I Beatles erano la melodia, i
Rolling Stones il ritmo, i Kinks la satira pop…ma gli Who, per i giovani
londinesi del 1965, furono un vero e proprio urlo di battaglia. Alla ragionata
compostezza dei fab four, all’istintività del blues delle pietre rotolanti e
all’ironia dei Kinks, Pete Townshend e soci contrapposero un suono fracassone
(grazie anche ad un batterista distruttivo come Keith Moon), testi da inno
generazionale (My Generation basta e
avanza come esempio), e una veemenza sul palco che sarà di esempio e ispirazione
ha molti eroi dell’hard rock prima (Led Zeppelin in primis), e del punk poi.
Oggi forse sono rimasti meno icone dei loro colleghi, vuoi perché il frontman
Roger Daltrey non è mai stato un personaggio particolarmente interessante se
non per la gran voce, vuoi per la timidezza del bassista John Entwistle, vuoi
perché Pete Townshend, vera mente creativa della band, non ha mai avuto un
carattere e una immagine vendibile come modello, se non per i mille chitarristi
che ne hanno imitato le particolari movenze (e le tante chitarre distrutte sul
palco). A conservare un alone di mito personale resta dunque il funambolico batterista
Keith Moon, morto come un vero rocker nel 1978 per una dose eccessiva di
farmaci. La leggenda nel loro caso sono soprattutto una serie di album che
ancora oggi campeggiano in ogni classifica epocale che si rispetti (la triade Tommy – Who’s Next – Quadrophenia,
pubblicata tra il 1969 e il 1973, resta l’apice della band). Ma prima ancora di
raggiungere la maturità, gli Who della metà degli anni sessanta incarnarono
meglio di chiunque la voglia di libertà e liberalizzazione dei costumi della
giovane borghesia londinese. E così se i rocker delle periferie povere
trovavano nei Rolling Stones la propria satisfaction
musicale, i giovani rampolli figli di
papà invadevano le strade con Vespe e Lambrette rigorosamente equipaggiate
con svariati specchietti retrovisori al grido di I Can’t Explain. Prospettive diverse per un'unica esigenza: il
cambio epocale dei costumi e la voglia di costruire un futuro diverso da quello
pensato dai loro padri. La brillante stagione degli Who si conclude proprio con
Quadrophenia: il resto della discografia parla di album non più così storici
(sebben The Who By Numbers e Face Dances siano comunque di valore),
di un Pete Townshend più concentrato su una carriera solista che di fatto darà
frutti migliori, e di un Roger Daltrey incapace di costruirsene una credibile.
Ma un qualsiasi loro concerto resta da sempre la loro migliore opera rock.
Nicola Gervasini