Il soul non è materia per timidi, anche nelle sue versioni più sofferte e lamentose, necessita di spiccate doti di istrionismo e di esternazione piena dei sentimenti, per cui l'espressione indie-soul appare davvero stridente. Per il resto abbiamo un nuovo bravo emulo in città signori miei, che ci propone un album fresco e veloce che non aggiunge nulla a quanto ci aveva già portato in casa un Aloe Blacc, per dirne uno tra i più famosi. Ma a questo punto una piccola sorpresa: Ray Barnard infatti non è un tipico americano nero in cerca dei propri padri musicali, ma un bianco texano abituato a presentarsi con Stetson di ordinanza. Prima del suo esordio infatti era il leader dei Copperheads, band che deve proprio a Steve Earle la propria denominazione sociale, che hanno realizzato tre album in proprio negli anni 2000 e sono stati usati come concert-band da artisti come Rosie Flores, Jack Ingram, Chris Scruggs e tanti altri. Questo spiega i vaghi sapori roots sparsi anche in questo Where Would I Be Without You (le armoniche e slides di Lost In The Flood ad esempio), un po' meno una voce decisamente soulful e black. Il che davvero dimostra quanto siano finiti i tempi del "razzismo al rovescio" per cui un tempo si pensava che solo uomini dalla pelle nera potessero suonare vero blues e soul, e forse anche evidenzia quanto questi ormai tanti anni di rinascita del soul classico abbiano ormai codificato il genere in regole talmente semplici e lineari, che anche un texano dagli occhi di ghiaccio può far emozionare tra fiati, piani wurlitzer, chitarre wah-wah e ritmi funky-soul. Segnalo poco i brani perché il disco si ascolta con piacere, ma manca delle classiche zampate del fuoriclasse, per quanto Roseville sia intensa, l'apertura di Bone Of My Bones impressioni, e il funky corale diBrothers riporti ai migliori Neville Brothers. In ogni caso la storia del soul non passa da queste parti. |
venerdì 22 maggio 2015
RAY BARNARD
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