ÁSGEIR
IN THE SILENCE
One Little
Indian
***1/2
Si ringrazia John
Grant (proprio quello di Queen Of
Denmark per intenderci) per averci evitato l’incomodo di dover imparare una
lingua ostica e spigolosa come l’islandese. Già Bjork ci aveva fatto la grazie
di cantare in inglese, ma per convincere il nuovo enfant prodige dell’isola Ásgeir
Trausti ad abbandonarla, ci è voluta la sua autorevole intercessione. E, già
che c’era, l’ha pure convinto a togliersi il cognome e presentarsi
semplicemente come Ásgeir. In The Silence di fatto è la versione inglese del suo album di
debutto Dýrð í Dauðaþögn, disco del 2013 che fu comprato da ogni singolo
islandese probabilmente, ma che anche l’attento mondo indie internazionale non
aveva mancato di notare. Grant non ha effettuato nessun intervento sulla parte
musicale, conservando le session originali (tutte con musicisti islandesi), e semplicemente traducendo in inglese brano per
brano e riregistrando la voce del padrone di casa. Forse l’originale, nella sua
impossibilità di comprensione dei significati, aveva quell’alone di fascinoso
mistero che qui si perde, un po’ come se fosse un film doppiato. Solo che a
doppiarsi qui è l’attore principale. Ma il disco, sebbene paghi pegno proprio a
John Grant nel proporre quel misto di slow-core scandinavo e pop nebbioso, si
barcamena perfettamente tra mille effetti elettronici e bellissimi suoni
elettro-acustici (il contrasto tra synth, pianoforte e fiati di Going Home ad esempio è davvero
suggestivo). Altrove la memoria va forte e chiara agli Shearwater (che un brano come Head On The Snow lo scriverebbero volentieri). Ásgeir non alza mai
la voce, affida in una frase della title-track tutta la sua poetica (Soft and Fragile, There is a Grace in the
Dead of The Silence), ma riesce a
non dare mai la sensazione di ripetersi troppo, se è vero che in mezzo a tanti
effetti sintetizzati poi ogni tanto affiora una splendida ed eterea ballata
come In Harmony (qui magari i Fleet
Foxes avrebbero qualche royalties da pretendere, perlomeno per l’ispirazione) o
una vera e propria folk-song nuda e secca come On That Day che chiude degnamente un disco sorprendente, dove forse
i troppi pegni stilistici da pagare evitano di gridare al new kid in town. Provatelo magari per prepararvi psicologicamente
al prossimo autunno.
Nicola Gervasini
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