01/05/2009
Rootshighway
VOTO: 8,5
"La tua jazz-band ha perso il suo swing, la rivoluzione ha perso il suo ring, e quando tutto il tuo amore è stato una bugia, quello è il giorno della grande sorpresa". Bum! Knock-out. E va bene: ci arrendiamo. Stavolta vincono i Felice Brothers: la grande sorpresa l'hanno fatta loro a noi, e fine della partita. Per vocazione e "mission" Rootshighway avrebbe potuto portarli in un palmo di mano fin dal loro Tonight At The Arizona del 2007, o perlomeno in occasione del successivo acclamatissimo album omonimo. Eppure, se consultate il nostro archivio, ci scoprirete prudenti e guardinghi dichiarare che " si resta con il dubbio, già espresso in Tonight at the Arizona, se i Felice Brothers ci siano o ci facciano (…). Al prossimo turno stabilire se hanno spalle larghe e sufficiente ispirazione per portare oltre queste intuizioni". Il turno in questione si chiama Yonder Is The Clock, espressione rubata a Mark Twain (giusto per ribadire ancora un volta la propria appartenenza culturale), e stavolta è arrivata la conferma che aspettavamo. Il nostro problema era in fondo quello di aver paura di amarli troppo: loro nei panni della nuova Band degli anni 2000 sono infatti fin troppo perfetti per essere veri, con un'immagine e una biografia così inconfondibilmente "roots", da puzzare di sapiente costruzione fatta a tavolino. Per cui bene così, arriviamo forse tardi a promuoverli sul campo rispetto ad altri strilloni di "next big thing", ma quando dobbiamo sceglierci delle giovani guide spirituali, preferiamo sempre non inciampare nella frettolosa beatificazione dei nuovi fenomeni. Anche perché di miracoli non se ne fanno più neanche qui, e Yonder Is The Clock non sarà il nuovo No Depression che qualcuno ancora si ostina a cercare. Ma di grandi canzoni, per fortuna, ne è pieno questo disco come il mondo, e i fratelli Simone, Ian and James Felice semplicemente stanno dimostrando cosa vuol dire scrivere "storie d'amore, morte, tradimenti, baseball, stazioni, fantasmi, epidemie, celle carcerarie, fiumi rombanti e fredde serate invernali" senza scadere troppo nell'iconografia di un immaginario musical-letterario ultra-rodato. L'album vive essenzialmente di due anime: la migliore resta quella malinconica e introspettiva, quella che dalla The Big Surprise citata in apertura, passa per la strabiliante Ambulance Man, strascicato e struggentissimo lamento infarcito di citazioni "mitologiche" ("This was an old rodeo in the long ago, now it's a burning ring of fire"), o ancora nel melvilliano lamento del baleniere di Sailor's Song. Stavolta la combriccola dei Felice non ha proprio sbagliato nulla nel toccare le corde più profonde del miglior cantautorato americano, sia quando si dondolano nel ritmo pigro di Katie Dear, sia quando si lasciano andare alle amare riflessioni di And When We Were Young ("da dove venivano quegli aeroplani che hanno bruciato la nostra città? Tutto quel fumo e quella cenere ci hanno solo insegnato come schiantarci!"), fino all'apoteosi dei sei minuti di Coopertown, emozionante dedica a Ty Cobb, leggendario campione di baseball (uno sport che gli americani ammantano della stessa epica che noi italiani attribuivamo al ciclismo, prima che il doping ne distruggesse ogni possibilità poetica). L'album si sorregge però anche su una vena più scanzonata e movimentata (Penn Station e la sgangherata Memphis Flu), o su scherzi rockettari usciti direttamente dal loro studio di registrazione, che leggenda vuole essere stato ricavato da un ex pollaio (Chicken Wire e l'irresistibile Run Chicken Run). Sapranno confermarsi su questi livelli in futuro? Stavolta rispondiamo subito: chi se ne importa! Un disco come Yonder Is The Clock ormai l'hanno fatto, e potrebbe davvero bastare. (Nicola Gervasini)
www.myspace.com/thefelicebrothershttp://www.team-love.com/
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