10/11/2008
Rootshighway
VOTO: 7
Ecco qual'è il segreto di una scena musicale così viva e di caratura internazionale come quella scandinava, ormai strabordante di nuovi importanti artisti: nei bassifondi anche lì si studiano i classici e si fondano band gioiosamente anacronistiche come i Plastic Pals, sorta di enciclopedia garage-rock in salsa svedese. I quattro componenti non sono dei giovanissimi, tra una birra e l'altra hanno infatti esperienze da bar-band risalenti agli anni '80: il cantante Hakan "Hawk" Soold ha una voce baritonale che riesce ad ricordare il tono enfatico metal-psichedelico degli Iron Butterfly unito allo stile da crooner-popper di molti cantanti inglesi alla Richard Hawley, mentre il resto della band (Anders Sahlin alla chitarra, Bengt Alm al basso e Olov Öqvist alla batteria, questi ultimi presentati, con buona dose di ironia, come "la risposta svedese a Sly & Robbie") è formata da tre forsennati sostenitori di quel rock sporco e sotterraneo che dai Flamin' Groovies passa attraverso i Television per approdare ai Dream Syndicate. Tutte band che loro amano citare come influenza, anche se l'attacco di Here Comes The Sun ha il sapore del rock da cantina lisergicamente naif degli anni '60. Ma già con la successiva She's Going Back le chitarre pompano una melodia che riesce ad unire in un colpo solo l'accessibilità di una pop-song d'altri tempi con l'epica del rock blue-collar più stradaiolo e barricadiero. Non temono dunque la derivatività i Plastic Pals, sanno che i veri appassionati di rock lanceranno sondaggi su quale classico del rock viene richiamato con il micidiale riff di The Best Kept Secret, e rileveranno come Tom Verlaine avrebbe tranquillamente concepito di suo il giro saltellante e romanticamente new wave di Gone With The Wind. E a metà del disco questi vichinghi riscoprono ancora una volta l'America, con una ballatona nostalgica come Good Karma Cafè, un requiem per un bar che chiude i battenti, una tragedia che si consuma tra slide guitars suadenti, un'armonica che piange sulla birra versata, una sezione d'archi che insegue gli impasti vocali e un testo che non fa mancare una dedica per tutti i "barfly" dimenticati sul bancone del locale. Quanto basta per capire che i Plastic Pals sanno bene come funzionano i meccanismi della mitologia rock, e ne utilizzano i trucchi migliori, vuoi per confezionare le vecchie visioni progressive di Shadow Of A Dream, vuoi per riecheggiare addirittura i primissimi U2 nella ficcante Suicide Bomber, con spezzoni di chitarra alla The Edge e un giro di basso che sembra studiato a tavolino con Steve Lillywhite. Qui ovviamente siamo in ambito di produzione indipendente, per cui negli studi non si aggirava cotanto produttore, quanto il ben meno noto Bjon Öqvist, ma le credenziali guadagnate dalla band con l'ep di esordio (The Band That's Fun To Be With) hanno spinto Chris Cacavas a varcare i freddi mari del nord per prestare le sue tastiere a quattro brani. Vi basta come sponsor per capire di cosa stiamo parlando? (Nicola Gervasini)
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