Kaia Kater
Strange Medicine
(2024, Free Dirt
Records)
File Under : Talkin’ Bout
the Revolution
Non so se vi ricordate ancora uno dei più controversi episodi
della storia militare statunitense, l’intervento a metà anni 80 nell’Isola di
Grenada per destituire il governo filo-comunista di Maurice Bishop, perché proprio
il padre di Kaia Kater fu uno degli abitanti dell’isola che nel 1986 approfittò
di un programma di emigrazione in Canada conseguente a quella invasione. E deve
essergli sembrata un paradiso Montreal dopo una esperienza di guerra, come
anche poter realizzare il sogno di poter mandare la figlia a studiare in una
esclusiva Università del West Virginia. Ma lì la giovane Kaia ha dovuto sperimentare
sulla propria pelle quanto razzista, patriarcale e per nulla inclusiva possa
essere la società statunitense, ma per fortuna poi esiste la musica a salvarci
l’anima, e forse anche la pelle. Nasce da lì il suo interesse per il folk di protesta
tradizionale, più che di Bob Dylan parliamo proprio di quello di Odetta o Pete
Seeger, e anche l’indicare Nina Simone come proprio punto di riferimento umano
e artistico la dice lunga sulla sua formazione.
Già nell’album Grenades del 2018 ci aveva raccontato
la storia della sua famiglia e le sue sofferenze, ma con Strange Medicine
la giovane folksinger fa davvero un gran passo avanti in termini sia di
scrittura che di produzione. Nonostante i suoni siano decisamente più pieni ed
elaborati, restiamo comunque sempre in ambito folk, anche fieramente come ci
racconta Maker Taker, piccola invettiva contro le logiche del mercato
artistico. Ma già la partenza un po’ allucinata di Witch fa capire che
ci stiamo muovendo su terreni anche più sperimentali (anche grazie ai corposi
arrangiamenti di Franky Rousseau, già visto all’opera al fianco di Andrew Bird),
quasi più alla Donovan nella sua seconda fase mi viene da dire, tornando a
citare eroi di altri tempi, ma potremmo anche citare Emma Tricca ad esempio. E
proprio Witch fa capire che la Kater va oltre i racconti personali e passa
direttamente all’ invettiva sociale prendendo a prestito la vicenda delle
streghe al rogo, probabilmente il simbolo storico preferito quando si deve
parlare di oppressione delle idee e negazione delle libertà. Salvo poi tornare
sulla storia di Grenada coinvolgendo nientemeno che Taj Mahal in Feldon,
o alle riflessioni più personali di In Montreal (un bel duello
tra banjo e volino) e Often As An Autumn.
Il campionario acustico si completa con il fingerpicking di The
Internet o le atmosfere un poco più sofisticate di Foodlights. Anche
se la vocalità è molto diversa, non può non venire in mente la prima agguerritissima
Tracy Chapman vedendola in azione, anche se la Kater pare voler far tesoro di
più influenze per arricchire il suo folk, pur rimanendo ancora concentrata
sulla serie di messaggi al mondo (History in Motion sa quasi di
proclama) di una donna che ha tanta energia, ma anche tanta rabbia da sfogare.
Un disco antico nell’ossatura ma moderno nella forma, ma soprattutto vivissimo nello
spirito, che soprattutto ci porta la buona notizia di una nuova canzone militante
che pareva ormai sparita da un mondo indie-folk tutto rivolto al racconto della
propria sofferta intimità. E’
invece il momento di “trasformare ogni veleno in una medicina”, e sono proprio
queste le parole di Herbie Hancock che la Kater cita per spiegare il titolo del
disco. E noi da buoni dottori del folk questa medicina ve la prescriviamo con
l’avvertenza di eccedere pure nel dosaggio.
Nicola Gervasini
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