lunedì 4 maggio 2015

THE DISTRICTS

THE DISTRICTS
A FLOURISH AND A SPOIL
Fat Possum records
***
Il rock non è il calcio. Nell’arte del pallone, si sa, il talento non basta. Serve anche esperienza, furbizia e testa da campione. Cose che si costruiscono nel tempo. Nel rock invece l’esperienza aiuta, serve, ma il grande fuoco del talento del teen-ager è spesso bastato a generare grandi dischi, pieni di quell’urgenza e spontaneità che sono alla base del linguaggio pop. Nessun dubbio quindi che anche una band di diciannovenni al debutto possa competere con i nomi già consolidati del panorama pop-rock, per cui anche un’etichetta come la Fat Possum, attentissima a cercare nuovi nomi dell’underground da affiancare ai propri cavalli di razza (Black Keys, Band Of Horses e tanti altri), non ha avuti dubbi a concedere la prima occasione ai Districts, quartetto di volenterosi universitari della Pennsylvania. A Flourish And A Spoil è stato prodotto da John Congleton (già visto dietro i mixer per St Vincent e gli Swans) con un target doppio: da una parte mantenere il sound chitarristico di base della band, e dall’altra esaltarne una certa vena radio-friendly, sia mai che in tempi in cui i Black Keys sono riusciti ad entrare chissà come negli airplay più mainstream, non si trovi anche qualche nuovo piccolo fenomeno grazie al quale risollevare il mercato musicale. Niente di male, Roob Grote (voce e chitarra), Connor Jacobus (basso), Braden Lawrence (batteria) e il chitarrista Pat Cassidy sembrano sapere il fatto loro con un mix di riff molto garage-oriented o Black Keys-like, con un uso continuo del gioco di corse, frenate in momenti riflessivi e spesso pischedelici (Young Blood) e ripartenze che movimentano non poco la loro proposta. Il loro pregio maggiore sembra proprio quello di non essere banali nella costruzione dei brani, spesso vere e proprie piccole suite di rock underground, ma dall’altra parte la band sembra ancora avere da imparare sul piano della scrittura, perché a questi dieci brani manca ancora la forza di imprimersi nella memoria dell’ascoltatore al primo, e forse nemmeno al decimo, colpo. Come se restassero ancora troppo in superficie, accontentandosi di aver prodotto un esordio interessante e con tutti i crismi del rock-record moderno, ma senza portare alla causa la voglia di spaccare il mondo e quella sana presunzione che ci si potrebbe aspettare da dei neo-ventenni. Hounds e Suburban Smell potrebbero essere i brani da segnarsi, anche per ricordarsi in futuro di dar loro una seconda chance: si sa che spesso, nell’emozione di essere finalmente arrivati a registrare il primo disco della propria carriera, ci si dimentica anche di imprimergli tutta la personalità di cui potrebbero anche essere pieni, e che qui si percepisce solo a piccole e troppo misurate dosi.

Nicola Gervasini

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