Kelly Finnigan The Tales People Tell [Colemine Records 2019] kellyfinnigan.com File Under: aperisoul di Nicola Gervasini (04/06/2019) |
Se avete avuto la fortuna di fare un viaggio in USA sulle tracce del New Soul (i cui eroi arrivano raramente in Italia), magari siete incappati anche nei Monophonics, soul-band bianca di cui si dice tanto bene da tanto tempo, sentiti in apertura dei tour di Charles Bradley, Sharon Jones & The Dap Kings, Galactic e persino George Clinton, giusto per definire le loro radici. Il loro tastierista e cantante, Kelly Finnigan, ci prova ora con un disco in solitaria intitolato The Tales People Tell, in cui segue il filone dello smooth-soul fatto di melodie pop, tante tastiere, fiati ovunque e ritmi suadenti. Potremmo definirlo lounge-soul moderno, o aperisoul se non suona come un’offesa, per quel suo pigro incedere da elegante happy-hour in puro sixty-style.
Hanno questo mood le iniziali I Don’t Wanna To Wait e I’ll Never Love Again, mentre Smoking and Drinking cerca un baldanzoso ritmo soul alla Sam & Dave. Finnigan canta con voce potente e sicuramente black-oriented, ma il disco si fa apprezzare più che altro per la cura certosina negli arrangiamenti, per quanto certo non nuovi, come ad esempio quello di Everytime It Rains, uno degli highlight dell’album che ricorda molto, per l’intreccio di cori, fiati e campanellini vari, il sound del Michael Kiwanuka più recente. Catch Me I’m Falling è invece una ballata acustica cantata in un falsetto alla Smokey Robinson, Since I Don’t Have You Anymoretrova semmai un ritmo alla Marvin Gaye, compresi i suadenti archi.
Si sentono dunque, nel suo eterogeneo mix di influenze, le sue esperienze giovanili di dj nei club dell’area di Los Angeles, attività svolta a lungo prima di scoprire le gioie dell’organo Hammond. Coraggiosa invece la scelta di evitare le cover (sebbene ogni brano, per quanto originale, suoni comunque come la cover di un qualcosa uscito 50 anni fa), puntando sulla propria penna anche quando arriva l’immancabile appuntamento con la sofferta soul-ballad strappalacrime (Impressions Of You), prima di alzare i ritmi in una I Called You Back Baby che potrebbe anche appartenere ai Black Joe Lewis & The Honeybears. Arriva immancabile anche il momento della canzone di protesta con andamento gospel (Freedom), prima di un nuovo finale lento ed etereo con Can’t let Him Down.
Non so se Finnigan abbia intenzione di portare avanti la sua carriera al di fuori della band in maniera continuativa, qui dimostra che sicuramente conserva doti naturali e know-how di genere, ma manca ancora forse un tocco che lo caratterizzi rispetto alle ormai tante proposte new soul ascoltate in questi anni 2000, il che rende questo suo primo album consigliabile solo a chi davvero non ne ha mai abbastanza di questo recupero del vintage.
Hanno questo mood le iniziali I Don’t Wanna To Wait e I’ll Never Love Again, mentre Smoking and Drinking cerca un baldanzoso ritmo soul alla Sam & Dave. Finnigan canta con voce potente e sicuramente black-oriented, ma il disco si fa apprezzare più che altro per la cura certosina negli arrangiamenti, per quanto certo non nuovi, come ad esempio quello di Everytime It Rains, uno degli highlight dell’album che ricorda molto, per l’intreccio di cori, fiati e campanellini vari, il sound del Michael Kiwanuka più recente. Catch Me I’m Falling è invece una ballata acustica cantata in un falsetto alla Smokey Robinson, Since I Don’t Have You Anymoretrova semmai un ritmo alla Marvin Gaye, compresi i suadenti archi.
Si sentono dunque, nel suo eterogeneo mix di influenze, le sue esperienze giovanili di dj nei club dell’area di Los Angeles, attività svolta a lungo prima di scoprire le gioie dell’organo Hammond. Coraggiosa invece la scelta di evitare le cover (sebbene ogni brano, per quanto originale, suoni comunque come la cover di un qualcosa uscito 50 anni fa), puntando sulla propria penna anche quando arriva l’immancabile appuntamento con la sofferta soul-ballad strappalacrime (Impressions Of You), prima di alzare i ritmi in una I Called You Back Baby che potrebbe anche appartenere ai Black Joe Lewis & The Honeybears. Arriva immancabile anche il momento della canzone di protesta con andamento gospel (Freedom), prima di un nuovo finale lento ed etereo con Can’t let Him Down.
Non so se Finnigan abbia intenzione di portare avanti la sua carriera al di fuori della band in maniera continuativa, qui dimostra che sicuramente conserva doti naturali e know-how di genere, ma manca ancora forse un tocco che lo caratterizzi rispetto alle ormai tante proposte new soul ascoltate in questi anni 2000, il che rende questo suo primo album consigliabile solo a chi davvero non ne ha mai abbastanza di questo recupero del vintage.
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