The
Church – Eros Zeta and the Perfumed Guitars
Easy Action - 2024
“A volte le canzoni migliori escono quando non ti aspetti di scriverne una” diceva Peter Buck dei R.E.M., e potremmo quasi allargare lo stesso discorso agli album. Prendete ad esempio Eros Zeta and the Perfumed Guitars, il venticinquesimo album degli australiani Church, band culto dell’underground degli anni 80 (che ebbe anche il proprio quarto d’ora di gloria con la hit internazionale Under The Milky Way), che non ha mai smesso di pubblicare e suonare un solo attimo dal 1980 ad oggi. Erano diventati un po’ una di quelle realtà che vivono su glorie passate pur non perdendo mai gusto e voglia di suonare, e tutti i loro album, diciamo da metà anni 90 ad oggi, sono più che degni della sigla, seppur nessuno sia rimasto impresso nell’immaginario dei fans quanto i primi, e raramente li si è visti in alto in qualche classifica di fine anno delle riviste che pur li continuano a venerare.
Per questo tutti noi accogliamo sempre un nuovo disco dei Church come una piacevole abitudine, anche se negli ultimi anni hanno rallentato il ritmo. Ma l’anno scorso un po’ di nuova verve al loro mito sembra averla data l’album The Hypnogogue, e mi sento di dire che forse addirittura questo lungo e apparentemente sconclusionato Eros Zeta and the Perfumed Guitars riesca a risultare ancora più piacevolmente curioso. Il disco è stato registrato nelle stesse sessions del suo predecessore, e, addirittura, inizialmente venduto come chicca per fans nei concerti, e anche il fatto che non sia un ordinato concept come The Hypnogogue gli dà subito un’aria da outtakes-record.
Ma anche se poi effettivamente lo è, è un disco che mostra il loro lato sia più sperimentale e psichedelico, ma anche più rauco e memore della loro prima natura da garage-band australiana. Insomma, nel suo essere lungo e irrazionale, l’album ha molti momenti in cui la palpebra abituata al tran-tran un po’ pigro della loro più abituale produzione, si alza e si chiede cosa stia succedendo. Della formazione originale è rimasto solo Steve Kilbey (il batterista Tim Powles fu imbarcato nel 1994), che oltretutto spesso gira in tour da solo con le canzoni della band (doveva venire poche settimane fa anche in Italia ma è stato bloccato da problemi di salute), il che potrebbe far pensare ad un progetto ormai solista, ma va detto che i più recenti acquisti alle chitarre e basso (Ian Haug, Jeffrey Cain e Ashley Naylor) si sono adattati al puro Church-sound in modo credibile, quasi non facendo percepire la mancanza degli storici Peter Koppes e Marty Wilson-Piper.
70 minuti di musica, qualche inevitabile momento ripetitivo o fin troppo ovvio, ma anche una band che sfrutta l’entusiasmo dei nuovi giovani assunti per ritrovar la voglia di fare jam in studio (A Strange Past) o di andar dritti al risultato con riff-songs d’altri tempi. Credo che più che una lezione di stile per le giovani leve, si tratti più che altro di un ribadire che la lezione che ha in mente Steve KIlbey dopo 45 anni di carriera sia ancora l’unica che si può impartire per capire cosa vuol dire “fare rock” in anni in cui il concetto pare diventato sempre più sbiadito e fumoso
Nicola Gervasini
VOTO: 7
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