domenica 14 luglio 2019

BLACK MOUNTAIN

Black Mountain 
Destroyer
[
Jagjaguwar 2019]
blackmountainarmy.com
 File Under: hard prog

di Nicola Gervasini 
(13/06/2019)

Quando un disco vuole essere un punto di ripartenza per una band lo capisci subito ancora prima di averlo ascoltato. Per questo Destroyer, il leader dei Black Mountain Stephen McBean, unico sopravvissuto della formazione di partenza con Jeremy Schmidt, ha pensato subito di regalare alla stampa una bella storia per riempire le recensioni, quella di un disco dedicato ad una macchina da sempre desiderata (la Dodge Destroyer, un modello del 1985) a fronte di una patente presa solo due anni fa. Aneddoti che creano un minimo di attesa per un album che probabilmente nessuno attendeva più di tanto. Il fatto è che Destroyer è un disco che McBean non può sbagliare, dopo che i grandi consensi ricevuti dai primi due album della band (Black Mountaindel 2005 e In the Future del 2008) erano stati un po’ bruciati da un terzo capitolo controverso (Wilderness Heart del 2010) e da un lungo periodo di silenzio, interrotto da un album (IV del 2016), l’ultimo con la cantante Amber Webber, passato un po’ inosservato.

Destroyer parte quindi dalla constatazione che in trio (il terzo è Brad Truax) il loro pysch-hard-rock dai sapori vintage aveva bisogno perlomeno di un restyling. Spazio quindi a vari ospiti che intervengono a colorire il suono, su tutte Rachel Fannan degli Sleepy Sun, che con la sua voce eterea va a coprire il vuoto lasciato dalla Webber, direi anche più che egregiamente. Con lei intervengono anche Adam Bulgasem dei Soft Kill), e più sporadicamente John Congleton (sentito con St. Vincent e gli Swans), Kliph Scurlock dei Flaming Lips e Kid Millions degli Oneida. Future Shade apre il disco con un mix di riff hard e tastieroni che ricorda molto anche quello dei Faith No More degli esordi, con quel misto di gusto epico prog e reminiscenze dell’heavy metal degli anni 80, mentre Horns Arising sperimenta un muro del suono fatto da voci filtrate elettronicamente e un finale onirico. Close to The Edge è un breve passaggio musicale infarcito di elettronica che prelude all’esplosione di chitarre e bassi pulsanti di High Rise, mentre Pretty Little Lazies recupera quell’anima folk della band che era più evidente nei primi dischi, e che oggi pare un po’ sotterrata dal mare di tastiere.

Un giro ipnotico di basso caratterizza invece Boogie Lover, che ha una tastiera pulsante che ricorda molto quella di One Of These Days dei Pink Floyd, mentre Licensed To Drive ritrova un riff alla Tony Iommi da headbanging selvaggio che traghetta il disco al finale riflessivo di FD 72. Ci sarebbe forse da discutere su dove possa portare tutto questo fiero recupero di suoni old-style (che loro stessi definiscono “Spaced Age Rock'n'roll”), ma è indubbio che il disco è potente, e le canzoni restano in mente, segno che forse McBean ha trovato il modo di far sopravvivere una sigla che pareva già arrivata al capolinea. A questo punto vale la pena vedere se in futuro riuscirà a ritrovare anche l’originalità degli esordi.

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