Sono un caso più unico che raro
in Italia i Sacri Cuori, band
emiliana che ruota intorno alla mente e alla chitarra di Antonio Gramentieri. La
loro è una storia nata nella nostra provincia, con un gruppo di amici con
l’orecchio teso ai suoni rurali americani, ma con il cuore ben piantato nella
tradizione italiana. Musicisti come anche il percussionista Diego Sapignoli o
il polistrumentista Francesco Giampaoli, che hanno voluto non solo imitare o
ricreare tradizioni lontane, ma provare a far progredire un genere che perfino
negli Stati Uniti è diventato pura nicchia. Delone (Glitterhouse) è
la prima vera importante pietra miliare di un percorso che dopo due album già
più che interessanti (Dauglas and Dawn
del 2009 e Rosario del 2012), è
passata anche attraverso l’azzeccata colonna sonora al film Zoran - Il mio nipote scemo di Matteo
Oleotto. Facile definire cinematografica la loro musica, spesso strumentale,
che qua e là incontra Morricone, ma anche incappa anche molto nel jazz italico,
se non addirittura in vaghe reminiscenze di liscio romagnolo. Ma Delone sta ottenendo riconoscimenti
ovunque nel mondo grazie ad una nuova poliedricità nata anche grazie alle tante
collaborazioni internazionali collezionate negli anni, con una ispirazione più
incline alla forma-canzone che trova sfogo nei brani cantati della straordinaria
vocalist italo-australiana Carla Lippis, che regala con La Danza (presente anche in differente versione in inglese) e una Delone in puro stile alla Nancy Sinatra,
i momenti più memorabili. Anche in questo caso le collaborazioni importanti non
mancano: qua e là aiutano il sassofonista dei Lounge Lizards Evan Lurie, il
chitarrista Marc Ribot (sentito spesso con Tom Waits e il nostro Vinicio
Capossela), Steve Shelley (batterista dei Sonic Youth), Howe Gelb dei Giant Sand, Hugo Race dei Bad
Seeds di Nick Cave, i messicani Sonido Gallo Negro e tanti amici italiani. Il
menu prevede finti temi di commedie mai realizzate (La Marabina, Dirsi Addio a Roma), noir mentali (El Comisario), inevitabili echi di
Sergio Leone (Bendingo), danze sfrenate
(Madalena) e nuove forme di blues (Portami Via, Cagliostro Blues). Tutte
colonne sonore di film che qualcuno dovrebbe prima o poi girare.
mercoledì 25 novembre 2015
martedì 24 novembre 2015
MILK CARTON KIDS
The Milk Carton Kids
Monterey
(Anti,
2015)
File Under:
Ryan & Pattengale Over Troubled Water
In Musica non è mai facile raggiungere il perfetto connubio
tra forma e sostanza. La sostanza, leggi anche il songwriting, è facile che sia
personale e possa avere quel pizzico di originalità che chiunque abbia
necessità di esprimersi riesce in qualche modo a mostrare. Ma la forma è
l’aspetto sempre più difficile, perché crearne una nuova è frutto di un
rarissimo mix tra genio, personalità e studio. E così la storia della musica è
piena, direi pure colma, di gruppi come i Milk
Carton Kids, duo (Kenneth Pattengale e Joey Ryan i loro
nomi) proveniente dalla California, giunto ormai al quarto album. Monterey
è infatti uno di quei prodotti formali e formalmente perfetti, in cui il
modello del duo soft-folk acustico, che dagli ovvi riferimenti a Simon &
Garfunkel e Everly Brothers passa attraverso la lezione poppish degli America
per arrivare ai Lumineers e al nuovo easy-folk revival, viene assunto a unico
obiettivo finale. E’ difficile trovare difetti ai loro intrecci di chitarre
acustiche, o riscontrare smagliature negli impasti vocali che suonano a lungo
provati (esercitatevi ad improvvisare anche un brano semplice semplice come Getaway, non ci riuscirete se non dopo
molte prove). Impossibile non ritrovare sapore di ascolti antichi in una
apertura come Asheville Skies, nel
pigro incedere della title-track, per cui Paul Simon potrebbe chiedere
partecipazione al copyright a prescindere dal numero di battute uguali ad uno qualsiasi
dei suoi brani. E qui sta un po’ il bello e il brutto dei Milk Carton Kids, e
cioè che sono i nuovi capostipiti di una corrente puramente estetica ed
estetizzante del roots di questi anni dieci, dove la forma è tutto, e oltretutto
serve solo a rinnovare una tradizione che i giovani sembravano aver perso (anche
se poi il successo dei Lumineers ha dimostrato che a volte è solo questione del
pezzo giusto al momento giusto e non di sonorità il vincere la guerra della
rete in numero di ascolti e download). A noi però resta un disco piacevole
quanto impalpabile, perché la sostanza manca di quel grado di personalità che
li faccia elevare tra la folla, perché in tutto il disco non c’è un solo
momento in cui si prova ad uscire da uno schema, nessuna piccola auto-violenza,
nemmeno qualche piccolo atteggiamento da indie moderno per cui si possa
presentarli come i nuovi Kings Of Convenience. C’è solo la pura forma di brani
perfettini come Freedom (che rimanda
ad America di Simon), qualche occhiatina a Nashville (High Hopes), ma nulla di più. Se è di forma che avete bisogno,
allora Monterey è il disco per voi: è
ineccepibile e inattaccabile. Se invece ancora credete nella sostanza, sappiate
che arriverete alla fine dei 37 minuti riscoprendo il significato di noia e
banalità. A voi la scelta.
Nicola Gervasini
lunedì 23 novembre 2015
RON SEXSMITH - Carousel One
Ron Sexsmith
Carousel One
(Compass
Records, 2015)
File Under:
Tim Hardin followers
Il vantaggio di seguire la
carriera di Ron Sexsmith è che non c’è grande pericolo di perdersi qualche
puntata fondamentale. Fin dal suo bell’esordio datato 1995, il buon Ron ha
sfornato titoli con regolarità, non offrendo mai niente di molto diverso dal
suo standard iniziale. Si tratta quindi di decidere se vedere il bicchiere
mezzo pieno (in fondo nessuno dei suoi album può essere classificato come
brutto, anzi…) o il bicchiere mezzo vuoto (di fatto l’uomo sembra riscrivere la
stessa canzone da vent’anni). Carousel One, quattordicesimo
capitolo della sua saga, non cambia la sua storia, anche se la produzione
dell’esperto Jim Scott (Foo Fighters
e Wilco tra i suoi clienti) pare dare qualcosa in più rispetto agli ultimi
capitoli. Ron poi in fase di scrittura non si risparmia mai, e anche questa
volta offre un menu di ben sedici 2-3-minute
songs concentrate in 51 minuti, in cui non è mai semplice isolare quanto
davvero vale la pena. Perché poi ancora una volta il punto è sempre quello:
Sexsmith sa scrivere, sa cantare, sa anche ogni tanto provare a uscire dal
seminato della sua solita slow-song melliflua (Getaway Car), ma alla fine non sa mai andare oltre il suo stile.
Incapace di violentarsi stilisticamente, il nostro trova qui abbastanza lampi
di ottimo songwriting per giustificare l’acquisto anche di questo nuovo album,
ma non sufficienti motivi per considerare i suoi dischi dei punti di
riferimento nel 2015. Eppure in fondo gli va storicamente riconosciuto il
merito di aver anticipato molto di quello che sarà la canzone d’autore degli
anni 2000, con palesi influenze sia in ambito roots che in ambito indie-folk.
Eppure se Saint Bernard, Lucky Penny o Lord knows portano nuove gemme al suo
già ben nutrito songbook, il complesso ancora una volta lo vede adagiarsi sul
suo tran-tran espressivo con brani di
ordinaria medietà come Sun’s Coming Out
o All Our Tomorrows. Poco male, in
qualche modo siete già avvertiti sul contenuto ancora prima di ascoltarlo, e
magari poi dalla sensibilità di ognuno dipenderà se vi innamorerete o no del country
suadente di Loving You, della
spensierata Before The Light Is Gone o
di numeri alla Tim Hardin come No One,
alla Elvis Costello come Many Times o
del giro di piano alla Roy Bittan di Can’t
Get My Act Together. Nel finale poi trovate anche la cover che aggiunge
sale alla zuppa, con una bella resa di Is
Anybody Goin' to San Antone (brano reso da famoso da Charlie Pride, ma la
versione di Sexsmith guarda naturalmente a quella di Doug Sahm). Per cui
suonala ancora Ron, noi sapremo già cosa aspettarci.
Nicola Gervasini
lunedì 16 novembre 2015
DAWES
Sono almeno sei anni che ci
provano, e forse ora anche per i losangelini Dawes è giunto il momento del salto di qualità. Il trono dei
paladini dell’Americana che fu, lasciato un po’ vacante dai Jayhawks dopo i
fasti degli anni novanta, potrebbe davvero essere loro se è vero che All
Your Favourite Bands (Hub
records), loro quarto album, li scopre maturi e finalmente convincenti,
dopo tante promesse tradite da un terzo album opaco. Nati come convinti fautori
di un ritorno al West Coast sound alla Jackson Browne (in questo caso To Be Completely Honest lo omaggia apertamente),
con questo album la band di Taylor Goldsmith aggiunge una elettricità alla Neil
Young al loro solito mix di impasti vocali e melodie aperte, in un gioco che
resta derivativo (ma d’altronde anche il titolo dell’album gioca
sull’argomento), ma che almeno trova canzoni di gran livello (Somewhere Along The Way su tutte) e
suoni ottimamente prodotti dall’esperto Dave Rawlings. Anche se trovano un
gusto dell’improvvisazione in studio del tutto nuovo per loro (i nove minuti di
Now That’s It’s Too Late, Maria), Il loro sound malinconico resta
pulito, potremmo quasi dire radiofonico. Come se gli riuscisse il miracolo di
imitare gli Eagles suonando comunque moderni e non troppo costruiti a tavolino.
Il futuro del genere era ieri forse, ma il presente trova con i Dawes nuovi
interpreti degni della tradizione.
Nicola Gervasini
JESSE MALIN - New York Before The War
Non ha più tanto quella certa aria da pusher di
strada Jesse Malin, ma gli anni
passano anche per i rocker più indomiti, e così anche lui. come un novello Lou
Reed, arriva a produrre il suo ragionato affresco della sua città. New
York Before The War (Little Indian) è il settimo album di questo
artista che negli anni 90 giocava a fare il punk con i D Generation, mentre
negli anni 2000 ha avuto una encomiabile carriera solista sponsorizzata da Ryan
Adams e Bruce Springsteen, con i quali condividi sensibilità d’autore (basta
sentire qui alcune ballate romantiche come Oh
Sheena) e poetica da riscatto del perdente di strada. Le sue strade però
sono quelle della grande mela, dove nasce questa summa del suo percorso
artistico, che ai tempi dello splendido Glitter
in the Gutter
del 2007 era anche andato vicino ad un certo successo. Ci sono piano-ballad
melodrammatiche (The Dreamers), ballatone in odore di REM (She’s so
Dangerous, ma Peter Buck si aggira nelle session), stilettate a suon di chitarre
secondo la vecchia lezione dei Replacements (Turn Up The Mains),
folks-songs (The Year That I Was Born) e quei flirt con il power-pop
danzereccio alla Blur di Boots Of Immigration e Death Star. La
rabbia giovanile è divenuta la saggia arguzia del buon osservatore, e così
Jesse Malin si appresta a diventare l’ultimo dei poeti di strada di New York, una
città che ha già avuto la sua terza guerra mondiale
Nicola Gervasini
venerdì 13 novembre 2015
CALEXICO - Edge Of The Sun
Quando si diventa un punto di
riferimento o un paragone obbligato è segno che si è già lasciato un’impronta
pesante nella storia, e ai Calexico non si può certo negare il pieno
raggiungimento di questo traguardo. Ma per Joey Burns, John Convertino e soci
sembrava davvero giunto il momento di smettere di guardare ad un passato che ha
prodotto dischi importanti e molto influenti come The Black Light (1998) e Hot
Rail (2000), ma che negli ultimi anni stava dando l’impressione di avere il
fiato corto. Edge Of The Sun (Anti) si
annuncia dunque come un disco di svolta, e non piacerà a tutti, se è vero che
la band ha deciso di abbandonare il largo uso di suggestivi strumentali da
colonna sonora (qui ci sono solo i tre minuti di Coyoacan) a favore di una serie di canzoni brevi, orecchiabili e
ben definite. Scelta che si può discutere quella di rinunciare al lato più
sperimentale e caratteristico del loro suono, ma è innegabile che il duo ha
avuto la capacità di mettersi in discussione, calandosi nel ruolo da cantautori
(When The Angels Played, Follow The River),
e lasciandosi soprattutto trascinare dalle emozioni dei molti ospiti in studio.
L’influenza più evidente è quella di Sam Beam, alias Iron& Wine, che impone
il suo ego in molti episodi (Tapping On
The Line, World Undone), mentre
tra i collaboratori si segnalano anche Neko Case, Nick Urata (Devotchka) e
Carla Morrison. Edge Of The Sun diventa così una piccola enciclopedia
dell’indie-rock più roots-oriented di questi ultimi 15 anni, in cui il marchio
di fabbrica Calexico (i fiati mariachi di Falling
From The Sky o l’escursione nel tex-mex del singolo Cumbia de Donde) finisce annegato in un tripudio di melodie accattivanti
(Miles From The Sea), sovra-arrangiamenti
(Bullets & Rockets) e timidi interventi
di elettronica. Se li scopriste con questo album non avreste mai l’idea di cosa
intende la frase “un sound alla Calexico” sparsa in mille recensioni di musica
americana di questi anni, ma potreste anche innamorarvi al primo ascolto di un
disco che sembra nato apposta per la veloce e frammentaria fruizione in
streaming. In fondo, se bisogna adattarsi alla modernità, meglio farlo al
meglio come han saputo farlo loro.
Nicola Gervasini
giovedì 12 novembre 2015
BROTHERS KEEPER
In fondo è consolante se ogni tanto in America a qualcuno viene ancora voglia di mettere in piedi una band (o una nuova Band diremmo) dedita alla più classica forma di roots-music. Le speranze di dire qualcosa di nuovo, o di scrivere nuove importanti pagine del genere, sono forse pari allo zero, ma la probabilità di poter produrre ancora della buona Americana sono molto alte, quando nei paraggi si aggira un nostro vecchio conoscente come Jono Manson. I Brothers Keeper sono un trio formato da veterani e session-men di genere come Scott Rednor (voce, chitarre), e la sezione ritmica di Michael Jude e John Michael, per quindici anni utilizzata dal celebre John Oates per le sue sortite soliste. Todd Meadows è il loro primo album, e per certi versi ricorda molto i dischi degli US Rails e di altri combo di validi cultori delle radici musicale statunitensi.
Undici brani scritti dalla band con l'ausilio del citato Jono Manson (anche produttore) e l'armonicista John Popper dei Blues Traveler (vero sponsor-man dell'operazione), e due cover finali che servono solo a ribadire gli ovvi debiti di ispirazione, vale a dire una The Weight della Band forse anche fin troppo riverente e rispettosa, e una più interessante resa di I'll Be Your Baby Tonight di mastro Dylan. Due chicche sempre piacevoli (esiste forse un momento della nostra vita in cui potremmo non avere voglia di riascoltare The Weight, in qualunque versione essa sia?) che potevano anche rimanere relegate alle serate dal vivo, perché in fondo il disco camminava con le proprie gambe anche senza. La storia del fuggiasco per amore di Chamberlain (brano decisamente in stile primi Counting Crows), la malinconia della lontananza decantata in If Only For A While, i duelli chitarra-armonica di Days Go By (qui siamo in pieno territorio Blues Traveler), fino ad arrivare all'elegante southern-blues in stile Gregg Allman di Cold Rain (con un curioso duetto armonica - scratch da rapper nel finale).
E ancora l'alt-country di Why Do You Fall, il bar-boogie muscolare di Nothing To Do, un brano affidato a Jono Manson anche alla voce (Bring The Man Down), a riprova del clima da suonata tra amici del disco (anche se forse, in amicizia, sarebbe stato meglio contenere i sempre un po' troppo invadenti interventi dell'armonica di Popper). Cantata collettiva finale in West Coast style con Still Missing You, e tempo ancora per una ospitata per la fisarmonica di Joel Guzman in Along The Way, prima delle cover di cui abbiamo già detto. Consigliato, ma siete avvertiti: sarà come entrare al bar e chiedere "il solito grazie" ed uscirne felici.
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lunedì 9 novembre 2015
CESARE BASILE
Le ultime notizie su Cesare
Basile e sulla sua indole da indipendente erano quelle di un clamoroso rifiuto dell’ambita Targa del Premio
Tenco, sorta di Sacro Graal della musica d’autore italiana, in segno di
protesta per le politiche vessatorie della SIAE. Lo aveva vinto nel 2013 grazie
ad un disco impermeato da liriche in siciliano, un definitivo ritorno alle
origini dopo un percorso artistico che dall’alternative-rock anglofono degli
esordi con i Candida Lilith e i Quartered Shadows, lo aveva portato a sposare
una formula tutta personale che ha prodotto tanti ottimi dischi (anche per
altri artisti, vedasi la bella collaborazione con Nada). Tu prenditi l'amore che vuoi e
non chiederlo più (Urtovox/Audioglobe) è il più classico degli album in
cui l’artista di turno tira le somme di una carriera, mischiando sapori e
storie nere regionali in lingua (Araziu
Stranu, A Muscatedda) a testi d’autore (Filastrocca
di Jacob Detto il Ladro). A volte
sembra una versione sudista di un disco di Vinicio Capossela (Franchina), ma alla fine è al De André
di Nuvole o Anime Salve che brani come la title-track (che assomiglia a La Domenica delle Salme) o La Vostra Misera Cambiale guardano
maggiormente. Lo aiutano alcuni vecchi amici come Manuel Agnelli, Rodrigo
D’Erasmo o la bella voce di Simona Norato per un album, a tratti (splendido il
blues-siculo di Ciuri), davvero di
altissimo livello.
Nicola Gervasini
venerdì 6 novembre 2015
Mumford & Sons
Non è ancora ben chiaro se i Mumford & Sons siano
dei miracolati del “disco giusto al momento giusto” o se davvero possano
rappresentare una delle realtà guida di una certa musica folk-oriented degli
anni duemila, e di certo con il loro terzo album Wilder Mind (Island) la discussione sarà ancora più aperta. Eletti
paladini del movimento indie-folk britannico nel 2009 con l’album Sigh No More, straordinario quanto
inaspettato successo (più di un milione di copie vendute per un disco nato
indipendente) che ha ridato vita ad un mercato discografico che da sotterraneo
stava diventando sotterrato, la band di Marcus Mumford non aveva bissato con lo
stanco Babel del 2012. Arriva così la
più classica delle clamorose svolte stilistiche operata da una band con il
fiato corto a causa delle troppe aspettative. Potevano rimanere nella loro
pigra e piccola dimensione folk e non avrebbero fatto male a nessuno, invece
loro si lanciano in una rivoluzione elettrica coraggiosa quanto stordente.
Difficile non discutere davanti ad un brano come Believe, che sembra più adatto al repertorio da grandeur-rock dei
Muse che a quello di una band nata come espressione dei buskers di strada, ma fate
attenzione, perché in mezzo a tanta sovrapproduzione radiofonica troverete
anche tracce di un talento (la bella Tompkins
Square Park) che indica che questo pasticcio potrebbe essere un work in
progress verso uno stile tutto loro.
Nicola Gervasini
martedì 3 novembre 2015
BIG STAR
BIG STAR
SOUTH WEST
Nova
***
Bisogna fare attenzione al feticismo rock. Chi scrive è, esattamente
come voi, un assetato di chicche e rarità di ogni grande artista del passato, e
sicuramente, tra ristampe e cofanetti, abbiamo tutti avuto tempo di renderci
conto di quanti tesori siano rimati nascosti nel tempo a causa dei crudeli
meccanismi delle case discografiche. Ma, detto che forse ormai si è raschiato
tutto quello che c’era da raschiare, c’è sempre da fare una distinzione tra ciò
che sarebbe stato un sacrilegio lasciare negli archivi, e ciò che invece
rappresenta sì un valido documento di un’epoca, ma che forse può essere meno
interessante come prodotto discografico in sé. Nel caso dei Big Star il box della Rhino Keep
An Eye On The Sky del 2009 apparteneva sicuramente alla prima
categoria, mentre South West, registrazione di un broadcast radiofonico del gennaio
del 1975, appartiene senza dubbio al secondo caso. L’interesse storico di
questi 34 minuti piuttosto sgangherati (e anche non proprio perfettamente registrati)
è però alto, perché la registrazione coglie un allucinato Alex Chilton nel
pieno del proprio delirio autodistruttivo, intento a presentare l’album
Third (registrato nel 1974, ma in verità pubblicato solo nel 1978 per
mancanza di labels interessate al titolo) eseguendo in veste acustica canzoni
nuove che non faranno parte dell’album (e che verranno recuperate solo anni
dopo nei suoi dischi solisti), una serie di cover più o meno nelle sue corde (la
sua Femme Fatale di Lou Reed era già
nota, più curiosa invece la stonatissima versione di I will Always Love You di Dolly Parton), e versioni di Oh Dana, Jesus Christ o Death Cab For Cutie che certo non
lasciano presagire che un giorno questi brani sarebbero diventati dei classici che
avrebbero fatto scuola per ogni band sotterranea degli anni 80 e oltre. Quasi a
sottolineare lo sberleffo al proprio talento, finale con una The Letter che serve solo a far capire
perché il suo meritato posto nell’olimpo rock è stato poi occupato da artisti
sicuramente meno talentuosi, ma forse un po’ più furbi e capaci nello sfruttare
il proprio successo. South West è dunque un cd per fan e
storici del rock, ma purtroppo fallisce nel soddisfare la voglia di avere per
le mani quel grande live che una band come i Big Star avrebbero meritato nei
loro anni d’oro. E’ però un disco che coglie in pieno lo spirito di Chilton, un
uomo che nel momento di cogliere il successo ha preferito camminare sul lato
selvaggio seguendo cattivi maestri con esecuzioni sofferte e strascicate come
queste (che tanto fanno venire in mente certi dischi di Vic Chesnutt), e che
solo vent’anni dopo diverranno la regola di tutto l’indie-folk moderno.
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