lunedì 25 gennaio 2010
J TILLMAN - Year in The Kingdom
07/01/2010
Rootshighway
Mi piacerebbe avere una macchina del tempo e trasportare la marea di "homemade freak-folker" che ha invaso questi anni 2000 direttamente negli anni '70, quando per pubblicare un disco si doveva per forza bussare alle porte di qualche label. Mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche. Mi piacerebbe così capire la vera portata storica di un disco come questo Year In The Kingdom, il suo settimo album in quattro anni e già il secondo del 2009 (dopo l'abbastanza acclamato Vacilando Territory Blues), e tutto questo senza stare a contare gli EP. Vorrei dunque poter confrontare queste secche nove piccole gemme con i grandi dischi di folk d'autore del tempo, scoprire dove sopravvalutiamo il passato e dove sottovalutiamo il presente, forse per abitudine, forse per amore dei grandi nomi o semplicemente per mera constatazione di una realtà.
Se non fosse che non ne esistono quasi più, potremmo dire che J.Tillman sembra un perfetto prodotto di un ufficio marketing moderno: prendi un simil-figlio dei fiori, deprimilo quanto basta perché non si metta a cantare con troppa gioia, fagli crescere una lunga barba d'ordinanza, evita che si diletti troppo con una band fatta di chitarre elettriche e batterie pesanti, e hai il perfetto eroe indipendente dei nostri giorni, quello che piace alla nuova intellighenzia di critici musicali. Non essendo però io uno scienziato pazzo degno di Ritorno al Futuro, mi accontenterò di paragonare questo disco agli ultimi titoli di Bonnie Prince Billy, uno che sta capendo che i tempi sono maturi per un passo avanti, che è vero che le grandi canzoni stanno in piedi da sole, ma che solo l'arrangiamento giusto permette che vengano riconosciute in tutte il loro valore. Qui abbiamo l'esempio più evidente: Tillman, armato di chitarra acustica e vocione gutturale, soffre sulle proprie parole con innegabile intensità, e laddove la title track si adagia in atmosfere e melodie minacciose, brani come Earthly Bodies o Howling Light sono soavi melodie alla Iron & Wine che possono trovare una loro collocazione in certi momenti della nostra giornata (se non vi fate magari troppo sconvolgere dalle visioni mistiche della prima).
Ma è per piccoli capolavori come There Is No Good In Me, e ancor più Crosswinds, splendido brano che getta anche una luce di speranza in mezzo a tanto buio ("anche fino all'ora più scura, c'incontreremo dove ci siamo promessi di rincontrarci"), vale a dire episodi impreziositi da cori e soluzioni strumentali più complesse, che comincio a pensare che anche Tillman sia pronto a "costruire" i suoi dischi perché possano essere ritenuti grandi da tutti. E guai a chi riterrebbe questo come un cedimento alle lusinghe del grande pubblico: in fondo anche nella discografia di Nick Drake, accanto all'essenziale Pink Moon, si trovava il barocco e - diciamolo pure - "commercialmente pensato" Bryter Layter, che ha fatto forse meno scuola, ma risulta ugualmente memorabile.
(Nicola Gervasini)
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1 commento:
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