giovedì 12 giugno 2014

ÁSGEIR

ÁSGEIR
IN THE SILENCE
One Little Indian
***1/2
Si ringrazia John Grant (proprio quello di Queen Of Denmark per intenderci) per averci evitato l’incomodo di dover imparare una lingua ostica e spigolosa come l’islandese. Già Bjork ci aveva fatto la grazie di cantare in inglese, ma per convincere il nuovo enfant prodige dell’isola Ásgeir Trausti ad abbandonarla, ci è voluta la sua autorevole intercessione. E, già che c’era, l’ha pure convinto a togliersi il cognome e presentarsi semplicemente come  Ásgeir. In The Silence di fatto è la versione inglese del suo album di debutto Dýrð í Dauðaþögn, disco  del 2013 che fu comprato da ogni singolo islandese probabilmente, ma che anche l’attento mondo indie internazionale non aveva mancato di notare. Grant non ha effettuato nessun intervento sulla parte musicale, conservando le session originali (tutte con musicisti islandesi), e  semplicemente traducendo in inglese brano per brano e riregistrando la voce del padrone di casa. Forse l’originale, nella sua impossibilità di comprensione dei significati, aveva quell’alone di fascinoso mistero che qui si perde, un po’ come se fosse un film doppiato. Solo che a doppiarsi qui è l’attore principale. Ma il disco, sebbene paghi pegno proprio a John Grant nel proporre quel misto di slow-core scandinavo e pop nebbioso, si barcamena perfettamente tra mille effetti elettronici e bellissimi suoni elettro-acustici (il contrasto tra synth, pianoforte e fiati di Going Home ad esempio è davvero suggestivo). Altrove la memoria va forte e chiara agli Shearwater  (che un brano come Head On The Snow lo scriverebbero volentieri). Ásgeir non alza mai la voce, affida in una frase della title-track tutta la sua poetica (Soft and Fragile, There is a Grace in the Dead of  The Silence), ma riesce a non dare mai la sensazione di ripetersi troppo, se è vero che in mezzo a tanti effetti sintetizzati poi ogni tanto affiora una splendida ed eterea ballata come In Harmony (qui magari i Fleet Foxes avrebbero qualche royalties da pretendere, perlomeno per l’ispirazione) o una vera e propria folk-song nuda e secca come On That Day che chiude degnamente un disco sorprendente, dove forse i troppi pegni stilistici da pagare evitano di gridare al new kid in town. Provatelo magari per prepararvi psicologicamente al prossimo autunno.

Nicola Gervasini

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