JJ Grey & Mofro
Olustee
(Alligator, 2024)
File Under: Swamp Music
Non sarebbe facile spiegare al
pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway
abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey &
Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di
chi diavolo stiamo parlando, perché sebbene il combo sia nato anche prima del
2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena
post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater
(che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come
mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione,
perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa
(sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei
riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso
di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non proprio entusiasmo, E
questo nonostante si portino nel DNA il difetto di fondo di molte jam-bands
nate nei 90, e cioè una scarsa originalità nel fare un gran minestrone di
generi e influenze. Non c’è infatti nulla di straordinariamente nuovo nel mix
di southern–rock, soul e funky-music che hanno portato in alto nelle nostre
classifiche dischi come Country Ghetto (2007) o This River (2013), sempre
pubblicati per la storica etichetta di Chicago Alligator che li ha
riaccolti in questa occasione, c’è però un suono splendido, positivamente
condizionato dall’uso dei fiati, una voce adatta al genere, e un pugno di
canzoni che, seppur non scevre di citazionismi e pesanti debiti col passato,
suonano fresche e convincenti.
Dopo 9 anni di pausa da Ol Glory
del 2015, Olustee (nome di un piccolo centro abitato dove nel 1864 venne
combattuta una delle più sanguinarie e decisive battaglie della Guerra Civile
Americana) paradossalmente sembra voler spiazzare con l’iniziale The Sea,
maestosa soul-ballad immersa negli archi che paiono un ingrediente nuovo al
loro menu, ma è solo un diversivo che significativamente verrà ripetuto col
simile finale di Deeper Than Belief. Ma tra i due brani è festa di
ritmi, suoni del sud, chitarre ancor più in evidenza del solito (da mettere in
repeat la title-track per puro godimento d’udito), brani ancora più semplici e
diretti persino negli ermetici titoli (Rooster, Wonderland, ecc..). Il
cuore di Olustee è un disco che riparte esattamente da dove si erano fermati,
con nuovi brani da mettere in una ideale compilation per un viaggio da “On the Road”
(Seminole Wind, Top Of The World), e accorate soul-ballads col santino
di Otis Redding nella tasca (On A Breeze, Starry Night, Waiting). Ma,
soprattutto, con l’ennesimo rammarico di avere poche speranze di poter portare
in Italia un gruppo così numeroso che non avrebbe senso ascoltare in forma
ridotta, e oltretutto con scarse possibilità di conquistare tanti cuori tra i nostri
conterranei che questa musica, siamo convinti a torto, la danno ormai per
scontata. E’ proprio il caso di dirlo: bentornati.
Nicola Gervasini
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