23/11/2009
Rootshighway
Niente da fare, neanche questa è la volta buona per risolvere il difficile rapporto tra canzone d'autore e elettronica, uno dei crucci di tanti eroi della canzone americana (Mellencamp, Prophet, McDermott, la lista di tentativi è lunga). Matthew Ryan è solo l'ultimo che ci sta credendo ancora, e Dear Lover doveva essere nelle sue intenzioni lo zenith di una sperimentazione che è iniziata con qualche registrazione casalinga e ha avuto i primi irrisolti step con il progetto degli Strays Don't Sleep e l'album From a Late Night Highrise, ma anche stavolta dobbiamo registrare solo qualche buon risultato, ma non un vero e proprio successo. Auto-prodotto e auto-distribuito sfruttando le infinite possibilità del mondo web, Dear Lover porta alle estreme conseguenze il tentativo di modernizzare un tipo di struttura dei brani che resta inesorabilmente classica, in quanto da qualunque parte le si rigirino, queste canzoni hanno il marchio di fabbrica di Ryan esattamente come quelle che scriveva dieci anni fa: si parla di angoscia (The Wilderness), solitudine (Your Museum), rapporti umani difficili (Dear Lover) e tutto quanto ha sempre caratterizzato l'affascinante mondo lirico di Matthew. E qui sta forse il problema, nel fatto che ancora una volta ci troviamo di fronte ad un artista che decide di ricorrere alle strumentazioni elettroniche senza prima cambiare il proprio modo di affrontare la scrittura, con il risultato che spesso e volentieri si ha la sensazione di un utilizzo aprioristico di drum-machines e effetti di ogni tipo, quindi, a conti fatti, per nulla necessario. Dividiamo dunque i brani di questo album in tre categorie: prima gli episodi dove l'utilizzo delle tastiere sostituisce perfettamente quello di chitarre e percussioni - anzi, donano forse un qualcosa in più - come l'iniziale City Life, o anche il dialogo tra il drumming nervoso e il tocco di piano di We Are The Snowman. Poi ci sono gli episodi più classici (ad esempio The World Is…, oppure Some Streets Lead Nowhere e il finale The End Of A Ghost Story, che aggiungono pianoforte e finti archi al menu), che vedono in campo lo stesso Ryan dei tempi di Concussion, anche se forse solo la sofferta Your Museum riesce a eguagliare quella perfetta rappresentazione degli abissi umani. E infine ci sono una serie di esperimenti mal riusciti, che vedono gli arrangiamenti confusi, le distorsioni inutili e i ritmi irrisolti della title-track e di The Wilderness (e qui peccato davvero, perché il brano meritava qualche idea migliore), brani semplicemente ordinari come P.S., o veri e propri disastri come Spark, che non consideriamo brutta in quanto brano techno-dance, ma perché anche come techno-dance suona vecchia, con quel controcanto del DJ tanto in voga negli anni 90. Fa davvero sorridere in questo caso pensare che una semplice chitarra acustica nel 2009 suona più moderna, e perfino più alla moda se vogliamo. Questo è il Ryan testardo e solitario di oggi, prendere o lasciare: prendiamo naturalmente, ma non ci toglierete dalla testa che Dear Lover sappia molto di occasione persa. (Nicola Gervasini)
2 commenti:
forse è proprio il concetto che nn passa... troppo cerebrale x essere amato questo esperimento, credo...
...ma io penso che lo stile di ryan possa avere anche un evoluzione poco "roots" o "rock" oriented.
..ma non è ancora questa....
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