sabato 6 dicembre 2008

FAIR HERALD - Familiar Streets

24/11/2008
Rootshighway

VOTO: 7


Non avete idea di quante band ci arrivano accompagnate da note che le presentano come "influenzate da Neil Young e dai Replacements", "simili ai Whiskeytown e ai Counting Crows" (in questo caso si buttano nel mucchio addirittura gli Old 97's), e autori di "ballate alt-country o Americana". Nulla di male, tutto questo era sulla cresta dell'onda dieci anni fa e ora è naturale che l'America sia piena di giovani band che con questa musica ci è cresciuta sperando un giorno di poter dire la propria. La loro sfortuna è quella che il sogno lo hanno fatto in tanti, perché l'affollamento di genere nel mondo indipendente è ormai cronico e ingestibile. Sarebbe davvero bello poter scandagliare l'America palmo a palmo per raccontarvi le storie e la musica di ognuna di questi piccoli eroi della roots-music, ma per necessità anche noi siamo costretti a pescare nel mucchio, e non è detto che sia un male se permette di apprezzare con più calma e attenzione un piccolo gioiellino amatoriale come questo Familiar Streets dei Fair Herald. Che, per la cronaca, sono un quintetto di Chicago con look da nerds (guardate il loro divertente video) e aria dimessa, come richiede l'iconografia rock a cui hanno deciso di appartenere. E che come musicisti sembrano il risultato di una clonazione di vecchie glorie di musica roots, sia la chitarra rozza e mai sguaiata di Mark Goldich, la sezione ritmica pigra e quasi mai aggressiva di Dave Brankin e Sean Bacastow o la voce di Mike Bellis, che sembra un Jeff Tweedy a cui hanno tolto un paio di tonalità alte. Nella prevedibilità del mix, la differenza qui la fanno le tastiere di Jimmy Bloniarz, che maneggia pianoforti, wurlitzer e quant'altro necessario per essere degni di quel santino di Benmont Tench degli Heartbreakers che sicuramente tiene appeso al muro della sua camera. Fin qui non ci sarebbero elementi per elevare Famliar Streets al di sopra della sufficienza di rito che possiamo assicurare ai buoni seguaci di un mondo a noi caro, ma quello che ci ha convinti a spenderci parole è la bontà sopra la media di queste dieci canzoni, il fatto che l'uno-due iniziale formato da From Peotone e Whirlwind scalda gli animi laddove quindici anni fa avrebbe scaldato anche le penne per decantarne le meraviglie, e che anche i deliziosi intrecci acustici di Coyote Nowhere e l'heartland rock di Out That Door richiamano la nostra attenzione anche grazie alle divertenti liriche. E poi come non apprezzare ballate rurali epiche come One Smoke, Mythology o Make Me Blue,o la capacità di andare oltre la struttura della canzone per affrontare il lungo travolgente finale di Where Does She Go. Difficile scommettere sul loro futuro, la scarsa varietà di idee non sembra essere preludio di grandi opere, a meno che non finiscano nelle sapienti (e costose) mani di qualche produttore giusto, ma intanto farsi una camminata su queste strade familiari potrebbe essere una delle cose più belle che può capitarvi rovistando nel sottobosco indipendente americano. (Nicola Gervasini) Non avete idea di quante band ci arrivano accompagnate da note che le presentano come "influenzate da Neil Young e dai Replacements", "simili ai Whiskeytown e ai Counting Crows" (in questo caso si buttano nel mucchio addirittura gli Old 97's), e autori di "ballate alt-country o Americana". Nulla di male, tutto questo era sulla cresta dell'onda dieci anni fa e ora è naturale che l'America sia piena di giovani band che con questa musica ci è cresciuta sperando un giorno di poter dire la propria. La loro sfortuna è quella che il sogno lo hanno fatto in tanti, perché l'affollamento di genere nel mondo indipendente è ormai cronico e ingestibile. Sarebbe davvero bello poter scandagliare l'America palmo a palmo per raccontarvi le storie e la musica di ognuna di questi piccoli eroi della roots-music, ma per necessità anche noi siamo costretti a pescare nel mucchio, e non è detto che sia un male se permette di apprezzare con più calma e attenzione un piccolo gioiellino amatoriale come questo Familiar Streets dei Fair Herald. Che, per la cronaca, sono un quintetto di Chicago con look da nerds (guardate il loro divertente video) e aria dimessa, come richiede l'iconografia rock a cui hanno deciso di appartenere. E che come musicisti sembrano il risultato di una clonazione di vecchie glorie di musica roots, sia la chitarra rozza e mai sguaiata di Mark Goldich, la sezione ritmica pigra e quasi mai aggressiva di Dave Brankin e Sean Bacastow o la voce di Mike Bellis, che sembra un Jeff Tweedy a cui hanno tolto un paio di tonalità alte. Nella prevedibilità del mix, la differenza qui la fanno le tastiere di Jimmy Bloniarz, che maneggia pianoforti, wurlitzer e quant'altro necessario per essere degni di quel santino di Benmont Tench degli Heartbreakers che sicuramente tiene appeso al muro della sua camera. Fin qui non ci sarebbero elementi per elevare Famliar Streets al di sopra della sufficienza di rito che possiamo assicurare ai buoni seguaci di un mondo a noi caro, ma quello che ci ha convinti a spenderci parole è la bontà sopra la media di queste dieci canzoni, il fatto che l'uno-due iniziale formato da From Peotone e Whirlwind scalda gli animi laddove quindici anni fa avrebbe scaldato anche le penne per decantarne le meraviglie, e che anche i deliziosi intrecci acustici di Coyote Nowhere e l'heartland rock di Out That Door richiamano la nostra attenzione anche grazie alle divertenti liriche. E poi come non apprezzare ballate rurali epiche come One Smoke, Mythology o Make Me Blue,o la capacità di andare oltre la struttura della canzone per affrontare il lungo travolgente finale di Where Does She Go. Difficile scommettere sul loro futuro, la scarsa varietà di idee non sembra essere preludio di grandi opere, a meno che non finiscano nelle sapienti (e costose) mani di qualche produttore giusto, ma intanto farsi una camminata su queste strade familiari potrebbe essere una delle cose più belle che può capitarvi rovistando nel sottobosco indipendente americano. (Nicola Gervasini)

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