
13/01/2010
Rootshighway
Non avrei mai immaginato che in questi anni 2000 (ormai più che inoltrati) saremmo stati ancora a disquisire di certo folk inglese come di una nuova elettrizzante novità. Eppure il genere sembra attraversare una nuova fase di creativa vitalità, e quel che sembra ancora più incredibile, riscuote pure interesse anche tra le giovani generazioni. Se voi foste dei produttori discografici, quanto scommettereste su un disco di un duo vocale femminile di stampo classico come le Unthanks, due sorelle che sulla carta potevano al massimo far venire qualche nostalgica mania di riesumazione dei vecchi dischi di Kate & Anna McGarrigle (il nome di Kate oggi sembra essere noto solo in quanto madre di cotanto Rufus Wainwright), o, scendendo ancor più nei meandri del genere, delle divine June Tabor e Maddy Prior? Domanda retorica, se non si era capito, eppure già il disco precedente (The Bairns, licenziato sotto il nome di Rachel Unthank & The Winterset) era riuscito a oltrepassare le barriere di genere e aveva riscosso parecchi consensi, e ancora meglio sta andando questo Here's The Tender Coming, che espande gli orizzonti stilistici del duo passando da un suono prettamente pianistico ad uno decisamente orchestrale. Ascoltando queste canzoni sembra quasi di fare un viaggio nel tempo, in un'era musicale in cui in Inghilterra le sperimentazioni del progressive incontravano la tradizione, per cui si potrebbero citare i Fairport Convention, ma si potrebbe anche andare oltre, perché qui le sorelle Rachel e Becky Unthank non hanno avuto paura di osare e esagerare, imbastendo 54 minuti di traditionals per due voci sorretti da archi, fiati e nuovi barocchismi alla Joanna Newsom, per un risultato finale che continua comunque ad essere estremamente ligio alle ferree regole del brit-folk. Siete avvertiti dunque, avvicinatevi a questo disco solo se siete già predisposti ad un certo suono, ad ascoltare gli otto minuti di Annachie Gordon facendovi prendere dalla melodia e dalla lunga romanza raccontata da questa storia popolare, senza fretta di trovare per forza spunti di genio o di novità. Tanto quelli arrivano comunque, nei coraggiosi e riusciti arrangiamenti di piccoli capolavori come Sad February e della autografa Lucky Gilchrist, brani tristi che nascondono tutto il senso nordico della morte come parte integrante della vita stessa. Il difetto del disco sta forse nell'eccessiva lunghezza, più che altro perché la seconda parte fatica a tenere la perfetta tensione creata nella prima, ma anche affrontare brani come At First She Starts di un nome storico del folk come Lal Waterson, avvolgendola in un manto di violini, rappresenta un doveroso laccio con il passato che le Unthanks non hanno nessuna intenzione di sciogliere. E sapere che anche questo contribuisce a questo strano nuovo concetto di "modernità" non può che farmi felice. (Nicola Gervasini)



Davanti a dischi come questo Baby, prima opera della cantautrice Mara Lee Miller - in arte Bosque Brown - dopo due promettenti ep (il primo, del 2005, si chiamava Bosque Brown Plays Mara Lee Miller, con un divertente gioco d'identità degno dell'Elvis Costello più egocentrico), ammetto di arrivare a dubitare delle mie orecchie per qualche attimo. E' un problema mio se non riesco a cogliere in pieno il valore di 13 brani lenti, ipnotici, e spesso mal cantati, che si protraggono stancamente per 40 minuti? Oppure forse Baby è solo la punta dell'iceberg di una generale perdita del senso di come e perché realizzare un disco oggi. L'utilità di Baby sta forse nel presentare una nuova grande songwriter? Non direi: qui si scimmiotta Cat Power, si vagheggia la PJ Harvey di White Chalk e si gioca con mille stili diversi succhiati dall'arida terra del Texas da cui la Miller proviene, riuscendo nella difficile impresa di far sembrare comunque tutte le canzoni sostanzialmente simili. Non che la Miller difetti di stile e know how quando gioca con l'alt-country, con il blues, il jazz e il gospel dei brani vocali a cappella, ma semplicemente le manca qualcuno che la curi da un terribile morbo che sta sempre più invadendo il mondo indie: l'accontentarsi. L'accontentarsi di due plin plin di pianoforte messi in croce, l'accontentarsi di ostentare essenzialità dimenticando la sostanza in qualche anfratto della propria mente, l'accontentarsi di registrazioni da buona la prima, stonature volute o semplicemente inevitabili e atteggiamenti alla moda che celano una generale superficialità. La Fargo preparava il terreno da quattro anni per questo esordio, ma questa volta inciampa su una buccia di banana che si chiama inesperienza, mancanza di tanta gavetta e una gran dose di umiltà. E non è certo un problema mio questo. (Nicola Gervasini)




