mercoledì 14 agosto 2024

J. SINTONI

 

J. Sintoni

Where I Belong

(2024, Go Country records/Canto Libero Edizioni)

File Under: Rest and Survive

 

Ai tanti che ogni giorno si chiedono sui social a cosa diavolo possa servire oggi scrivere di musica (se lo chiedono spesso gli stessi che scrivono d’altronde), una delle tante risposte possibili è quella che anche in questo mercato discografico, che mercato più non è (lo definirei una unica grande bulimica svendita di beni mordi e fuggi), l’unica via per poter dire qualcosa di interessante è dare una visione di un artista nel corso della sua carriera. Prendiamo J. Sintoni ad esempio, uno dei tanti artisti italiani di scuola blues che ormai seguiamo da anni, e prendiamo il suo nuovo album Where I Belong. Potremmo facilmente proporvelo scopiazzando una cartella stampa, e contare sul fatto che il personaggio abbia ormai un suo pubblico affezionato che ci leggerà, per quanto commisurato al genere che suona. O magari potremmo commentare canzone per canzone come si faceva nelle recensioni di un tempo, quando i dischi andavano raccontati a qualcuno che ancora non li aveva sentiti e doveva decidere, in base a quello che leggeva, se investirci tempo e denaro (mi pare di parlare di preistoria ormai).

Where I Belong invece ve lo raccontiamo come un bel disco non perché  proponga chissà quali novità (c’è blues, folk, country, tutto insomma), ma perché è un punto di arrivo di un lungo percorso di un artista nato a pane e blues elettrico alla Steve Ray Vaughan (recuperate nel caso A Better Man del 2012), e grazie anche al didattico lungo sodalizio con Grayson Capps, seguito più volte nei tour nostrani, ha virato sempre più verso un genere “roots” di largo respiro. Se Backroads del 2021 trovava proprio in una dimensione da cantautorato americano la proprio reazione all’anno più cupo della nostra storia recente, il più rauco Pickin' on the Ridge dello scorso anno recuperava la veemenza da palco di un classico power-trio hard-blues, non perdendo però di vista il nuovo amore per la scrittura da vero outsider di Austin.

Il nuovo lungo album (ben 15 brani) fa tesoro di tutto, e si presenta come una sorta di confessione personale, adattabile a qualsiasi artista del suo calibro che passa quotidianamente anche su queste pagine, prima fra tutte con l’iniziale Alone with My Songs, presa di consapevolezza di come ciò che si produce oggi vale soprattutto per sé stessi (“Mi son fatto molti amici grazie alle canzoni, poi loro hanno incontrato nuovi amori, e si sono dimenticati le mie canzoni”), o più avanti in Until I Run Out Of Songs (“Vi lascerò alcune buone canzoni, ho fatto del mio meglio, sono nate senza qualità e ci ho lavorato, e andrà avanti, finché non finirò le canzoni”). Insomma, le canzoni servono a vivere, (“Un’altra canzone da cantare, un altro sospiro sulla tua macchina” canta in Lights), solo questo ha senso.

Meglio comunque cantarle, scriverle, e auto-prodursele attorniato dagli amici più noti (Grayson Capps interviene nella ispirata Away From Home, Don Antonio sfoggia la sua sei corde in Until I Run Out Of Songs e Rest and Survive), o dai tanti compagni di viaggio come l’armonicista Marco Pandolfi, Jama, Chris Horse, Thomas Guiducci , Enrico Cipollini, Bati Bertolio, Francesco Boadene e  Andrea Taravelli. Partiamo dunque da questo disco per ritrovare il senso di quella strana pazzia di voler fare questa musica oggi in Italia, perché, come canta lui in Rest And Survive, “Tieni da parte un po’ di follia per sopportare il dolore”.

Nicola Gervasini

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