JJ Cale
(5 Dicembre 1938 – 26
Luglio 2013)
Lo ricorderemo come lo
schivo per antonomasia JJ Cale.
Da non confondere con lo scorbutico però. Non è vero infatti che JJ Cale odiasse
le luci della ribalta. Semplicemente le affrontava a suo modo: gentilmente.
Tutto era gentile in lui: il modo di cantare, il modo di suonare, il modo di
proporre la sua musica. Anche il modo di non mutarla mai.
Eppure fateci caso: in mano ad altri la musica di JJ Cale esprimeva
potenza. Era potente il riff di Cocaine
nelle mani lente di Eric Clapton, era potente il tiro dato a Call Me The Breeze dai Lynyrd Skynyrd,
era potente l’impatto melodico di Magnolia
dopo l’immersione country-rock operato dai Poco. E’ questo che ci lascia JJ
Cale: l’aver insegnato al mondo della musica a dire gentilmente qualcosa di
potente.
Nemmeno Eric Clapton probabilmente si è accorto subito di
quanto JJ Cale rappresentasse la fine e non l’inizio delle sue ricerche
musicali. Nel 1970 quando nel suo primo album solista interpretò After Midnight, Eric stava cercando a
sud un nuovo suono. Inseguiva Duane Allman, frequentava nuovi musicisti del
nuovo southern-blues per scrollarsi di dosso la pesante eredità di godfather del brit-blues. Poi, dopo vari
tentativi, nel 1977 con Slowhand realizzò un album che era JJ
Cale al 100%, e grazie a lui imbroccò pure il singolo della vita. E l’anno dopo
si registrò un secondo trionfo personale per JJ: una sconosciuta band di nome
Dire Straits, sputata fuori dai pub londinesi senza la minima speranza
commerciale in piena era punk/disco, conquista le classifiche con un disco
d’esordio che trasuda JJ Cale fino al midollo.
Non poco per uno che fino a quel momento aveva raccolto ben
poco della popolarità raggiunta dai suoi brani. Il suo disco d’esordio (il
seminale Naturally) è del 1972, ma lui girava nello show business già
fin dal 1958, anno in cui registrò il suo primo 45 giri a nome Johnny Cale. After Midnight era già uscita nel 1966
come singolo, ma fu solo la cover di Clapton che la rese popolare. Nonostante Naturally
avesse venduto anche discretamente e il singolo Crazy Mama entrò nella Billboard americana, né l’altrettanto
convincente Really (1973), né Okie (forse il suo highlight) del
1975 riuscirono a dargli un minimo di popolarità.
In questi tre album, tutti usciti per l’A&M, il tipico
suono di Cale raggiunge già la piena maturità: blues, cajun, jazz e qualche
rara svisata rock vengono rimestati in un impasto che sarà unico e inimitabile.
Il trucco è il suo modo di suonare la chitarra, dove il concetto di “tocco”
sovrasta quello di velocità, ma il mago è anche il produttore Audie Ashworth (conosciuto tramite
l’amico Leon Russell), che lo seguirà per tutta la vita (morirà nel 2000), e
che saprà rendere le schiere di session-man di lusso del mondo di Nashville
coinvolte nei suoi dischi un gruppo con anima e personalità da vendere.
Eppure negli anni settanta il brano I Got the Same Old Blues venne cantato un po’ da tutti (il primo è
Captain Beefheart, poi arriveranno le versioni di Steve Young, Lynyrd Skynyrd,
Blood, Sweat & Tears e Bryan Ferry), ma è solo con l’album Troubadour
(1976) e Cocaine che il nome
di JJ Cale torna a circolare nelle radio. Ironia della sorte il disco è forse
il meno convincente del suo periodo d’oro, ma a quel punto il suo management
decide che è ora di puntare più in alto e nel 1979 l’album 5 esce per la potente
Island. Insieme ai successivi Shades (1980) e Grasshoppers (1982)
rappresentano il momento della sua piena maturità. Sono album realizzati in maniera
anche fin troppo perfetta, in cui Cale prova anche a sforzare la sua voce per
risultare leggermente più radio-friendly, ma nonostante l’incetta di critiche
positive e una manciata di nuovi classici (Friday,
Mama Don’t, Devil In Disguise), la Island giudica l’investimento a perdere.
Quando #8
esce nel 1983 solo per chiudere un contratto, Cale ha già deciso di ritirarsi
per qualche tempo. I Dire Straits sono in cima alle classifiche ma hanno già
dimenticato la sua lezione, Clapton entra in fase Armani-blues, le nuove leve
non paiono interessate al suo songbook e lui semplicemente decide che non ha
voglia di stare al gioco. Tornerà solo nel 1990 per l’ultimo album da avere
della sua collezione, un Travel Log che ripartiva esattamente
là dove finiva Grasshoppers.
La storia di Cale potrebbe finire qui. Negli anni novanta
provò a rialzare la testa con un trittico di album (Number 10, Closer To You e
Guitar Man) che sposavano (spesso malamente) un’elettronica vecchia e sorpassata,
come se gli anni ottanta Cale li stesse vivendo con dieci anni di ritardo. Il
ritorno nel 2004 con To Tulsa and Back fece subito capire
che il resto della vicenda sarebbe stato un semplice riassunto, e Roll
On del 2009, rimasto infine il suo ultimo disco, non fece che
confermare l’ipotesi. In mezzo Clapton trova il tempo di restituire qualche
favore concedendogli la co-paternità dell’album The Road To Escondido,
per il quale Cale si fregerà di un Grammy Awards che sa più di beffa che di
premio alla carriera.
Il suo nome viene
spesso indicato come l’inventore dello stile “Laid Back” (rilassato), paternità
che perlomeno condivide con Tony Joe White, ma che non gli rende nemmeno
giustizia. Perché la musica di Cale era soprattutto ritmo, e probabilmente
Knopfler fu quello più di tutti lo capì, perché sui suoi riff basò i brani più
sostenuti del suo disco d’esordio come Setting
me Up (non a caso ripresa anche da Clapton), Southbound Again o Water Of
love. Cale avrebbe fatto ballare un intero stadio anche solo solleticando
un giro di blues, e lo avrebbe anche fatto volentieri. Ma non aveva né la voce,
né la tecnica spettacolare, né la scaltrezza di saper vendere bene anche la
propria timidezza di un Clapton o di un Knopfler.
In questo 2013, quando il suo cuore ha deciso di averne
abbastanza, il riff di Cocaine resta ancora
quello che s’impara sulla chitarra a quindici anni dopo che ci si è stancati di
rifare dieci volte Smoke On The Water,
ma è ironico che le giovani generazioni lo riconoscano anche solo perché una
marca di ventilatori (per imperscrutabili vie del marketing) qualche anno fa ha
scelto la sua Magnolia per commentare
un noto commercial televisivo. Sarà che la musica di JJ Cale ha sempre fatto
pensare ad una sudata e calda veranda di New Orleans, ma forse meritava omaggi
migliori.
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