13/03/2009
Rootshighway
VOTO: 8
Perché Amy Speace dovrebbe avere qualcosa in più delle altre? Produce un country imbastardito con chitarre rock, come già Lucinda Williams e Steve Earle prima ancora di lei. Ha una bella voce, sempre abbastanza roots-oriented, ma non particolarmente riconoscibile tra le tante. E con Lucinda condivide anche una lunghissima gavetta (ma lei nella vita ha fatto tutt'altro che la cantante) e un certo piglio da maschiaccio che le fa preferire i giubbetti di pelle ai vestitini con i merletti. Eppure se già il suo esordio per la Wildflower di Judy Collins (Songs for Bright Street) aveva convinto, questo The Killer In Me (in verità il quarto album della sua carriera) evidenzia una ulteriore maturazione del songwriting, che la conferma come una delle realtà più vive del momento. Rispetto al predecessore, la Speace non ha cambiato squadra: ad accompagnarla ci sono sempre i Tearjerks con la chitarra impastata di polvere rock di James Mastro, un passato nei Bongos negli anni 80 (una band di rock sotterraneo in stile Feelies) e quattro anni fa chitarrista dell'Ozzy Osbourne post-sit-com di MTV. Mastro qui appare anche in veste anche di produttore, e siccome due anni fa ha fatto faville con la sua sei corde nell'album Shrunken Heads di Ian Hunter (contribuendo al suono molto americano di quel disco), ha coinvolto il vecchio leone del glam-rock inglese anche in questa avventura, dove la voce di Ian fa da contraltare a quella di Amy in più di un brano. The Killer In Me appare un album riuscito fin dai primi ascolti, contiene brani molto semplici e orecchiabili come Better, This Love o Something More Than Rain, che potrebbero anche indurvi a lasciare il disco nella vostra cartella "ascolti distratti", ma basta passare dalle parti di Blue Horizon, splendida desertica marcia funebre che sa molto più di Austin che della sua New York, per capire che qui le cose girano per il verso giusto. Amy Speace e il suo team sono bravi a intuire quando è il caso di lasciar parlare la canzone senza troppo aggiungere (l'iniziale Dog Days ad esempio, ma anche la riflessiva Haven't Learned A Thing), oppure infarcire un brano di per sé già teso come Storm Warning con suoni e rumori sinistri. Ne esce un disco vario, che utilizza risaputi mid-tempo da Nashville all'ora della pennichella come quello della title-track, ma li colora con bei testi che scavano nel profondo delle sue relazioni amorose. Il meglio del disco arriva nel finale, con la travolgente cavalcata di Would I Lie, gli isterici cambi di ritmo e tono di Dirty Little Secret (probabilmente il capolavoro del disco), la ritmata border-song di I Met My Love, e l'emozionante lungo finale di Piece By Piece. Proprio quando scrosciano gli applausi, c'è tempo per il bis della bonus-tracks, la folk-song di protesta Weight Of The World, che la padrona di casa Judy Collins ha già battezzato "la migliore canzone anti-guerra che io abbia mai sentito". Sarà pure marketing spiccio, ma detto da una che ne ha interpretate mille, qualche cosa significherà pure. (Nicola Gervasini)
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