "sfiatato" di voce ma non di sentimenti, e da una vocalist che la voce invece non l'ha persa mai. E con cover intelligenti come la dylaniana Gotta Serve Somebody o il traditional Will The Circle Be Unbroken che chiudono alla grande il disco, ma anche tenui soul-ballads comeSweet Home e Friendship, e una sentita versione solo voce e chitarra di Nobody's Fault But Mine di Blind Willie Johnson. Probabilmente lo stesso Pops non si sarebbe mai immaginato che un giorno queste registrazioni sarebbero state addirittura "trendy", e forse le avremmo apprezzate anche senza la post-produzione di Tweedy, nonostante in alcuni casi l'aggiunta di una band pare davvero dare quel qualcosa in più (la baldanzosa The Lady's Letter). Non è mai troppo tardi per un bel disco come questo, nonostante abbia già fallito l'appuntamento con la storia. |
Fried (deluxe ed. 2 cd)[Mercury/ Caroline International 2015] www.headheritage.co.uk ![]() di Nicola Gervasini (08/10/2015) Nel 1984 Julian Cope era solo uno dei tanti leader di band dissolte dell'era post punk/new wave. Sebbene i suoi Teardrop Explodes non siano stati dei campioni in termini di vendite (ma l'album Kilimanjaro e il singolo Reward ebbero comunque buon successo), la Mercury fece carte false per accaparrarsi i suoi primi album solisti, con la speranza di riuscire a creare una nuova star aggiornata ai nuovi suoni "plasticosi" di moda nella metà degli anni ottanta. Evidentemente non si erano resi bene conto che non avevano a che fare con un novello Billy Idol, pronto a riadattarsi ai tempi che correvano senza alcun ritegno, ma con quello che ancora oggi consideriamo tutti come il migliore esempio di un folle, ma encomiabile artista senza compromessi. Usciti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro nel 1984, World Shut Your Mouth e Fried furono un fallimento commerciale clamoroso (il primo arrivò a stento in top 50, il secondo, fatto uscire in fretta proprio per correggere il tiro, toccò l'ottantasettesimo posto nella UK charts e sparì dalle radio subito dopo, lasciando solo il ricordo della sua folle copertina), privi come erano di singoli vendibili a MTV, e soprattutto portatori di un suono perfetto e oggi modernissimo, ma totalmente slegato dal contesto modaiolo dell'epoca. Il produttore di entrambi i dischi era il chitarrista Steve Lovell, oscuro personaggio ai tempi praticamente esordiente (diventerà poi uno dei produttori più usati dai Blur, anche se, inspiegabilmente, nel suo curriculum compare anche la produzione di Touch Me di Samantha Fox, proprio all'indomani della collaborazione con Cope), che subito si evidenziò per il suo tocco totalmente vintage e legato alla psichedelia inglese di marca primi Pink Floyd. Nonostante l'insuccesso, i dischi non tardarono a diventare dei cult-records, e la loro influenza sul rock underground dei trent'anni successivi non sbiadisce neppure riascoltando le nuove brillanti riedizioni pubblicate dalla Caroline International. World Shut Your Mouth resta un disco ancora legato al mondo Teardrop Explodes (molti dei brani erano nati per la band), sospeso tra un intimismo del tutto fuori moda all'epoca e un rock scarno e figlio di Syd Barrett, mentre Fried è forse la summa di tutto il suo lavoro e della sua filosofia, e anche se forse il suo capolavoro definitivo sarà Peggy's Sucide del 1991, canzoni come Reynard The Fox o Bill Drummond Said già descrivevano perfettamente il folle universo della sua mente. Dopo questi due album Cope proverà a darsi una ripulita nel segno dei tempi con i ben più vendibili Saint Julian (unico suo vero successo commerciale) e My Nation Underground, prima di chiudersi nella bellissima autoproduzione dei sui anni novanta. Le due riedizioni portano in dote un cd aggiuntivo per ognuna, pieni zeppi di buone chicche come alcune interessanti b-sides (oltre recuperare quelle già uscite nelle ristampe degli anni 90, da segnalare su tutte l'acustica Disaster, la bluesata Mic, Mak, Mok o la divertente 24a Velocity Crescent con le sue tante citazioni dell'era Pysch anni 60), demo di pezzi poi ripresi in dischi successivi (Pulsar), e una lunga serie di immancabili John Peel e BBC Radio One Sessions, come al solito miniere d'oro di nuove convinte versioni suonate in diretta. Tutto materiale di grande interesse storico e ben rimasterizzato, che aggiunge però poi poco a quanto sapevamo già, e cioè che spesso le grandi rivoluzioni nascono silenziosamente nei bassifondi, ma trentuno anni dopo fanno ancora un gran rumore. |
Quello che ce lo fa applaudire un po' di più è la larga visione d'insieme che Ritter ha maturato nel corso del tempo, che lo rende uno degli artisti più eclettici e capaci di miscelare diversi elementi, senza mai dare l'idea che stia solo girando alla disperata ricerca di uno stile. E così se Birds On The Meadow potrebbe far pensare ad una svolta modernista con il suo martellante ritmo pop, le chitarre hillbilly e l'incedere da fast-gospel di Young Moses, oltre a far capire da chi hanno imparato a confezionare grandi canzoni gente come Amos Lee e Jonathan Wilson, mettono in evidenza una naturalezza nel cogliere la melodia e il ritmo giusto da artista scafato. Non ci si annoia mai, né quando il suo timido folk degli esordi si ripresenta in unaHenrietta, Indiana che ha il sapore della sua produzione dei primi anni 2000, sia quando confeziona un saltellante quanto irresistibile singolo come Gettin Ready To Get Down, tour de force di parole profuse ad alta velocità tra chitarre caraibiche e batterie pulsanti. E non ha paura neanche di concedersi qualche arrangiamento un po' furbo come Seeing Me 'Round, giri melodici già sentiti in almeno 20 canzoni di Dylan e 1000 di seguaci come Where The Night Goes, ballatine pop-folk alla Lovin Spoonful come Cumberland, insomma tutto l'armamentario base del folksinger moderno. Ma quando poi arrivano i cinque minuti e passa di Homecoming, emozionante crescendo di suoni, ritmi e melodie, capisci che la maturazione è giunta al massimo. Resta il tempo per un'altra intensa soul ballad (The Stone), il puro roots-rock di A Big Enough Sky, l'esperimento alla Wilco di Lightouse Fire e una My Man on The Horse che potrebbe tranquillamente chiudere un film western di epoca crepuscolare alla Sam Packinpah. Il bello di Ritter è che sembra sempre non fare mai nulla di speciale, eppure ogni volta esci da un suo disco con la voglia di riascoltarlo e di scoprire qualcosa di nuovo. E questa è caratteristica solo dei grandi. |
Ma siccome si nasce incendiari, ma si muore pompieri, il Jackson maturo e ormai fuori dallo star-system degli anni 2000 è un musicista che è venuto a patti con tutte le sue anime, producendo dischi di pop anni ottanta (Night and Day II del 2000), un ritorno al pub-rock (Volume 4 del 2003), un altro tributo al jazz (The Duke del 2012) ne infine Rain del 2008, il suo disco migliore di questa fase, in quanto semplicemente un disco di buone canzoni alla Joe Jackson. Fast Forwardriparte da lì, da questo suo nuovo stile seccamente pop, diretto all'essenziale, che fa tesoro di tutto il suo più tipico armamentario senza esibire proclami concettuali da guru musicale. Potrebbe essere il suo Big World degli anni duemila questo progetto, nato come viaggio in quattro tappe con differenti sessioni di registrazioni effettuate a New York (dove troviamo la chitarra di Bill Frisell in session), Berlino (qui con Greg Cohen e la chitarra di Dirk Berger), Amsterdam (con una intera orchestra) e l'interessante collaborazione a New Orleans con la funky-band dei Galactic. Più di un ora di musica, e due cover che riassumono tutte le sue origini, una See No Evil dei Television che lo riconcilia nuovamente con il rock dei suoi esordi, e una Good Bye Jonny che viene dal mondo del cabaret berlinese. Per il resto ci si perde un po' in un mare di materiale che va dall'ottimo (la title-track, ma soprattutto la notevole Junkie Diva o il grazioso singolo A Little Smile), alla normale amministrazione di un artista conscio di rivestire ormai un ruolo marginale, ma in fondo ancora fiero della sua musica. Forse Rain aveva qualche freccia in più al suo arco, e la lunghezza del progetto rende un po' dispersivo il risultato, ma Fast Forward ci conferma comunque che Joe Jackson ha smesso di cercare la formula più intelligente per fare musica, e oggi è forse più capace di un tempo di lasciarsi andare alle emozioni e al puro piacere di suonare del grande brit-pop. Il che non gli garantisce più sensazionali titoli sui giornali, ma un semplice seguito di fans fedeli e appassionati di buona musica che per dischi del genere continueranno a portagli un gran rispetto. |
Yoakam non lesina sudore, sia quando lascia le chitarre a briglia sciolta per esaltare l'impatto di un brano perfetto nella sua semplicità come She (nulla a che vedere con l'omonima canzone di Gram Parsons), sia quando anche in occasione di ballate romantiche come la splendida Dreams Of Clay tiene comunque alto ritmo e livello dei suoni. E' un disco nato per la radio e per essere ascoltato in macchina, con chitarre ben marcate a coprire il rumore del motore, e il consueto mix di romanticismo e passione da country-outlaw. Nelle interviste di presentazione all'album lo stesso Yoakam ha voluto rimarcare come il disco vuole essere un omaggio al cow-punk degli anni 80, vera e propria ispirazione per i suoi esordi, e cita il "senso di immediatezza" di band come Jason & The Scorchers, Lone Justice e Rank & File per far capire da dove arriva il wall of guitars della tilte-track ad esempio (e avrei aggiunto anche i tardi X con Dave Alvin nel motore come punto di riferimento) o della micidiale serie rock and roll formata da Man Of Constant Sorrow, Liar e The Big Time. Anche sul piano della scrittura il disco sembra avere una marcia in più del suo predecessore (...ma non si ricordano dischi brutti nella sua carriera), fin dalla programmatica apertura di Another World o anche nel middle-tempo di Believe. Dwight non è mai stato un autore particolarmente prolifico, e anche in questo caso scrive solo otto brani, ricorrendo a due cover che paiono tuttavia ottimamente integrate nel contesto, sia la splendida velocissima resa del traditional Man Of Constant Sorrow(mille versioni si potrebbero citare di questo brano, fin da quella presente nell'esordio di Bob Dylan), oppure V's Of Birds, opportuna chiusura sentimentale scritta dal suo fido chitarrista Anthony Crawford. La produzione è scintillante ed è affidata al vecchio Tom Lord-Alge (la lista delle sue collaborazioni sarebbe troppo lunga anche per cercarne un significativo sunto), la band gira sempre alla perfezione, e non c'è altro da dire: finiti i 40 minuti avrete voglia di ripartire subito da capo. Si può forse chiedere di più ad un country-record nel 2015? |
Potremmo definirli una Band (quelli con la B maiuscola) moderna immersa nei sapori Stax, una ex jam-band nata per emulare la Dave Matthews Band che si è dimenticata la jam a favore dell'emozione, del ritmo funky. Non c'è niente da fare, ogni loro uscita è una festa, e quindi anche questo Ol'Glory, disco che non si discosta dai precedenti se non per un ulteriore spostamento del baricentro verso la soul-ballad, evidenziato dall' 1-2-3 iniziale di Everything Is A Song, The Island e Every Minute con il suo finale di slide (gentilmente offerta da Derek Trucks) che avrebbe avuto la benedizione di un qualsiasi emulo di Otis Redding. Facile dargli dei retrogradi, ma intanto scrivetela voi se ci riuscite una canzone come A Night To Remember in pieno 2015 senza dare l'impressione di star solo copiando dai padri e padroni della soul music, e persino quando ci si dice che "sì, questa la si è già sentita" (Light a Candle ad esempio), non si ha mai la sensazione che ci stiano in qualche modo fregando. Sono cuore ma anche ragione i Mofro di JJ Grey, attenzione all'arrangiamento, studio del suono adatto (fiati + organo hammond + chitarre slide, connubio southern-soul collaudato ma sempre efficace). Il disco ha una prima parte molto lenta e riflessiva, ed è solo con la funky Turn Loose e la sua tastiera in clima Stevie Wonder che si comincia a battere anche le mani per tenere il ritmo, ma meglio così, Ol'Glory è un disco in crescendo. Quasi ogni singolo brano è costruito per partire lento e finire in apoteosi (Home in The Sky, Hold On Tight), trucco scenico vecchio come il rock che ha sempre la sua efficacia dal vivo. La title-track è poi lo zenith di ritmo, sudore, James Brown e colpi spettacolari: basta quella a consigliare l'acquisto anche di questo nuovo album. Non chiedetegli di farsi portabandiera di chissà quale movimento: i JJ Grey & mofro hanno ormai un consolidato quanto invariabile seguito da anni, e non hanno scritto e mai scriveranno pagine importanti di storia del rock. Ma continuano a scrivere grande rock, e nel 2015 forse solo questo può ancora contare. |
Didn't He Ramble arriva tre anni dopo, e se da una parte lo conferma come autore importante e artista di punta della musica irlandese, comincia però a far capire che la sua fase di decollo è pressoché finita, e siamo giunti alla velocità di crociera. Il menu non cambia rispetto all'album precedente: ballate indie da ascoltare in silenzio (l'intensa Wedding Ring), il grande amore per la musica d'autore americana (ascoltate Winning Streak e vi sembrerà di essere nel pieno di un disco di Amos Lee), il soul serpeggiante che non manca mai in una qualsiasi produzione di marca Irish (il crescendo gospel di Her Mercy), le ballate tradizionali della sua verde terra (McCormack's Wall). E si riparte sullo stesso tema nella seconda parte: ancora tradizione con il duello tra violini e fiati di Lowly Diserter, una lenta Paying My Way che promette - ma non mantiene troppo - intense emozioni, mentre è solo con My Little Ruin che ritorna il tono un po' tragico dell'era Swell Season, con un "wall of sound" finale da brividi in cui manca soltanto l'intervento della Irgolva. Restano ancora una leziosa Just to be the One che fa il verso a certi soft-folk-pop da primi anni zero alla Kings Of Convenience, e un finale solo voce e chitarra per la riflessiva Stay The Road. Resta da dire del brano iniziale, una Grace Beneath The Pines che ha un titolo che più vanmorrisoniano non si può, e che svela subito dove il nostro vuole arrivare: diventare il Van Morrison degli anni futuri, il nuovo punto di riferimento per qualsiasi giovane irlandese che voglia imbracciare una chitarra acustica. Fatte le debite distanze (ma le farebbe anche lui), Didn't He Ramble è in fondo il disco che oggi vorremmo sentire anche dal vecchio leone di Belfast: classico, quadrato, ma ancora vagamente curioso e pieno di anima. Per contro, comincia a serpeggiare anche tra le righe di Hansard un certo appagamento che ancora non fa scattare allarmi rossi, ma che potrebbe diventare un problema nei prossimi capitoli. Sperando sia solo una vaga sensazione, godiamoci comunque il presente di un grande artista. |
Bob Mosley Bob Mosley (Waner Bros/Reprise 1972/2024) File Under: Soul Frisco E’ il 1972, il country-rock sta esplodendo come g...