martedì 31 marzo 2015

THE WHO

I Beatles erano la melodia, i Rolling Stones il ritmo, i Kinks la satira pop…ma gli Who, per i giovani londinesi del 1965, furono un vero e proprio urlo di battaglia. Alla ragionata compostezza dei fab four, all’istintività del blues delle pietre rotolanti e all’ironia dei Kinks, Pete Townshend e soci contrapposero un suono fracassone (grazie anche ad un batterista distruttivo come Keith Moon), testi da inno generazionale (My Generation basta e avanza come esempio), e una veemenza sul palco che sarà di esempio e ispirazione ha molti eroi dell’hard rock prima (Led Zeppelin in primis), e del punk poi. Oggi forse sono rimasti meno icone dei loro colleghi, vuoi perché il frontman Roger Daltrey non è mai stato un personaggio particolarmente interessante se non per la gran voce, vuoi per la timidezza del bassista John Entwistle, vuoi perché Pete Townshend, vera mente creativa della band, non ha mai avuto un carattere e una immagine vendibile come modello, se non per i mille chitarristi che ne hanno imitato le particolari movenze (e le tante chitarre distrutte sul palco). A conservare un alone di mito personale resta dunque il funambolico batterista Keith Moon, morto come un vero rocker nel 1978 per una dose eccessiva di farmaci. La leggenda nel loro caso sono soprattutto una serie di album che ancora oggi campeggiano in ogni classifica epocale che si rispetti (la triade Tommy – Who’s Next – Quadrophenia, pubblicata tra il 1969 e il 1973, resta l’apice della band). Ma prima ancora di raggiungere la maturità, gli Who della metà degli anni sessanta incarnarono meglio di chiunque la voglia di libertà e liberalizzazione dei costumi della giovane borghesia londinese. E così se i rocker delle periferie povere trovavano nei Rolling Stones la propria satisfaction musicale, i giovani rampolli figli di papà invadevano le strade con Vespe e Lambrette rigorosamente equipaggiate con svariati specchietti retrovisori al grido di I Can’t Explain. Prospettive diverse per un'unica esigenza: il cambio epocale dei costumi e la voglia di costruire un futuro diverso da quello pensato dai loro padri. La brillante stagione degli Who si conclude proprio con Quadrophenia: il resto della discografia parla di album non più così storici (sebben The Who By Numbers e Face Dances siano comunque di valore), di un Pete Townshend più concentrato su una carriera solista che di fatto darà frutti migliori, e di un Roger Daltrey incapace di costruirsene una credibile. Ma un qualsiasi loro concerto resta da sempre la loro migliore opera rock.


Nicola Gervasini

sabato 28 marzo 2015

BOB SEGER

L’anno prossimo Bob Seger compirà 70 anni, età pesante per un rocker tutto rabbia e energia, ma sarà per quello che, nonostante la sua attività concertistica continui ad essere intensa e di gran livello, il vecchio leone di Detroit ha presentato il nuovo album Ride Out come il suo atto finale. Anche se parrebbe ingiusto darlo per cotto, non si può biasimarlo se si è chiamato fuori, visto che la nuova raccolta (15 pezzi se comprate la deluxe edition) non sembra aggiungere davvero granchè alla sua onorevolissima carriera. La ricetta non cambia: blue collar-rock da era industriale del secolo scorso (It’s Your World), ballatone romantiche (You Take Me In, All Of the Roads), brani da gita in Harley Davidson nel Grand Canyon (la title-track), country (The Fireman’s Talkin’), blues (Hey Gipsy, Adam and Eve) e un pugno di cover che vanno dall’azzeccatissima California Stars di Woody Guthrie (brano riesumato a suo tempo dai Wilco con Billy Bragg), una Detroit Made di John Hiatt che gli si cuce addosso al primo colpo, e qualche passaggio di routine come una Devil’s Right Hand di Steve Earle un po’ loffia. Discutibile la copertina e la produzione (voci filtrate e fiati fatti col synth non si possono più accettare in un disco rock del 2014), encomiabile invece l’abnegazione alla causa di un rock guerriero e stradaiolo che, nonostante la benzina sia inesorabilmente finita, ci mancherà.

giovedì 26 marzo 2015

BELLE BRIGADE

THE BELLE BRIGADE
JUST BECAUSE
Ato records
***
Se dovessi dire cosa ricordo con più piacere del cofanetto-tributo a Bob Dylan uscito un paio di anni fa per Amnesty International (Chimes of Freedom – The Songs of Bob Dylan) non avrei dubbi nel citare la versione di No Time To Think dei Belle Brigade. Innanzitutto per la coraggiosa scelta di un brano poco conosciuto e decantato, uno di quei lunghi e verbosi tour de force dylaniani che non invogliano certo ad una rilettura. E poi perché i fratelli Barbara e Ethan Gruska in quel caso meglio di altri hanno saputo far loro il concetto di reinterpretare un brano con rispetto dell’originale tirando comunque fuori qualcosa di nuovo. Prima di allora dei Belle Brigade si era parlato nel mondo indie per quel loro delizioso disco di esordio omonimo uscito nel 2011, con paragoni che  arrivavano a qualcosa intorno agli “Everly brothers indie”. Just Because è il loro atteso seguito, e subito evidenzia come il duo abbia voglia di stupire con molte variazioni sul tema, pur conservando l’impronta soft-pop delle proprie composizioni. In certi momenti sembra quasi di sentire gli Iron & Wine di The Sheperd’s Dog, per quel gusto di riempire di suoni e percussioni anche il brano più minimale (Be Like Him), in altri invece si lasciano andare in ritmi e melodie decisamente più esuberanti (How I See It, Not The One). Non sorprende quindi che la Reprise si sia rifiutata di pubblicare il disco nonostante avesse una opzione per la distribuzione, lasciando alla indipendente ATO il coraggioso compito di dare luce a questi dieci piccoli bozzetti easy-indie che hanno forse il difetto (o il pregio?) di essere difficilmente catalogabili. Troppo leggeri per competere nel difficile e affollato mondo della folk-song indipendente (When Everything Was What It Was), troppo spensierati per incarnare il disagio dei nostri tempi (Everything for a Stone), troppo complicati  per produrre delle semplici pop-song cantabili in macchina (Metropolis). Al duo i complimenti per essere riusciti comunque a non sembrare mai banali o già sentiti, ma alla fine non si può dire che tutto funzioni alla perfezione, e una certa mancanza di idee chiare sul risultato da raggiungere la si sente. Restano un pugno di canzonette godibili e intelligenti, che un domani potrebbero anche diventare mature e sorprendenti se si ha la giusta pazienza

Nicola Gervasini

lunedì 23 marzo 2015

COVES

COVES
SOFT FRIDAY
Nettwerk
***1/2


Quando si maneggia un disco di esordio pare sempre quasi un obbligo fare nomi e riferimenti, inquadrare il gruppo in un movimento rock e fare tanti auguri per il futuro. Nel caso dei londinesi Coves poi la tentazione è forte, perché poi la voce della singer Beck Wood non può non ricordare quella di Hope Sandoval dei Mazzy Star, perché il polistrumentista John Ridgard, che con lei completa il duo, non può non essere uno che passato l’adolescenza consumando i dischi dei Velvet Underground (anche se lui ama citare i Jesus & Mary Chain). Però alla fine quello che esce da questo Soft Friday è qualcosa di unico, sebbene assemblato con i pezzi di ricambio di tutta la storia del rock. Ce n’è per tutti qui: suoni roots (Honeybee), suoni new wave anni ottanta (Last Desire), suoni indie-rock (Let The Sun Go), persino un quasi- riff-rock con l’ottima Cast A Shadow. Su tutto però giganteggia la voce lenta e eterea della Wood, ancora lontana forse dalla magia della Sandoval, ma decisamente a suo agio anche quando ritmi e suoni si alzano, come nella finale Wake Up, brano che chiude in crescendo un disco breve (39 minuti) ma alquanto vario ed elaborato. E se la Wood non offre poi troppe variazioni sul tema come vocalist, ci pensa John Ridgard a divertirsi con ogni tipo di strumento, dai sintetizzatori all’armonica passando per chitarre, drum-machines, loop e chi più ne ha, ne metta. Forse ancora malati di quella voglia di stupire al prime colpo e comunque vagamente inquadrabili nel movimento di revival di certi suoni degli eighties, i Coves rinfrescano una tradizione dark (provate anche a leggere i testi decisamente nichilisti di alcuni brani) aggiornandola con quanto è successo negli anni 2000 e forse anche con qualche idea nuova. Non siamo ancora dalle parti del disco importante, ma potremmo anche scommettere che di un musicista intelligente e a tutto tondo come John Ridgard sentiremo ancora parlare, magari anche come produttore.

Nicola Gervasini


giovedì 19 marzo 2015

SPIKE

Spike
100% Pure Frankie Miller
(Cargo, 2014)
File Under: Frankie Who?
L’idea è talmente folle che era impossibile non segnalarla: fare un disco tributo a Frankie Miller, ma non partendo dai suoi classici degli anni settanta (per quanto sfigato sia stato come artista, ne ha fortunatamente avuti tanti), ma da una serie di inediti che lo sfortunato eroe ha lasciato irrisolti e mai registrati nel corso dei tanti anni di inattività dagli anni ottanta in poi. Per un simile strampalato progetto ci voleva un altro folle del rock, il redivivo Spike, frontman ancora non del tutto consumato dall’alcool dei Quireboys, talmente innamorato della musica di Frankie Miller da produrre forse il suo lavoro migliore dai tempi del glorioso A Bit Of What You Fancy del 1990. Non avendo originali con cui comparare questi brani, ci si fida della sua interpretazione, che non è né più né meno quella di un buon disco dei Quireboys, con chitarre in primo piano e blues&rock ad alto volume a spaccare le casse. Solo Bottle Of Whisky fu registrata da Miller, ed è quindi un rammarico sapere che grandi pezzi rock come The Brooklyn Bridge, Cocaine (realizzata anche come singolo) o Amsterdam Woman (duetto con Ian Hunter) debbano vivere solo in queste versioni un po’ fracassone (chi conosce i Quireboys ha bene in mente cosa intendo). Spike comunque ci mette passione e devozione, anche se la sua voce da Bon Jovi con la raucedine non sempre è quella giusta, e forse eccede nella faciloneria quando affronta le ballate romantiche come I’m Losing You o il duetto in chiave country con Bonnie Tyler di Fortune (bello scontro di voci rauche comunque). Puro 100% fun-rock dunque, con una pletora  di grandi testimoni dell’epoca come ospiti (nientemeno che Ron Wood alla chitarra in alcuni brani e Simon Kirke  e Andy Fraser dei Free in sezione ritmica ), e immagino che il buon Frankie abbia apprezzato l’omaggio, sperando che gli serva a ritrovare la voglia di registrare questi brani. Che saranno classic-rock ormai completamente fuori dal tempo, ma continuano ad essere un esempio di alta scuola che era giusto non perdere.


Nicola Gervasini

lunedì 16 marzo 2015

NEIL YOUNG


 Neil Young 
Storytone
[
Warner 
2014]
www.neilyoung.com

 File Under: …and his Large Band

di Nicola Gervasini (04/11/2014)
Apriamo qui una discussione tra fans di Neil Young, quali penso tutti in qualche misura siamo da sempre. Partendo da una provocazione: Storytone non sarà mai ricordato come uno dei grandi dischi di Neil, ma è probabilmente il suo sforzo più interessante (che non vuol dire necessariamente il migliore) dai tempi di Mirrorball. E qui immagino la levata di scudi degli hard-fans che ancora devono scrollarsi di dosso i pomposi arrangiamenti del cd orchestrale di questa nuova fatica, e magari non vedono l'ora di tornare a scuotere la testa e i pochi capelli rimasti a tutti noi over-40 sulla sbornia elettrica di Psychedelic Pill. Eppure Storytone, magari da prendersi nella versione deluxe con in più le versioni demo dei nuovi pezzi, conferma che dopo il grande sonno creativo degli anni zero, in cui Young non ha mai rischiato e ha prodotto una serie di album "alla Neil Young", i suoi anni dieci sono tornati ad essere coraggiosi. Nel bene e nel male è tornato a fare cose irricevibili (A Letter Home è riuscito pure a far rivalutare Landing On Water), ad azzardare spinose collaborazioni (Le Noise), si toglie sfizi personali (Americana), pur continuando a ritrovare i soliti vecchi amici per le solite cavalcate rock (Psychedelic Pill).

Ma solo Storytone ha il grande merito di essere davvero un disco nuovo nella sua discografia. Non che non si fosse già cimentato in un duello con un orchestra (basta pensare anche solo a There's a Word e A Man Needs A Maid su Harvest), ma qui Young ha sapientemente deciso di provare tutte le possibilità stilistiche offerte dalla presenza di una big band di ben 92 elementi, e scusate se abbiamo dimenticato qualcuno nel conto. Con risultati per forza di cose alterni, sorprendenti, spiazzanti, indigesti o esaltanti a seconda del vostro gusto personale. Ma quello che è importante è che il disco è vivo, le canzoni sono quelle giuste, e per gustarne appieno la buona finitura è importante procurarsi anche le raw-versions, forti di interpretazioni curate e sentite che fanno dimenticare la fastidiosa sciatteria di A Letter Home. Il vero Storytone, quello arrangiato, offre comunque spunti di gran valore: se Plastic Flowers con il suo piano è brano già sentito (proprio in Sleeps With Angels c'erano due episodi simili), la tensione da colonna sonora da thriller-movie del singolo Who's Gonna Stand Up? funziona bene, così come il blues elettrico tutto grandi fiati di I Want To Drive My Car o il numero swing alla Frank Sinatra di Say Hello To Chicago.

A voi poi scegliere se accettare i melò solo archi di Glimmer o Tumbleweed, se il fatto che Like You Used To Do riporti alla mente i tempi di This Note's For You sia un fatto positivo o meno (il disco è prodotto dallo stesso team di allora, i Volume Dealers, che poi sarebbero lui e Niko Bolas), se è opportuno che lui con la sua voce si lanci nelle melodie ardite di I'm Glad I Found You. Notate invece che quando il nostro torna alla sua tipica ballata acustica, sofferta e sussurrata, sa ancora toccare le corde giuste (When I Watch You Sleeping e All These Dreams). Siamo d'accordo dunque, non sarà il suo capolavoro, ma a quasi settant'anni suonati quest'uomo ha saputo ancora sorprendermi con un buon prodotto e non con una inutile e dannosa provocazione come A Letter Home. E, in cuor mio, ammetto che da lui non me lo aspettavo più.


JOHN MELLENCAMP

Ultimamente nelle schiere dei grandi dinosauri del rock serpeggia un’idea: se il classic-rock è davvero arrivato ad un punto morto della sua crescita creativa, allora la tradizione salverà tutti. E John Mellecamp è uno di quelli che ormai da tre dischi ribadisce il concetto, facendo di folk virtù. Se Life, Death, Love and Freedom nel 2008 aveva fatto pieno centro abbandonando il connubio chitarre rock / batterie pestate che caratterizzava il suono della maggior parte dei suoi dischi del passato, No Better Than This nel 2010 aveva forse estremizzato troppo il senso, beandosi dell’assenza di suoni in maniera stancante. Plain Spoken (Republic) invece rimette ordine nella nuova fase, e si presenta come il suo disco più calibrato e completo da molti anni a questa parte. Meno temi sociali (ma Freedom Of Speech abusa in retorica in questo senso), più introspezione (Tears In Vain), per un album fatto di tormenti che, per ironia della sorte, ha in copertina una foto scattata da Meg Ryan, fidanzata abbandonata proprio nei giorni dell’uscita. Parla ormai da padre - per non dire da nonno - il vecchio John, racconta la società americana attraverso i suoi patemi come un novello Steinbeck del rock, e riesce pure ad essere credibile. Il piccolo bastardo e la rabbia sono ormai storia passata, Mellencamp non salverà il rock, ma gli regala le ultime storie che vale ancora la pena di ascoltare.


Nicola Gervasini

venerdì 13 marzo 2015

JESSE WINCHESTER


 Jesse Winchester 
A Reasonable Amount of Trouble
[
Appleseed/ IRD 
2014]
www.appleseedmusic.com

 File Under: The Last Waltz

di Nicola Gervasini (30/10/2014)
Jesse Winchester ci ha lasciati lo scorso 11 aprile, in silenzio, ma forse non quanto avrebbe voluto lui, visto che la notizia della sua morte era erroneamente circolata nel web già giorni prima, tra conferme e smentite. Outsider per eccellenza del mondo della roots-music, storia racconta che Winchester si sia dovuto accontentare delle briciole del mondo discografico degli anni settanta a causa di una condanna per diserzione dall'arruolamento per il Vietnam, scelta che lo ha costretto a fuggire in Canada nel 1967, per attendere l'amnistia del 1977 prima di poter rimettere piede nel suolo americano. Nel frattempo però il gran momento della canzone d'autore americana stava finendo, per cui a lui rimanevano solo gli onori per una serie di dischi apprezzati in Canada e tra gli addetti ai lavori, e un pugno di classici resi tali soprattutto da altre voci (Yankee Lady eBiloxi i più noti).

In genere si mitizza il primo album omonimo del 1970 perché registrato con la Band al gran completo e Todd Rundgren in regia, ma tutta la carriera di Winchester è stata caratterizzata da dischi eleganti e in prima linea nell'arte del buon songwriting. Gli mancava forse il tocco perfetto alla Gordon Lightfoot o la capacità di esprimere anche negli arrangiamenti i propri tormenti d'autore, e per questo la sua carriera resta abbastanza oscura, anche tra molti appassionati di genere. Nel 2009 si era rimesso in pista dopo un lungo silenzio con il discreto Love Filling Station, e A Reasonable Amount Of Trouble è il designato successore che Jesse ha fatto in tempo a registrare prima di lasciare queste lande desolate. Il titolo ironizza sulla sua malattia con una frase pronunciata da Sam Spades nel Falcone Maltese, e di fatto il disco può essere in qualche modo paragonato a The Wind di Warren Zevon, per quel senso di attaccamento alla vita che suscita l'idea di un artista che sa di star registrando il proprio canto del cigno.

Corredato da una accorata presentazione di Jimmy Buffett, organizzatore anche del recente tribute-album in suo onore, l'album non si discosta molto dalla classica ricetta di Winchester, con brani in stile Band come She Makes It Easy Now e ballate soffici come Neither Here Nor There o Ghosts (ma quante pop-singer potrebbero cavarci una hit da questa melodia?), evidenziando però una coraggiosa allegria in scanzonate swing/soul-pop songs alla Burt Bacharach come l'iniziale All That We Have Is NowWhispering Bells Rhythm Of The Rain. Non potevano mancare puntate a quel gospel-country (A Little Louisiana) di cui è sempre stato maestro (e Lyle Lovett il suo più evidente discepolo), omaggi alla sua amata New Orleans (Never Forget To Boogie), lenti da festa scolastica degli anni 60 alla Aaron Neville (Devil Or Angel), e via così, fino alla fine, con episodi alla Gordon lightfoot (Don't Be Shy) e momenti riflessivi (Every Day I Get The Blues e Just So Much). Non ci ha lasciati con il suo capolavoro, ma con un buon modo per riscoprirlo sì.

martedì 10 marzo 2015

MARIANNE FAITHFULL


 Marianne Faithfull 
Give My Love to London
[
Naïve/Dramatico 
2014]
www.facebook.com/mariannefaithfullofficial

 File Under: Smokey London

di Nicola Gervasini (25/10/2014)
A giudicare dalla copertina Marianne Faithfull è ancora convinta che una donna con una sigaretta sia una donna sexy e interessante, salvo poi scoprire che questa signora, che a 68 anni ancora può insegnare fascino ad una ventenne, ha smesso di fumare da qualche mese. Sarà quindi che la copertina da Serge Gainsbourg in gonnella continua a far vendere grazie all' old-rocker-style, o forse solo un omaggio all'amato Leonard Cohen, vista la posa, ma anche in ragione del fatto che con questo Give My Love To London la Faithfull torna a mettere mano alle sue liriche, dopo che le ultime prove (Easy Come Easy Go del 2008 e Horses and High Heels del 2011) avevano rischiato di trasformarla in una mera interprete di materiale altrui (seppur sempre originale e sorprendente). Qui invece il processo è particolare: una serie di altisonanti nomi della musica hanno scritto un brano, ma lei si è presa la libertà di inserire o anche solo rimaneggiare alcuni testi a suo piacimento, operando una sorta di personalizzazione di sensazioni altrui che appare subito vincente, visto che i testi finiscono ad essere uno dei temi più interessanti del nuovo disco.

Si parte con una decisamente roots Give My Love To London, nelle intenzioni del suo autore Steve Earle un atto d'amore per una città che lo ha ormai adottato, nella versione della Faithfull una dedica ai tanti amici sparsi in città e al loro tenace attaccamento alla vita. Si continua con una drammatica Sparrows Will Sings di Roger Waters, evocativa descrizione di disordini giovanili londinesi in puro stile dell'ex Pink Floyd, probabilmente il brano più vicino allo stile della Faithfull era Broken English. Collaboratore fisso del disco è Ed Harcourt, che scrive anche la baldanzosa True Lies e sparge pepe ad una melodrammatica Mother Wolf, mentre l'intesa con Anna Calviproduce uno dei momenti più riusciti dell'album in Falling Back, ma anche una non convincente riscrittura del classico degli Everly Brothers The Price Of Love, versione che si limita a rallentare quella ben più riuscita e famosa di Bryan Ferry, senza però trovare una nuova anima al brano.

Gli arrangiamenti voluti dai produttori Dimitri Tikovoi (solitamente collaboratore di Ed Harcourt e dei Placebo) e Rob Ellis (PJ Harvey) sono spesso maestosi e altisonanti, con una leggera tendenza alla sovrapproduzione che sembra però essere marchio voluto del disco (ascoltate ad esempio la Late Victorian Holocaust di Nick Cave), anche se Tom McRae prima, con l'acustica Love More Or Less, e ancora Nick Cave con la piano-song Deep Water, offrono momenti scarni e riflessivi. Bella la versione di Going Home di Leonard Cohen (qui non si è azzardata a variare il testo), che vede tra l'altro l'intervento vocale di Brian Eno, e tutti a casa con lo standard I Get Along Without You Very Well di Hoagy Carmichael. Disco di eccezionale intensità e forse fin troppo pieno di idee e contenuti, Give My Love To London mantiene il buon nome della Faithfull nella serie A del rock. Ci ha messo anni ad entrarci, ma ora non ne esce davvero più.


domenica 8 marzo 2015

JUSTIN TOWNES EARLE

JUSTIN TOWNES EARLE
SINGLE MOTHERS
Vagrant
***

Bisogna capirlo il povero Justin Townes Earle, non deve essere facile portare quei due nomi con tanta leggerezza. Lui ci prova da anni, schierandosi in quella frangia di figli d’arte che si sono dati ad una resa pop dello stile paterno, in compagnia di gente come Adam Cohen, Teddy Tohmpson e, anche se forse con risultati più alti e personali degli altri, Rufus Wainwright. Justin Townes Earle non ha mai rinnegato l’origine nashvilliana del songwriting paterno, e ha portato il nome di Townes Van Zandt con rispetto, sia per cotanto mito, sia per la devozione del padre, che a quell’uomo è arrivato a dedicare un figlio e un disco intero. Prendete ad esempio Picture In A Drawer, brano centrale del nuovo album: il tentativo di ricreare una intensa ballatona che possa stare tra una Place To Fall di Van Zandt e una Goodbye del padre è evidente, quanto anche l’impossibilità di poterli raggiungere. Non ce ne voglia il buon Justin, che fino ad oggi si è speso con dischetti che si ricordano anche volentieri come Midnight At The Movies del 2009 o Harlem River Blues del 2010, ma con questo Single Mothers riesce solo a confermare quanto non potrà mai essere un nome di primo piano, ma solo un onesto gregario, bravo per quanto raccomandato, ma pur sempre uno da serie B. Non che ci sia niente di sbagliato in questo nuovo disco, solo che questa serie di malinconiche ballate, al solito sospese tra country e indie-pop, solo raramente trovano lo spessore da grande autore. Il nostro prode dedica l’album alle madri single e al loro coraggio nell’affrontare la vita,  forse un messaggio trasversale al ben poco affidabile padre, ma in verità più un monito a sé stesso a perseguire una condotta più saggia e meno autodistruttiva, visto che anche lui è fresco sposo e anche il suo passato già parla di storie di droga e notti in prigione. Bisogna aspettare dunque la terza traccia per trovare perlomeno un po’ di sano divertimento nel country-bar-boogie di My Baby Drives, e la quarta per un momento più intenso grazie a Today And A Lonely Night, e magari il finale con It’s Cold In The House e Burning Pictures per un po’ di discreto songwriting. Disco caratterizzato da un suono scarno, che punta tutto sulla pedal steel di Paul Niehaus (Lambchop, Calexico), Single Mothers è un disco che si ascolta con piacere, ma si dimenticherà anche in fretta. E a papà e ai suoi amici questo non è mai successo.

Nicola Gervasini

martedì 3 marzo 2015

LEONARD COHEN

Se nel 2001, all’alba dei 67 anni, il notoriamente pigro Leonard Cohen si era messo a fare dischi e concerti senza sosta, lo dobbiamo ad un manager truffaldino che lo ha lasciato sul lastrico. Se invece i suoi ultimi dischi stavano ormai suonando un po’ tutti uguali, lo dobbiamo all’amore per Sharon Robinson, gran bella voce, ma anche pessima arrangiatrice. Se Popular Demons (Columbia), il quarto disco dal suo “ritorno a Boogie Street” (inteso come show-business) dopo il totale isolamento degli anni novanta, suona invece più vario e fresco dei suoi predecessori, lo dobbiamo a Patrick Leonard. Sì, sarebbe il produttore della Madonna anni 80, ma provate voi a scandalizzarvi per l’azzardato accostamento davanti ad un simile risultato. Non che Patrick abbia stravolto poi granché rispetto al precedente Old Ideas; semplicemente ha reso meno piatto il tappeto sonoro su cui Leonard ama raccontare - più che cantare - i propri versi. Se si soprassiede sulla raccapricciante copertina da Lezione 1 del corso per principianti di Power Point, il disco sta in piedi e pare pure moderno, contando che stiamo sempre parlando di un neo-ottantenne. Che ha ormai una voce rotta e che tiene solo toni bassissimi, ma questo dona ancora più fascino a brani come Almost Like The Blues o il gospel Samson in New Orleans. Non Amare Cohen era già impossibile anche quando produceva dischi spenti e da fine corsa come Dear Heather, figuriamoci quando invece torna tra noi per trovare le parole giuste per consolarci (e consolarsi) con un brano definitivo come A Street (Ok, la festa è finita, ma io sono ancora in piedi, e starò lì in quell’angolo dove un tempo c’era una strada). Si perdona qualche piccolo scivolone (Did I Ever Love You), si può anche discutere qualche arrangiamento (la techno-arabeggiante Nevermind), ma quando parole, voce e melodia ingranano, come in Slow o My Oh My, non ci sono rivali. Dovete lasciarmi cantare l’unica canzone che ho mai avuto chiosa lui nel finale del disco, dando la triste sensazione di commiato dal suo pubblico. La stessa impressione che avevano dato anche i suoi dischi precedenti, ma stavolta non cascateci: Cohen è ancora solo a metà di quella strada.

domenica 1 marzo 2015

KEVIN LEE FLORENCE

KEVIN LEE FLORENCE
GIVEN
Fluff & Gravy
***

La prima domanda che sorge ascoltando Given, disco di esordio del californiano Kevin Lee Florence, è dove possa stare la novità. La risposta che si trova, arrivando alla fine di questi nove brani, è che di novità non se ne vede neanche l’ombra ( o sarebbe più corretto dire che non se ne sente una nota…), ma di belle canzoni, quelle fortunatamente sì. E così abbiamo già inquadrato il personaggio, un po’ cantautore folk indie-oriented alla Bon Iver, con tanto di barba e cappellino nerd d’ordinanza, un po’ hobo dal tono lamentoso alla Joe Purdy, in ogni caso un nuovo nome da aggiungere alla folta schiera di artisti intimisti e abituati a viaggiare sul soffice. Florence d’altronde è uno che ama dare un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato inizia il disco in tono sofferto, come si comanda ad un vero indie-folker, con due brani come Alone & Everything e Shining Shining, poi però infila una baldanzosa cover di Peace Like A River di Paul Simon che strizza l’occhio al modo di M. Ward di realizzare brani altrui, ma che sciorina una band da classic-rock che vede impegnato nientemeno che l’organo di Garth Hudson della Band. E’ il segnale che a quel punto il disco prenderà una nuova direzione, entrando in zona Ray Lamontagne con Could Today Be The Day e invadendo il campo della ballata folk alla Iron & Wine con All I’d Ask. Registrato a Los Angeles negli stessi studi usati da Bonnie Prince Billy e Father John Misty, in un certo senso l’album è un campionario di tutte le idee sentite in questi anni nel mondo del folk indipendente e non solo (Ryan Adams farebbe sua una Cold & Still), con omaggi anche evidenti come la cover di Ohio, un brano del primissimo Damien Jurado  (era su Rehearsals For Departure del 1999), forse il nome a cui è in fin dei conti più accostabile. Finale più corale con Kindness First (qui l’omaggio è forse ai Fleet Foxes) e tutti a casa dopo durata breve da disco di altri tempi, ben suonato da una band di professionisti in cui vanno notati le chitarre di Danny Donnelly, il basso di John Button (della band di Sheryl Crow) e la batteria di James McAlister (Sufjan Stevens, Bill Frisell). Resta il dubbio su quale possa essere il futuro di un nuovo artista così poco personale, seppur davvero bravo nel ruolo di fedele seguace di una traduzione. Il presente intanto è Given, disco che comunque può trovare di diritto uno spazio nella vostra programmazione autunnale.

Nicola Gervasini


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