01/12/2008
Rootshighway
VOTO: 7,5
Se ci sono riusciti gli americani a fare del buon brit-folk, figuriamoci se non ci possono riuscire anche gli australiani. Laddove la madre patria inglese stenta a far uscire dal proprio guscio un genere che ha detto tantissimo, ma che per anni è rimasto un po' fermo alle reunion annuali dei Fairport Convention (James Yorkston è uno dei pochi nomi nuovi veramente di rilievo della lenta rinascita degli ultimi anni), negli Stati Uniti la scena sta partorendo molti volti nuovi (Daniel Martin Moore l'ultimo in ordine di tempo), e ora ci si mette anche il continente "down under" con Eddie Cole, un giovane di Monbulk. Cole non è un esordiente, ha al suo attivo un paio di album autoprodotti, una vita da "lonesome hobo" a Londra per bussare alle porte delle major, e una triste ritirata in patria, dove, tra impegni di lavoro e famiglia, ha registrato questo sorprendente It's The Apocalypse, Baby. Non è facile dare delle coordinate precise per descrivere la sua musica: l'impalcatura strumentale ricorda molto quella dei Pentangle di John Renbourn, con la chitarra acustica di Cole in primo piano, un gran bel lavoro del double-bass di Michael Arvanitakis e qualche frequente inserto di archi. Questi tredici brani abbondano di quella semplicità che solo gli australiani in trent'anni di storia del rock hanno saputo dimostrare, un'attitudine ad arrivare subito al nocciolo della canzone, unita a quel tocco "pop" (tra mille virgolette) che rende tutto gioiosamente leggero. L'apertura di Lay Down In The Dust è degna del John Martyn più intimo e sussurrante, Maria ha tutta la tragica epicità delle romanze orchestrali degli anni 60, Nothing Comes For Free riscopre addirittura i tremolii vocali di Donovan. Cole ha avuto la buona accortezza di non accontentarsi delle solite soffici e sognanti ballate un po' alla moda oggigiorno (anche se quando vi si cimenta, come in Like Fur Elise o Where My Treasure Lies, raggiunge ottimi risultati), ma di tentare di spaziare nei generi, mantenendo intatto il suo personale sound per tutto il cd. Così se Honey è una leziosa pop-song alla Burt Bacharach, Shall I Count The Ways potrebbe addirittura comparire in uno dei più recenti album di Ryan Adams per quanto macina con gran gusto american-music e affabilità melodica. E ancora i giri spagnoleggianti di Trouble Of The World, l'armonica blues che straccia le strofe di Easy Does It, le spigolature di Rusty Shack o il quasi country di Sitting Alone At a Table For Two, sono tutte prove d'autore che vanno ben al di là dell'esercizio di stile. Ottima anche la finale Shadowland, brano sognante che chiude più che degnamente uno dei dischi indipendenti più caldi e avvolgenti degli ultimi tempi. Fare discorsi in grande per artisti che si esprimono per pura passione senza tanti ritorni è ormai inutile, Eddie Cole necessita della vostra voglia di scoprire che da qualche parte nel globo esiste ancora un songwriter capace e pienamente genuino, la storia in questo caso la si è già fatta altrove. (Nicola Gervasini)
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