RIDE
OUT THE DARK
No
Quarter
***1/2
La questione che si
pone davanti ad un esordio come quello degli Houndstooth è quale possa essere il confine tra citazione, plagio,
retromania, vago gusto del vintage o la semplice ispirazione presa dal passato.
Di certo quando si ascolta Ride Out The Dark si controlla se il
2013 scritto nel copyright dell’album non sia riferito ad una ristampa di un
disco del 1993 (se non prima), o se sia davvero un album fresco di produzione.
Ensamble di varia provenienza (si va dal Canada a Portland), gli Houndstooth
hanno lo stesso nome di un pattern usato nel mondo delle stoffe,
particolarmente elegante se usato per i cappotti in lana scozzesi, e decisamente
adatto anche per una eventuale première a teatro di queste dieci canzoni. I
riferimenti sono talmente evidenti che sfido qualsiasi altro recensore a
trovare qualcosa di alternativo: si parte dai Velvet Underground (magari quelli
con Moe Tucker al microfono, anche se Francis
ricorda tanto What Goes On) per
arrivare ai Mazzy Star (o agli Opal se vogliamo fermarci un po’ prima). Al massimo
se volessimo essere più moderni si potrebbe sparare anche il nome della Jesse
Sykes più recente e lisergica. Tutto chiaro dunque: chitarre acide, figlie
minori di un Paisley Underground antico, ritmi sinuosi, sognanti, onirici,
accarezzati dalla dolce voce dell’ancor più dolce Kate Bernstein, con qualche rara apertura ai toni maggiori per
accogliere qualche chorus meno
soffocante (Strangers) e tanta voglia
di ascoltare il suono delle proprie chitarre. Al massimo sorprende la capacità
di sintesi di una band che avrebbe anche potuto puntare sull’effetto ipnotico
delle proprie canzoni tirandole anche oltre i quattro minuti con lunghe
improvvisazione alla Grateful Dead, e la capacità di non annoiare nonostante il
tono un po’ narcolettico del disco (un po’ nello stile dei Cowboys Junkies più elettrici).
Forse manca ancora qualcosa a livello di scrittura, e per brani come il singolo
Canary Island o New Illusion che rapiscono anche per la melodia, si ha qualche
episodio quasi totalmente al servizio del suono e non della canzone, ma sono i
peccati veniali di chi vuole far esordire anche un concetto oltre che fare
semplicemente rock. E la ratio degli Houndstooth è che vent’anni fa qualcosa è
rimasto ancora inespresso (singolare poi che l’album esca proprio quando i
Mazzy Star hanno deciso di rimettersi in pista) e che certe soluzioni da West
Coast alternativa degli anni ottanta possono essere rilette e riaggiornate alla
luce dell’ondata indipendente di questi anni. Non ne nasce un capolavoro, ma
forse è l’inizio di un nuovo music-revival che si aggiunge alle tante rinascite
degli anni 2000. Potrebbe anche darsi che un giorno i redivivi Dream Syndicate
sentendo questo disco decidano che forse anche il tornare in studio per
ribadire il concetto possa non essere una così cattiva idea.
Nicola Gervasini
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