mercoledì 14 agosto 2024

IRON & WINE

 

Iron & Wine

 Light Verse

(2024, Sub Pop Records)

File Under: Middle Age Folk

Quando certi autori sono ormai diventati dei veterani nei nostri ascolti corriamo il rischio di darli un po’ per scontati, di dimenticarci perché a suo tempo abbiamo pensato fossero artisti in grado di fare la differenza. Dico questo perché registro molto meno clamore intorno alla nuova uscita del progetto Iron & Wine di Sam Beam, probabilmente perché, dopo che negli anni zero aveva scritto alcuni dei capitoli migliori della storia dell’indie-folk di quel periodo con album come Our Endless Numbered Days e The Shepherd's Dog (tra l’altro entrambi in grado di vendere circa 200.000 copie, che nel genere non sono affatto poche), negli ultimi dieci anni ha pubblicato un solo album (il valido ma non sempre a fuoco Beast Epic) e tre in collaborazione con altri artisti (Ben Bridwell, Jesca hoop e Calexico).

Light Verse arriva un po’ in sordina, eppure è il disco che mette un po’ d’ordine nella sua musica e nel suo songwriting. “Registrare quest’album è stato un po’ come ritrovare la luce in fondo al tunnel” dice Beam presentandolo, e meglio di così non si potevano descrivere questi dieci brani ariosi, pieni di melodie finemente costruite, arrangiamenti mai pesanti e sempre ben studiati, perfettamente bilanciati tra il folk essenziale dei primi album e le ardite costruzioni di un disco bello e complesso come Kiss Each Other Clean.  Disco autoprodotto grazie alla piena fiducia datagli dalla Sub Pop sul risultato finale, l’album è stato registrato con l’aiuto di una cerchia di amici come il tastierista Tyler Chester, il bassista Sebastian Steinberg e David Garza come seconda chitarra, più contributi da altri artisti. Fiona Apple poi impreziosisce le melodie di All in Good Time in un bel batti e ribatti vocale, ma per il resto il protagonista è di nuovo solo lui, con una scrittura matura che per qualcuno forse suonerà fin troppo mainstream (provate ad immaginare la radiofonica Sweet Talk in uno dei migliori album degli America e non farete alcuna fatica), o spogliato di quella naiveté un po’ freak che lo caratterizzava nei suoi primi anni (la pacificata quiete da uomo in pace con sé stesso di Bag of Cats), ma che dimostra che l’artista ha una statura in grado di poterlo supportare per tutta la sua carriera, che a 50 anni compiuti giusto nei prossimi giorni, ci immaginiamo ancora lunga e piena di soddisfazioni.

Nel disco poi Beam aggiunge ogni tanto qualche orchestrazione sullo sfondo (arrangiati da Paul Cartwright), che diventa però protagonista assoluta nella tesissima e straordinaria Tears That Don't Matter, unico brano che si discosta dalla semplicità dell’insieme. Un Beam sereno e finalmente conscio dei suoi mezzi ci saluta quindi con l’ottimismo emotivo di Angels Go Home e ci regala un piccolo gioiello ormai non più catalogabile come indie-folk, ma puro cantautorato di qualità.

 

Nicola Gervasini

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