THE DISTRICTS
A FLOURISH AND A SPOIL
Fat Possum records
***
Il rock non è il calcio. Nell’arte del pallone, si sa, il
talento non basta. Serve anche esperienza, furbizia e testa da campione. Cose
che si costruiscono nel tempo. Nel rock invece l’esperienza aiuta, serve, ma il
grande fuoco del talento del teen-ager è spesso bastato a generare grandi
dischi, pieni di quell’urgenza e spontaneità che sono alla base del linguaggio
pop. Nessun dubbio quindi che anche una band di diciannovenni al debutto possa
competere con i nomi già consolidati del panorama pop-rock, per cui anche
un’etichetta come la Fat Possum, attentissima a cercare nuovi nomi
dell’underground da affiancare ai propri cavalli di razza (Black Keys, Band Of
Horses e tanti altri), non ha avuti dubbi a concedere la prima occasione ai Districts, quartetto di volenterosi
universitari della Pennsylvania. A Flourish And A Spoil è stato
prodotto da John Congleton (già visto dietro i mixer per St Vincent e gli Swans)
con un target doppio: da una parte mantenere il sound chitarristico di base
della band, e dall’altra esaltarne una certa vena radio-friendly, sia mai che
in tempi in cui i Black Keys sono riusciti ad entrare chissà come negli airplay
più mainstream, non si trovi anche qualche nuovo piccolo fenomeno grazie al
quale risollevare il mercato musicale. Niente di male, Roob Grote (voce e chitarra), Connor Jacobus (basso), Braden
Lawrence (batteria) e il chitarrista Pat Cassidy sembrano sapere il fatto loro
con un mix di riff molto garage-oriented o Black Keys-like, con un uso continuo
del gioco di corse, frenate in momenti riflessivi e spesso pischedelici (Young Blood) e ripartenze che
movimentano non poco la loro proposta. Il loro pregio maggiore sembra proprio quello
di non essere banali nella costruzione dei brani, spesso vere e proprie piccole
suite di rock underground, ma dall’altra parte la band sembra ancora avere da
imparare sul piano della scrittura, perché a questi dieci brani manca ancora la
forza di imprimersi nella memoria dell’ascoltatore al primo, e forse nemmeno al
decimo, colpo. Come se restassero ancora troppo in superficie, accontentandosi
di aver prodotto un esordio interessante e con tutti i crismi del rock-record
moderno, ma senza portare alla causa la voglia di spaccare il mondo e quella
sana presunzione che ci si potrebbe aspettare da dei neo-ventenni. Hounds e Suburban Smell potrebbero essere i brani da segnarsi, anche per
ricordarsi in futuro di dar loro una seconda chance: si sa che spesso,
nell’emozione di essere finalmente arrivati a registrare il primo disco della
propria carriera, ci si dimentica anche di imprimergli tutta la personalità di
cui potrebbero anche essere pieni, e che qui si percepisce solo a piccole e
troppo misurate dosi.
Nicola Gervasini
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