ROBERT ELLIS
E’ un disco fuori dal tempo questo Photographs di Robert Ellis, uno di quei album di country-folk songs prettamente acustiche che riempivano gli scaffali dei negozi di dischi dei primi anni 70 (ma in genere poi raramente arrivavano nelle case del grande pubblico). Potrebbe seguire le orme dei
personaggi più oscuri del periodo questo cantautore di Houston, figurarsi come il nuovo Jesse Winchester, o ancor più come certi nomi che forse solo i lettori del Buscadero ricordano come Willis Alan Ramsey. Oppure anche più semplicemente, ascoltando la bellissima Westbound Train, viene in mente un Jim Croce meno attento alla melodia e alle charts. Non è un novellino Robert Ellis, nel 2009 aveva esordito con tanti complimenti ma poco clamore con un buon disco (The Great Rearranger), e il suo nome circola ormai per il Texas come uno dei più interessanti giovani talenti del songwriting americano. Photographs di fatto esce per la titolata New West e questo potrebbe garantire una certa distribuzione, ed è un album decisamente interessante, forse spiazzante all’inizio, perché prima di arrivare ad esempio ai baldanzosi honky-tonk di Comin’Home e No Fun o ai country-valzer di What’s In It For Me? e I’ll Never Give Up On You bisogna passare attraverso tre brani acustici decisamente malinconici come Friends Like Those, la bellissima Bamboo (della serie: come si scrive un album di ricordi) e una Cemetery ammantata di archi che pare quasi un brano del Phil Ochs più oscuro di Pleasures Of The Harbour. Poi il disco acquista via via più sostanza, si riempie sempre più di strumenti e il ritmo si alza, un crescendo che sembra studiato a tavolino per mettere alla prova la pazienza e la fedeltà dell’ascoltatore. Ellis suona gran parte delle parti di chitarra, anche se gli interventi della pedal steel di Will Van Horn paiono in alcuni casi determinati, mentre la chitarra elettrica di Kelly Doyle si tiene in disparte. Il finale con la triste e maestosa title-rack è da manuale di un modo di confezionare canzoni che non aveva la frenesia di sembrare essenziale e scarno a tutti i costi, ma si ingegnava a ricercare anche arrangiamenti pesanti ma coerenti con l’atmosfera del testo. Un arte che sembrava perduta nel nome del minimalismo folk, e che invece Ellis, con il suo co-produttore Steve Christensen, riesce a riportare in vita con un disco che riesce ad apparire non pretenzioso e nemmeno troppo “vintage”. Da seguire attentamente anche in futuro.
Nicola Gervasini
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