CHADWICK STOKES
THE HORSE COMANCHE
Nettwerk
***
Chadwick Stokes è
il leader di alcune interessanti band di Boston di questi anni 2000 (spesso
accreditato come Chad Urmston), i Dispatch (5 album tra il 1996 e il 2012, un
trio in qualche modo assimilabile alla Dave Matthews band come filosofia
musicale a metà tra jam, pop e roots-rock) e gli ancor più noti State Radio
(quattro album tra il 2006 e il 2012, di cui il terzo, Let It Go del 2009, è entrato anche nella Billboard americana
grazie al passaparola dei fans). Di suo aveva già prodotto due album (Live At the Brattle Theater del 2009 e Simmerkane II del 2011), ma è da questo
interessante The Horse Comanche che
possiamo senza remore occuparci di lui come di artista maturo e pronto a
solleticare anche i nostri esigenti palati. L’album ha avuto una genesi davvero
particolare, per quanto evidente segno
dei tempi: il nostro infatti ha chiesto ai propri fans di tutto il mondo la
disponibilità a organizzare degli house concerts (massimo 50 invitati) in cui
ascoltare, discutere e scegliere i dieci brani che hanno poi costruito l’album.
Una sorta di via democratica alla composizione che fa storcere il naso per chi
magari vede ancora l’artista come qualcuno che dovrebbe elevarsi dalla massa e
non confondersi, ma se il risultato è interessante è perché poi dopo un anno di
tour, prove e ripensamenti, Stokes ha realizzato il tutto con la dovuta
professionalità. Innanzitutto si è affidato a due mostri di genere, il grande Sam Bean alias Iron & Wine (e basta
ascoltare la conclusiva Walter per
sentirne la pesante eredità) e l’espertissimo produttore Brian Deck, per un
suono puramente indie-folk solo apparentemente scarno. Poi ha lavorato molto
sugli impasti vocali, un po’ Bon Iver, un po’ Fleet Foxes, un po’ John Grant,
un po’ anche sé stesso in alcune buone nuove idee, forse per lo più racchiuse
nei funambolici sei minuti e passa della title-track. Il disco per il resto si
barcamena tra momenti di intimo indie-folk (Pine
Needle Tea), pop stralunati e percussivi (Mother Maple) , strani esperimenti di indie-limbo caraibico (Prison Blue Eyes), l’innesto quasi-rap
di Our Lives Our Time, brano che
gravita in area Decemberists. Tanta carne al fuoco, anche se forse manca il
brano che faccia la differenza, a parte forse il bel singolo New Haven, impreziosito dall’intervento
dei Lucius. In ogni caso un artista da seguire lungo questo suo nuovo percorso.
Nicola Gervasini
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