Ultimamente nelle schiere dei grandi dinosauri del rock
serpeggia un’idea: se il classic-rock è davvero arrivato ad un punto morto
della sua crescita creativa, allora la tradizione salverà tutti. E John
Mellecamp è uno di quelli che ormai da tre dischi ribadisce il concetto, facendo
di folk virtù. Se Life, Death, Love and
Freedom nel 2008 aveva fatto pieno centro abbandonando il connubio chitarre
rock / batterie pestate che caratterizzava il suono della maggior parte dei
suoi dischi del passato, No Better Than
This nel 2010 aveva forse estremizzato troppo il senso, beandosi dell’assenza
di suoni in maniera stancante. Plain Spoken (Republic) invece
rimette ordine nella nuova fase, e si presenta come il suo disco più calibrato
e completo da molti anni a questa parte. Meno temi sociali (ma Freedom Of Speech abusa in retorica in
questo senso), più introspezione (Tears
In Vain), per un album fatto di tormenti che, per ironia della sorte, ha in
copertina una foto scattata da Meg Ryan, fidanzata abbandonata proprio nei
giorni dell’uscita. Parla ormai da padre - per non dire da nonno - il vecchio
John, racconta la società americana attraverso i suoi patemi come un novello
Steinbeck del rock, e riesce pure ad essere credibile. Il piccolo bastardo e la
rabbia sono ormai storia passata, Mellencamp non salverà il rock, ma gli regala
le ultime storie che vale ancora la pena di ascoltare.
Nicola Gervasini
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