mercoledì 28 dicembre 2016

GIORGIA

Il luogo comune che perseguita Giorgia da tanti anni è quello di una grande vocalist che ha scelto spesso produzioni al di sotto delle sue qualità. Non è sempre stato vero, ma anche Oronero (Microphonica),  suo decimo album di inediti in 22 anni circa di carriera, sembra voler confermare il suo status di artista sempre in bilico tra il mondo della canzone italiana più facile e quello dell’innegabile autorialità delle sue canzoni. Questione di uomini giusti forse (ancora una volta fa tutto Michele Canova Iorfida, collaboratore stretto di Tiziano Ferro e Jovanotti), ma anche questi 15 brani fanno capire che sebbene ci sia della vera sostanza dietro il fatto di avere una gran voce e saperla pure usare bene, ancora troppe volte gli arrangiamenti cercano la via più scontata e modaiola. Provo ad esempio immaginare ottimi brani come Posso Farcela, Tolto e Dato, o la stessa Oronero,  con una band che vada oltre lo schema batteria elettronica/piano/tastiere maestose, e un po’ di rammarico rimane. O magari immaginare Regina di Notte  con un taglio gospel alla Nessun Dolore di Lucio Battisti, invece sentirla immersa in battiti e trattamenti vocali elettronici da discoteca. Nessuno si aspetta che Giorgia si metta a fare album da chanteuse naïf alla Nada, ma da quella che potremmo con gran rispetto considerare la Mina degli anni 2000, qualche prova di coraggio in più sarebbe ora di pretenderla.

Nicola Gervasini

mercoledì 14 dicembre 2016

MACY GRAY

Macy Gray Stripped
[Chesky/ IRD 2016]
www.macygray.com

 File Under: strange fruit

di Nicola Gervasini (21/11/2016)
Non è certo una nostra abitudine parlare di Macy Gray su queste pagine. Non per spocchia nei confronti di una delle più talentuose black-singers degli anni 2000, quanto per coerenza di genere trattato. Decidiamo di farlo ora, nell'occasione della pubblicazione di Stripped, suo decimo album, perché spesso qui dentro abbiamo notato quanto la musica americana delle radici e jazz siano spesso vicini, e mi viene in mente un personaggio come Joe Henry, come esempio di chi ha saputo fare bene in entrambi i campi. Stripped è già stato presentato come "l'album jazz" di Macy Gray, quasi fosse una rottura con il suo passato, quando lei stessa va citando da sempre Billie Holiday quale modello di vita e artistico.

Semplicemente, dopo il clamoroso botto fatto nel 1999 con l'album d'esordio On How Life Is (dieci milioni di copie vendute), il suo successo è andato via via scemando, complice anche una sua scelta musicale spesso troppo "alta" per i gusti dei giovani, ma ancora troppo lontana dai gusti dei vecchi amanti di jazz e classic rock, che certe concessioni al pop mica le perdonano. Stripped salta il fossato e si schiera fieramente per la tradizione, grazie ad un quartetto jazz da club formato da Ari Hoening alla batteria, Daryl Johns al basso, la dolce chitarra di Russell Malone e il trombettista decisamente "alla Chet Baker" Wallace Roney, e ad una registrazione effettuata in due serate in una chiesa sconsacrata di Brooklyn, quasi fosse un suo personale Trinity Session alla Cowboy Junkies.

Il feeling è da "buona la prima", ma precisione e dettagli sono quelli da registrazione in studio, e questo rende l'album formalmente impeccabile, anche se forse privo di quell'improvvisazione che si richiederebbe ad un vero album jazz. Il menu è vario: ci sono pezzi del suo passato riletti in chiave jazzy come la superhit I Try, o Sweet BabyShe Ain't Right For YouThe First Time Slowly, accanto a composizioni nuove come l'ottima Annabelle che apre il disco, e brani come The Heart o Lucy, dove si sente quanto siano nati appositamente per il progetto. Non potevano mancare le cover, e se con Redemption Song di Bob Marley è impossibile sbagliare in qualunque chiave la si rilegga, curiosa invece e la trasformazione da club di Nothing Else Matters dei Metallica, solito gioco alla "famola strano" che in qualche modo funziona (lei aveva già affrontato il brano nell'album Covered del 2012).

In ogni caso il disco è piacevole, e anche i vecchi brani della Gray reggono bene, quasi che lei abbia voluto dimostrare che un artista si esprime con un proprio stile particolare e personale, ma per farlo bene deve avere le basi e il background classico (una lezione per le giovani leve che non hanno né background, né stile personale). In fondo anche Picasso ha dipinto quadri di figurativo, e pur non essendo famoso per quelli, non è detto che non siano validi. Consigliato per serate d'atmosfera.

lunedì 5 dicembre 2016

LEONARD COHEN

Leonard Cohen
You Want It Darker
(2016, Columbia Records)
File Under: it’s a good day to die

“Sono pronto, Mio Signore” recita il chorus di You Want It Darker.  E senza ovviamente augurarci che sia vero, stavolta però un po’ c’è da credere alla propria auto-profezia di morte dell’ultraottantenne Leonard Cohen. Ma magari, e lo speriamo, è solo un altro dei suoi scherzi. Già una volta ci aveva gabbato, quando nel 2004 aveva pubblicato in gran fretta Dear Heather, quasi un’opera lasciata incompiuta per mancanza di futuro, con un clima generale da triste commiato che faceva pensare ad un canto del cigno non troppo glorioso, visto che il disco è indubbiamente il suo peggiore ad oggi. Invece Leonard è rimasto vivo e vegeto, e con You Want It Darker completa una ideale trilogia del rapporto con la morte iniziata nel 2012 con Old Ideas e proseguita con Popular Problems del 2014. Che ci siano anche qui grandi testi e brani memorabili non è una sorpresa (semmai nel 2004 lo fu trovarne troppo pochi), e neppure che l’appuntamento con la morte sia descritto attraverso una religiosità tutta sua (Treaty). Non cambiano nemmeno le melodie, ormai costruite intorno alla sua voce sempre più bassa e cavernosa, ma la novità, purtroppo forse un po’ tardiva, è quella di avere finalmente un produttore degno del suo nome. E pensare che ce l’aveva in casa uno in grado di mettere in piedi una strumentazione e un suono che non sembrasse quello di un piano-bar da matrimonio (più che con Patrick Leonard, che nei due lavori precedenti già aveva migliorato di molto le cose, me la prendo con le scellerate produzioni di Sharon Robinson). Posso capire che Cohen fosse un po’ restio a contattare grandi produttori, visto che quando lo fece con Phil Spector, non finì tanto bene (anche se sarebbe ora di dire che Death Of A Ladies’ Man aveva un suono forse troppo pieno rispetto al quasi vuoto a cui i suoi fan erano abituati con i suoi primi quattro album, ma di certo non era una schifezza), ma forse poteva anche pensarci prima. In ogni caso il figlio Adam non fa niente di particolare: un coro lì (On The Level), un bell’incipit di chitarra a seguire l’emozionante lettera di commiato di Leaving The Table, un organo a segnare If I Didn’t Have your love, un violino tzigano che duetta con un mandolino e un wurlitzer in Traveling Light. Adam non ha bisogno di strabiliare, solo attua sul padre una cura che ci era già piaciuta in occasione del suo ultimo album We Go Home del 2014 (recuperatelo che ne vale la pena). Ma visto che la scrittura del padre è davvero sempre più oscura e lenta, lui almeno gioca sulla varietà, inventandosi un bellissimo coro muto a far da tappeto a It Seemed the Better Way invece della solita anonima tastiera. Leonard da parte sua ci mette sentimento (Steer Your Way si regge sulla sua recitazione) e una penna che non ha mai perso colpi (anzi, Bob Dylan in una intervista lo ha omaggiato come grande costruttore di melodie, dichiarando tra l’altro di apprezzare molto anche la sua produzione più tarda). E’ vero,  lo volevamo ancora più oscuro, e ci ha accontentato. Ma la prossima volta lo vogliamo ancora più vivo.

Nicola Gervasini

giovedì 1 dicembre 2016

RACHEL YAMAGATA

Rachel Yamagata
Tightrope Walker
(2016, Frankenfish records)
File Under:
Non nascondo una certa delusione per come si sta sviluppando la carriera di Rachel Yamagata. Oggi non è facile per nessuno fare il salto di qualità, ma lei nel 2008 era proprio lì, sulla punta del trampolino, pronta a tuffarsi non tanto in un mare di vendite, quanto però ad entrare nel club dei nomi di punta del nuovo indie-folk statunitense. Allora il suo secondo album Elephants...Teeth Sinking into Heart era piaciuto, conteneva alcuni pezzi di livello superiore misti ad altri più indecisi, ma complici anche le buone frequentazioni del periodo con Ryan Adams, Conor Oberst, Ben Arthur e Ray Lamontagne, il suo sembrava un nome da segnarsi nella prima pagina delle proprie future whishlist. Invece da allora è uscito solo un disco secco e poco significativo come Chesapeake, oltre a pubblicazioni autoprodotte e vendute tramite il suo sito, e anche lei è rimasta impantanata nella difficile vita del musicista fuori-mercato. Tightrope Walker arriva con l’evidente intento di recuperare un po’ di terreno: è un disco lungamente pensato (due anni di gestazione), puntigliosamente prodotto, e cerca fin dalle prime note alla Joe Henry della title-track di sembrare importante e autoriale, anche nel senso più spocchioso del termine. Arrangiamenti barocchi e pesanti anche per l’episodio di dark-elettronica di Nobody, episodio in cui la Yamagata fa l’occhiolino alla PJ Harvey degli anni 90, mentre EZ Target fa incetta di rumori e si poggia su un minaccioso giro di mandolino alla 16 Horsepower , e Over affoga una melodia da pop anni 90 in un mare di effetti. Proprio quando si è indecisi se accettare o no questa sua nuova versione da Black-Vamp, il disco cambia registro, si apre ad arrangiamenti più classic-rock, con una Let Me Be Your Girl che sembra rubata ad un disco di Joss Stone, con i suoi fiati e i suoi cinguettii soul-rock. Break Apart gioca la carta dello smooth-jazz moderno, I’m Going Back rigira il mazzo con una orchestrazione da colonna sonora e una piano-ballad che non può far pensare a certi successi di Adele, Rainsong tiene basso il ritmo con una dolce e tetra ballata che ricorda molto certi ispirati momenti dei Walkabouts. E infine Black Sheep viaggia ancora nell’oscurità ma con sonorità più acustiche, ed è solo con la finale Money Fame Thunder che la Yamagata finalmente non perde di vista la canzone, anche se una batteria pesante da new wave primi anni ottanta continua ad invadere un po’ le frequenze. Ci avete capito qualcosa su cosa vi aspetta? Immagino di no. Qui sta il problema: è brava la Yamagata, ma Tightrope Walker confonde alquanto le idee su cosa e chi voglia diventare da grande, e visto l’ingente sforzo produttivo profuso e le troppe idee spese, ha tutta l’aria di poter essere la sua occasione persa.

Nicola Gervasini

lunedì 28 novembre 2016

TODD SNIDER

Todd Snider
Eastside Bulldog
(2016, Aimless Records)
File Under:  Once we were Warriors

Voglio bene a Todd Snider. Che non fosse un genio lo si era capito subito in quel lontano 1994, ma il suo esordio Songs From The Daily Planet fu uno dei migliori esempi di quel cantautorato americano che si stava rimodernando e tentava di costruire una parvenza di nuova onda. Oggi i protagonisti di quella stagione di importanti esordi (cito a caso Dan Bern, Matthew Ryan, Phil Cody, Bocephus King, Richard Buckner, ma vi rimando al nostro speciale sui dischi da Strade Blu degli anni 90 per un elenco esaustivo) sbarcano tutti il lunario a fatica, tra produzioni casalinghe senza possibilità di fare storia, e una generale depressione creativa. Non fu però un fuoco di paglia, la stoffa in questi autori c’era eccome. Snider la dimostrò ancora, se non altro come fustigatore della società americana, e perlomeno fino a Devil You Know del 2006. Musicalmente sempre fin troppo prevedibile ed elementare, Todd ha sempre avuto almeno dalla sua la penna tagliente, votata ad una satira vicina a quella del grande Mojo Nixon. Non a caso è un discepolo di John Prine, uno che però ha saputo scrivere anche brani immortali senza per forza buttarla sempre sul ridere, e che ha anche avuto produzioni e produttori importanti. Snider invece da troppi a dischi a questa parte è diventato solo uno dei tanti mal-sopravvissuti alla distruzione dell’impero del mercato discografico statunitense, e lui certo non aiuta se poi cerca nuova linfa con un prodotto come Eastside Bulldog. 10 brani, 25 minuti, fate voi il conto della media per brano. E sono dieci scherzi di vintage-rock anni 50 riletti con apparente modernità, nulla che il Ben Vaughn dei tempi d’oro non abbia già fatto con ben più talento e convinzione, e che costituiscono l’ossatura del repertorio proposto già da qualche anno da Todd nelle vesti del suo alter ego Elmo Buzz, improbabile versione anni 2000 di un emulo di Hank Williams. Pensare che dobbiate spendere soldi per un prodotto così minore è davvero difficile, e,  al netto del divertimento di sentire Todd in nella insolita veste di un Eddie Cochran in vena di gag, il disco non merita davvero troppi ascolti. Anche perché in questi nove brani (il decimo è pure uno strumentale, guarda caso intitolato Bocephus) non si ravvisano neanche tracce delle ficcanti invettive che restano in fondo la vera ragione di continuare a seguirlo, ed è lo stesso Todd ad ammettere che i testi non sono altro che improvvisazioni fatte in studio a imitazione e scherno dei classici del rock and roll. Ah Ah Ah!  Provo a sorridere a denti stretti, ma solo per pochi minuti, perché poi riprendo in mano la mia copia autografata di Step Right Up, e un po’ mi viene di piangere.

Nicola Gervasini

giovedì 24 novembre 2016

Nick Cave & The Bad Seeds

Nick Cave & The Bad Seeds
Skeleton Tree 
[Bad Seed LTD 2016
]
www.nickcave.com
 File Under: Death is not the end
di Nicola Gervasini (21/09/2016)
Quando leggerete questa recensione, Skeleton Tree sarà già uscito da molti giorni, e avrete già letto non una, ma parecchie critiche entusiastiche, con lodi sperticate al limite di un servizio RAI di Vincenzo Mollica. Giusto: Nick Cave, dopo un decennio di leggero appannamento, è decisamente tornato in forma, e anche questo è un disco importante e, a suo modo, bello. Potremmo entrare nel merito dei singoli brani, ma ripeteremmo discorsi sull'esorcizzazione della morte (quella di suo figlio), sulla musica come surrogato del lettino dello psicoanalista, e sul rumore che produce un'anima sventrata dalla tragedia. I dischi di Cave non sono certo mai stati allegri, da un lato vuoi per la naturale propensione della sua voce e del suo teatrale cantato al melodramma, dall'altro per la sua visione della morte come punto focale di ogni vicenda umana.

Ma, toccato nel personale, Cave si è liberato di tutte le voglie di uscire da quel suono oscuro che ha caratterizzato la sua altalenante produzione degli anni zero, e ha composto otto brani ancora più lenti e tetri del precedente Push The Sky AwayJesus Alone è un singolo decisamente anti-hit, quasi uno spoken-blues, con uno uso di tastiere e sintetizzatori maggiore del solito (Warren Ellis è il vero Deus ex machina produttivo), sui quali poggia anche la successiva Rings Of Saturn. Degli otto brani, alcuni sono funzionali all'idea di fare un disco che sia una vera e propria marcia funebre (Magneto e Anthrocene sono semplici recitati su tappeto sonoro), altri invece dimostrano un autore comunque in stato di grazia (Girl In AmberI Need You). Per quanto resterà un disco importante nella sua discografia, quando passerà lo shock emotivo di un album così "pesante", noteremo magari che il precedente era più vario e meglio strutturato, e che il capolavoro Cave lo aveva saputo fare con "Boatman's Call", dove affrontava gli stessi temi curando molto anche la costruzione di vere e proprie canzoni, e di quelle ci ricorderemo sempre tra qualche anno, non di queste.

Ma un'altra discussione che lancerei è capire come mai gli unici due album che sembrano aver messo d'accordo tutti nel 2016 facendo gridare al capolavoro (questo e Blackstar di David Bowie), siano dischi egualmente lugubri e dedicati alla morte, accomunati da una caparbietà nel crogiolarsi nel dolore da far sembrare "Magic And Loss" di Lou Reed un party-record. Sembra quasi che in assenza di idee nuove, il rock classico possa trovare alti livelli solo scendendo negli inferi del proprio male, e se questo almeno ci garantisce sul fatto che ancora qualcosa di importante ci sia da dire, dall'altro ci fa domandare: visto che ai tempi di Elvis tutto era nato per parlare di ragazze, sesso e automobili, ci sarà mai qualcuno ancora in grado di farci gridare al miracolo con una canzone che semplicemente vuole far ballare e venir voglia di scopare?

martedì 22 novembre 2016

IAN HUNTER

Ian Hunter & The Rant Band
Fingers Crossed 
[Proper 2016
]
www.ianhunter.com
 File Under: Dandy's rock
di Nicola Gervasini (16/09/2016)

Bando alle ciance: un nuovo album di Ian Hunter si compra a scatola chiusa. Inutile leggere recensioni, fare preascolti o chiedere pareri agli amici. Potremmo anche dire che è inutile anche parlarne dopo, per cui questa recensione potrebbe anche chiudersi con un semplice "Hey ragazzi! " - anche se so che voi che leggete ragazzi non lo siete più da tempo - "E' uscito il nuovo album di Ian Hunter, buon ascolto e viva il rock and roll!". Se poi qualcuno di voi osa anche solo chiedere "Ian chi?", se ne vada che qui non è posto per lui. Se poi proprio in queste pagine Ian Hunter è sinonimo di musica doc garantita è anche perché dopo avere da sempre tenuto i piedi in due scarpe (quella del brit-rock di origine glam, e quella di un rock americano quasi roots), in questi suoi ultimi anni il vecchio rocker ha abbracciato soprattutto il secondo ambito con dischi come Shrunken Heads e Man Overboard.

Fingers Crossed arriva quattro anni dopo When I'm President, e continua il sapiente amalgama di suoni USA e reminiscenze dei Mott The Hoople proposto dal suo predecessore. Non potrebbe essere altrimenti un album che inizia con una That's When The trouble Starts che pare un vecchio sguaiato singolo degli Sweet, o che continua con Dandy, dedica allo scomparso David Bowie che, giocando sul vero cognome, inizia con una bella citazione di Dylan (Something is happening Mr. Jones, My brother says you're better than The Beatles or The Stones). Anche Ghosts (cronaca di una visita negli studi della Sun Records) e la bella title track sembrano ricercare la vecchia verve rock di un tempo, ma già White House la ributta sull'american folk, e sulla stessa strada corre anche Bow Street Runners, brano che potrebbe appartenere a un qualunque cantautore di Austin.

Con Morpheus Ian torna a giocare con sontuose orchestrazioni, con risultati sempre soddisfacenti pur nella voluta pomposità del brano (e soprattutto dell'assolo un po' alla Queen). Anche Stranded In Reality è una ballata pregna di chitarre acustiche molto significativa, piccolo punto della situazione di una lunga carriera (il titolo è anche quello di un mega-cofanetto di 30 cd che racchiude tutta la sua discografia in uscita proprio in questi giorni). E singolare che proprio dopo un brano che guarda al passato, ne arrivi uno che si intitola You can't Live In The Past, altra ballatona che prelude allo scanzonato finale di Long Time, sortita in chiave Kinks a chiusura di un album che, manco a dirlo, convince, diverte, e offre il solito campionario di canzoni scritte come il Dio Rock comanda.

E il solito caro vecchio rock and roll, ma che il tempo ce lo conservi sempre così.

mercoledì 16 novembre 2016

Beach Boys/Brian Wilson in 10 dischi

Beach Boys/Brian Wilson in 10 dischi

1)      Beach Boys - The Greatest Hits – Volume 1: 20 Good Vibrations (Capitol, 1995)
Tra il 1962 e il 1965 il surf-rock dei primi Beach Boys ragionava in termini di 45 giri, ed era la musica dei giovani americani che, ancora ignari di quello che il Vietnam gli avrebbe riservato, se la spassavano tra mare, surf e i primi bikini. E restano i Beach Boys più noti al grande pubblico.
2)      Beach Boys - Pet Sounds  (Capitol, 1966)
Il capolavoro in cui Brian Wilson ha insegnato al mondo come realizzare musica lavorando in maniera maniacale sulla (sovra)produzione, sul riempire ogni spazio, sullo studiare ogni particolare. Keith Richards lo detesta per questo, ma non esiste musicista che non lo abbia studiato, ammirato, e infine imitato.
3)      Beach Boys - Smile – (Capitol, 1967, pubblicato solo nel 2011)
10 mesi di registrazioni solitarie di un Brian Wilson in piena estasi creativa diventano il primo Lost -Record della storia. La Capitol, nonostante il potentissimo singolo Good Vibrations, lo rifiuta, lo fa riregistrare, e pubblica l’addomesticato Smile Smiley. Ed è già la fine dei Beach Boys di marca Brian Wilson.
4)      Beach Boys - Sunflower  (Capitol ,1970)
Quarto album di fila a non essere più prodotto dal solo Brian Wilson, ormai destituito dal ruolo di leader a favore di una democratica condivisone dei compiti, Sunflower mette ordine nella confusionaria produzione di fine anni sessanta. Brian recupera qualche vecchia brillante idea, e torna grande.
5)      Beach Boys - Surf’s Up  (Capitol ,1971)
Ad un titolo che sembra richiamare i loro scanzonati esordi, fa da beffardo contraltare una oscura copertina degna di una band heavy metal. I deliri di Wilson tornano a governare, ma intorno a lui sono intanto cresciuti anche gli altri, per quello che è il loro capolavoro della maturità.
6)      Beach Boys - Love You (Reprise, 1977)
Il titolo originale doveva essere “Brian Loves you”, ma ancore una volta la band si appropria di un progetto solista dell’insicuro Brian. Disco delirante, visionario, con pesanti sperimentazioni elettroniche che quasi anticipano la new wave. Wilson evidentemente non voleva morire cantando canzonette, ma il disco fu un flop.
7)      Brian Wilson – Brian Wilson (Reprise,1988)
Il primo vero album solista arriva solo nel 1988, con orrenda copertina adatta ai tempi, e addirittura il proprio terapista tra i contributori in sede di scrittura. Troppi produttori, troppi session men, troppa attesa, eppure resta il più completo catalogo della sua idea di pop.
8)      Brian Wilson - Brian Wilson Presents Smile (Nonsuch, 2004)
37 anni dopo Smile, Brian decide di riappropriarsi della propria opera perduta, riregistrandola con lo stesso stretto collaboratore di un tempo (Van Dyke Parks). Scommessa vinta: il disco suona moderno anche nella sua nuova veste, la nostalgia sta all’angolo, il genio finalmente si esprime.
9)      Brian Wilson – That Lucky Old Sun (Capitol, 2008)
Quando forse nessuno ci sperava più, e prima di capitalizzare il suo buon nome mettendosi al servizio della Walt Disney, Brian realizza il suo progetto solista più riuscito e più vicino a quell’idea di pop da larghe intese che tenta di realizzare da decenni.  E non è mai troppo tardi.
10)   Beach Boys - That's Why God Made the Radio (Capitol,2012)
Brian produce e in qualche modo scrive una riconciliatoria tarda opera in cui sembra arrendersi all’idea di essere comunque un membro di una band. Praticamente i Beach Boys che imitano i Beach Boys, ma essendo una rimpatriata fatta per sostenere un nostalgico tour, poteva anche andare peggio.



venerdì 11 novembre 2016

JOHN PAUL WHITE

Innanzitutto un po' di storia: di John Paul White non ci siamo ancora occupati su queste pagine, se non per la sua buona produzione dell'ultimo album di Donnie Fritts (Oh My Goodness), piccolo sperduto e già dimenticato gioiellino di un autore storico e sfortunato. Nel mondo roots americano invece lui è un po' una piccola nuova star, grazie al paio di album pubblicati a nome Civil Wars (Barton Hollow del 2011 e The Civil Wars nel 2013, che era prodotto nientemeno che da Rick Rubin, e ha pure vinto un Grammy Award), duo, già arrivato al capolinea, creato con la bella cantante Joy Williams. Beulah è dunque il suo atteso "esordio" da solista (in verità nel 2008 pubblicò un album da indipendente intitolato The Long Goodbye), un disco di "gothic folks songs" lo hanno già etichettato sul Rolling Stone americano. 

Noi invece, per darvi subito una coordinata precisa, diciamo che siamo dalle parti del Ryan Adams di Ashes & Fire, cioè dieci ballate country-dark, volutamente lente, strascicate e depresse. White assicura che se è vero che si scrive del sole quando piove, lui scrive di dolore proprio perché si sente felice, e in qualche modo gli crediamo, perché se la voce è quella giusta, il suono pure (non c'è Ethan Jones alla produzione, ma è come se ci fosse nello spirito), le canzoni…dipende. Il discorso è che esordire con un disco che sarebbe stato significativo almeno 15 anni fa non è esattamente quello che ci si aspetta da un artista che ha tutta l'aria di proporsi come nuova mente pensante della roots-music, e che sicuramente vedremo presto impegnato come produttore con altri artisti. Lui si presenta con l'aria del perfetto artista indie-roots dall'aria sofferta e dimessa che dovrebbe garantirgli un po' di seguito, ma il risultato fa quasi sembrare Jonathan Wilson un uomo aperto al futuro. 

In ogni caso, se è ancora questo tipo di songwriter-record che cercate, Beulah fa il caso vostro, con ballate struggenti come Hope I DieMake You Cry Hate The Way You Love Me (già i titoli dicono tutto) che si fanno comunque apprezzare se ascoltate al momento giusto. Chitarre calde e anche tante orchestrazioni (Fight For You), ma anche una certa sensazione di maniera e calligrafia (The Once and Future Queen), e la mancanza di un momento di distensione che male non avrebbe fatto. Ma negli anni zero i dischi da songwriter si facevano così, e John Paul White non ha nessuna intenzione di portarci su nuovi lidi o di osare strade troppo rischiose per uno che ha tutta l'aria di voler viaggiare sempre sicuro e assicurato. A voi decidere se oggi le alternative sono davvero così poche da non poterne farne a meno.

mercoledì 9 novembre 2016

CHARLES BRADLEY

Charles Bradley
Changes

(2016, Daptone Records)
File Under: Old Soul never dies

Ammetto di avere poca fiducia negli sviluppi presenti e futuri del cosiddetto New Soul degli anni 2000, e forse ancora meno ne avevo nelle possibilità del vecchio Charles Bradley di poter dire ancora qualcosa di significativo in materia. Di lui vi abbiamo già parlato in occasione dei due capitoli precedenti (No Time For Dreaming del 2011 e Victim Of Love del 2013), a 68 anni quasi suonati Bradley è un novellino arrivato con questo Changes al terzo capitolo di una carriera iniziata discograficamente a 63 anni, quando il terreno era già da tempo fertile per un emulo di James Brown come lui. Protetto dalla grande ala della Daptone Records, Bradley continua a non avere uno stile proprio e facilmente riconoscibile, eppure in qualche modo in Changes riesce ancor meglio che nei due simpaticamente scolastici album precedenti a stilare una sorta di piccola storia del classic-soul classico in undici canzoni. Si guarda pesantemente alla Stax e ai suoi artisti stavolta, partendo sempre da James Brown (Good To Be Back Home fa incetta di urletti e “Good God!” alla Father of Soul), ma passando presto a suoni da Staples Singers (Nobody But You) o Swamp Dogg (Ain’t Gonna Give It Up), e soprattutto con una title-track che annerisce addirittura la Changes che fu dei Black Sabbath epoca Vol.4. Non è la prima volta che gli artisti della nuova ondata Soul tentano ardite trasposizioni e costruiscono ponti tra genere apparentemente inconciliabili (penso ad esempio a JC Brooks & the Uptown Sound e alla sua riuscita cover di un brano dei Wilco nel 2010, ma l’elenco potrebbe essere lungo), ma Bradley in qualche modo riesce a tenere viva e a non stravolgere troppo l’interpretazione che fu di Ozzy Osbourne, aggiornandola tra maestosi fiati soul e rendendola un nuovo  sofferto canto di amore. Giochi di stile comunque, come tutti quelli che Bradley ci fa ascoltare fino alla fine, sia che si tratti di sentite storie sentimentali (Crazy For Your Love) o maestose invettive socio-politiche (Change For The World). Giochi che continuo a trovare ormai utili solo a tener viva una tradizione che vuole essere vecchia per definizione e mantenere la Black Music ancorata a quella genuina espressione di sentimenti, ritmo e melodia che fu il Soul fino all’avvento del rap e dell’R&B moderno. Impossibile dunque non apprezzare Changes, sicuramente uno dei migliori prodotti New Soul di questi anni dieci, se poi abbia senso perdere tempo con Charles Bradley piuttosto che ripassarsi la discografia di Sly Stone è una questione che vi lascio risolvere da soli.

Nicola Gervasini

martedì 1 novembre 2016

FELICE BROTHERS

Felice Brothers
Life in the Dark
(2016, Yep Roc Records)
File Under: Still searchin’ for the Ghost of Tom Joad

Sullo stato dell’arte dei Felice Brothers in questa metà degli anni dieci vi rimanderei al sunto di carriera fatto in occasione del precedente album Favorite Waitress del 2014. Anche solo per ribadire che il corso intrapreso dalla band con quell’album pare essere quello definitivo, ben confermato dal nuovo Life In The Dark. La sbornia modernista del 2012 è dunque sotterrata e dimenticata: non esiste più un mercato da conquistare, e forse neanche più un mondo artistico da riscrivere, e allora perché non chiudersi in un garage affittato per l’occasione nella Hudson Valley, trasformandolo in uno studio di registrazione grazie a confezioni di uova, proprio come si faceva artigianalmente “ai vecchi tempi”. Ian Felice, assecondato da una nuova line-up ormai consolidata intorno al fratello James, sempre inchiodato sulla sua fisarmonica, il bassista Josh "Christmas Clapton" Rawson, il violinista Greg Farley e il batterista David Estabrook, continua un suo viaggio personale nella tradizione americana, ponendosi forse come la formazione attualmente più vicina alla lezione purista della Band di Robbie Robertson, pur con le debite distanze. Realizzato con il gusto dell’improvvisazione e di un rural-sound iper-conservatore, Life In The Dark è un piccolo viaggio nelle contraddizioni dell’America moderna, lette con taglio tra il cinico e il sarcastico. Prima parte dedicata a brani brevi: il singolo posto in apertura Aerosol Ball è accompagnato da un video fatto da spezzoni di filmini su come si divertivano grandi (con una svestita pin-up vintage) e piccini (giochi di strada di bambini) in America anni fa, ed è un brano che si barcamena tra l’ironico (Every tooth in Duluth is Baby Ruth-proof) e il nostalgico con grande maestria. Sul duello fisarmonica-violino è basata anche la successiva Jack At The Asylum, mentre è con la title-track che si ha il primo acuto del disco, ballatona roots di risaputa ma pur sempre efficace fattura, così come anche la più difficoltosa Triumph ’73 che la segue. Con Plunder arriva il primo azzardo elettrico, con la chitarra di Ian che si lancia in un assolo volutamente stonato, momento quasi rock che si chiude nel minuto e mezzo strumentale di Sally. Il disco prende il volo nell’ipotetico lato b: tre brani che mostrano tutta la grandezza di songwriting di Ian, prima con una Diamond Bell che sembra essere spuntata dalle sessions di Desire di Dylan, lungo racconto di frontiera che anticipa la line-dance di Dancing on the Wing. Finale in tono mesto con Sell The House, storia di miseria di cent’anni fa ancora buona per raccontare un presente basato su un futuro per nulla roseo. L’ America dei Felice Brothers è in fondo ancora la stessa raccontata da Furore di Steinbeck, una continua lunga ricerca di una felicità sottratta dagli eventi e da una società che da terra promessa sta sempre più diventando l’inferno da cui fuggire.


Nicola Gervasini

venerdì 28 ottobre 2016

IGGY POP

Iggy Pop
Post Pop Depression
(Loma Vista, 2016)
File Under:  Post Bowie Depression

La dannazione eterna dell’Iguana Iggy Pop è sempre stata quella di essere un animale da palcoscenico, forse davvero uno dei più grandi intrattenitori da palco della storia, ma di non essersi mai trovato veramente a suo agio all’interno di uno studio di registrazione. La buona riuscita dei suoi album, fin dagli esordi con gli Stooges, è sempre dipesa dai collaboratori e produttori scelti, ed è per questo che la sua discografia è così varia nell’essere anche un continuo susseguirsi di alti e bassi, perché da solo il nome di Iggy Pop suona a garanzia di concerti perfetti, ma assolutamente non di dischi perfetti. Perfino le sue opere migliori dipendono comunque dalla firma in sede di produzione, sia il Bowie di The Idiot o il Malcolm Burn che operò pesantemente su American Caesar (che resta forse ad oggi la sua opera più completa), o il Don Was che gli fece fare un convincente viaggio nel mainstream con Brick By Brick. Non sorprende quindi che nonostante venisse da una serie di avventure per nulla memorabili (Skull Ring o i tentativi di riciclarsi chansonnier alla francese di Preliminaires) o perlomeno discutibili (le due reunion con gli Stooges, anche se il secondo capitolo già pareva più convincente), Pop sforni a sorpresa uno dei suoi lavori migliori di sempre ricorrendo ad una stretta collaborazione. Post Pop Depression è il titolo perfetto per un disco confezionato più da che con Josh Homme, mente musicale purtroppo oggi nota a tutti per i fatti tragici di Parigi 2015, ma pur sempre una delle migliori eredità lasciate dal rock degli anni novanta, quando già con i suoi Kyuss dimostrava un acume artistico non comune. E non sorprende sentire che in questi nove brani la presenza di Homme è sì evidente (come anche quella degli altri membri della band Dean Fertita e Matt Helders degli Arctic Monkeys), ma alla fine tutti gli episodi suonano come dei brani di Iggy Pop al 100%. Niente pseudo-punk o scimmiottamenti del passato, i 9 brani mirano al sodo curando testi e arrangiamenti (con uno stile che ricorda parecchio il John Cale meno intellettualoide di metà anni settanta, vedi Gardenia), e finendo ad apparire come il testamento del Pop di fine carriera, il suo Blackstar sfornato fortunatamente senza bisogno di doverci anche lasciare. Poco importa che qua e là ci siano rimandi a cose già fatte (American Valhalla è la China Girl del 2000?), ritmi già sentiti (Chocolate Drops pare rubare il giro nientemeno che ad Another Brick in the Wall dei Pink Floyd) e qualche furbata delle sue (Vulture), quando però Sunday o la conclusiva Paraguay già suonano come dei nuovi classici. E dopo la scomparsa di Bowie e Reed, potrebbe davvero essere uno dei pochi in grado di sfornarne ancora.


Nicola Gervasini

sabato 22 ottobre 2016

NADA SURF

Nada Surf
You Know Who You Are
(Barsuk Records, 2016)
File Under:  Back to schooldays

Negli anni ottanta usavamo il termine “college rock” per band come i Nada Surf, oggi non ho ben idea se nei college americani continui la tradizione di carbonara diffusione della musica indipendente, o se l’indie anni 2000 è diventato talmente la norma da non poter più trovare un denominatore comunque nella musica ascoltata dagli studenti americani. In ogni caso i newyorkesi Nada Surf, band nata nella seconda metà degli anni 90 quando ormai già il college rock veniva chiamato alternative rock, se non già indie-rock, stanno cominciando a diventare dei veri veterani del genere. Parliamo di qualcosa che sta dalle parti del suono dei primi R.E.M., con chitarre che sanno di Byrds e California anni 60 e impasti vocali che invece guardano ai Beach Boys. Matthew Caws (voce e chitarra), Ira Elliot (batteria), Doug Gillard (chitarra) e Daniel Lorca (basso) fanno parte di quella generazione di musicisti refrattari ai cambi d’epoca e a nuove logiche di mercato (che forse semplicemente si traducono in una totale assenza di un mercato gestito per questo  tipo di produzioni). Per questo l’unica sorpresa che si ha nell’ascoltare You Know Who You Are, loro ottavo album, è quella di quanto questi quattro ragazzi ancora sappiano confezionare perle di old-pop californiano unendo ingredienti risaputissimi, eppure trovando un tocco personale che sta pian piano diventando un piccolo marchio di fabbrica. Faranno meno scena di altre band per orecchie meno allenate, ma chi ha nel cuore certe costruzioni di sopraffino power-pop troverà quasi geniali brani come Cold To See Clear, un muro di chitarre e voci decisamente anni 90 che suona ancora fresco, come anche le aperture alt-country alla Jayhwaks più poppettari di Believe You’re Mine,o  il bel rock urbano di Friend Hospital che pare il risultato di una session tra Johnny Marr e Jesse Malin (che potrebbe anche essere l’autore anche della title-track volendo). Il disco in genere ha una quadratura decisamente listener-friendly, quasi un tocco radiofonico nel suo indugiare più del loro solito su melodie (rinforzate anche dalle voci di Ken Stringfellow e Dan Wilson dei Semisonic), persino quando il ritmo accelera come in New Bird o quando si lambisce il jingle-jangle rock in una Out Of Dark impreziosita dai fiati o in una quasi easy-listening Rushing. Animal invece sembra un brano di un qualsiasi cantautore di Austin, con acustiche ed elettriche che inseguono la musica roots. Un cambio di rotta che testimonia ed elegge i  Nada Surf a ultimi paladini di underground-rock che fa tesoro di lezioni inglesi e americane in egual misura, una sorta di incrocio finale di tutta la storia del rock indipendente, quello che cerca la canzone e non la sperimentazione fine a sé stessa, e spesso la trova ancora. E in un era in cui escono miriadi di dischi dove le canzoni con la C maiuscola sono al massimo 2 o 3 se va bene, comincia ad essere un merito non da poco. Per nostalgici, ma anche per chi ancora crede in un futuro di questo rock essenziale.


Nicola Gervasini

mercoledì 12 ottobre 2016

DAVID BOWIE IS

Sarebbe stato facile allestire una mostra come David Bowie Is all’indomani della sua improvvisa morte, avvenuta il 10 gennaio scorso. L’agiografia del personaggio, spinta molto oltre il mero discorso artistico, è evidente, quasi da esaltazione postuma, ma l’esposizione (in scena al MAMbo di Bologna ancora fino al 13 novembre 2016) è stata in verità ideata nel 2013 da Victoria Broackes e Geoffrey Marsh, e, ad oggi, è già transitata in altre otto città mondiali. Il concept è semplice ed efficace: non potendo rappresentare al meglio la sua musica, si è scelto di illustrare “lo stile Bowie”, rivisitato attraverso una pittoresca storia dei suo abiti di scena e dei tanti personaggi interpretati dal signor David Jones (questo il suo vero nome ) sul palco, in televisione e al cinema. Per quest’ultimo è presente una vera e propria riproduzione di sala cinematografica con in onda spezzoni dai suoi film più famosi, dall’Uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg a The Prestige di Cristopher Nolan, teatro compreso. Più che i musicisti,  a parlare di lui in questa mostra sono soprattutto gli stilisti che lo hanno vestito, e che con lui hanno contribuito a creare un vasto catalogo di icone rock, imitate da mille artisti in ogni epoca. Il pregio della rassegna è proprio quello di introdurre qualunque visitatore (anche chi non ne conosce approfonditamente storia e musica) nel mondo di un entusiasta e instancabile creatore d’arte e idee. Bowie ha fatto di tutto e tutto sempre bene, sbagliando a volte, ma riuscendo poi sempre ad arrivare dove voleva. Il ritratto che ne esce  è quello di un uomo assolutamente non manipolabile, una spugna di mille influenze che nessuno è stato in grado di strizzare senza la sua consapevole direzione. Ha venduto anche tanto, ma sempre come ha voluto lui, con il vestito che aveva in mente, e con il suono preciso che cercava in quel momento. Particolare enfasi la mostra pone sugli esordi, sull’era Ziggy Stardust e sull’esilio berlinese, in un tripudio multimediatico di video, musica, abiti e reperti storici come testi scritti a mano, i synth utilizzati da Brian Eno, e tante altre curiosità che tengono impegnati per due ore buone senza mai avere la sensazione di vuoto. Ad esaltare l’unico grande artista che ha dimostrato che la forma conta quanto il contenuto.


Nicola Gervasini

mercoledì 5 ottobre 2016

ANDRE WILLIAMS

Abbiamo già parlato in passato di Andre Williams su queste pagine, ma è bene ricapitolare. Ottant'anni da compiere il prossimo 1 novembre, Williams conobbe una brevissima stagione di successi tra il 1955 e il 1957, quando finì in classifica con brani come Bacon Fat, Jail Bait o Greasy Chicken, piccoli classici su cui hanno studiato generazioni di artisti a New Orleans, da Dr. John fino a Willy DeVille. Poi però la sua storia parla di un unico ritorno discografico nel 1966 (il brano era Cadillac Jack), e quindi l'oblio. Negli anni Ottanta, finiti anche i soldi delle royalties per aver messo la penna nel successo Shake Your Tailfeather (cantata, tra i tanti, anche da Ray Charles nel film The Blues Brothers), Williams fece vita da barbone, alcoolizzato, drogato, e come tanti altri suoi coetanei, dimenticato da un era in cui la sua musica non poteva essere più di moda. 

Benedetti furono gli anni Novanta e un certo rilancio del gusto blues e del soul old-style, se è vero che dal 1990 ad oggi Williams ha ripreso a pubblicare con regolarità. Della freschezza blues-pop di gioventù resta ben poco, con una voce affaticata e usata quasi sempre più per parlare che per cantare, Williams ha abbracciato uno stile di blues infernale che ben si adatta alle sue esigue possibilità. Da recuperare anche le sue collaborazioni con i Sadies (Red Dirt del 1999 e Night & Day del 2012). Di Hoods and Shades nel 2012 avevamo parlato storcendo un po' il naso, ma sebbene oggi nel mondo new soul si possa trovare molto di meglio in termini di black music, questo I Wanna Go Back to Detroit City riesce a tratti ad attirare l'attenzione. Lo fa recuperando spirito, suoni e temi di una città ormai ridotta in macerie e povertà a seguito di un decadimento industriale che ha radici profonde e lontane, ma che proprio grazie alla forte rabbia da sfogare dei suoi cittadini, ha rappresentato da sempre un polo musicale importante e volto sempre ad una musica sporca ed energica, sia nel blues e nel soul (è nata qui la Motown Records), che nel rock classico (pensate a Bob Seger e Grand Funk Railroad), fino ad arrivare agli Stooges di Iggy Pop e agli MC5. 

La title-track iniziale è una sorta di programmatico annuncio di amore per il clima malsano della città, ma nel disco è davvero notevole l'ideale seguito di Detroit (I'm So Glad I Stayed), che in poco più di quattro minuti riassume anche ironicamente (Sono un Democratico con attitudini repubblicane declama l'incipit del brano) tutto il perché dell'amore/odio per una realtà ormai degna di un film apocalittico. Ben prodotto da Matthew Smith, il disco si avvale della esperta chitarra di Dennis Coffey, vecchio house-guitarist della Motown, che con il suo tocco infonde il giusto ritmo funky a brani come Times o al giro rock di What Now?. A volte si gira a vuoto (Mississippi Sue, o l'inutile strumentale finale) o dilata troppo brani come Hall Of Fame, più di cinque minuti di ironico e tagliente spoken sulle nomination del rock storico, mentre altrove si va sul sicuro con vecchi giri blues (Meet Me At The Graveyard e I Don't Like You No More). Comunque consigliato.

martedì 27 settembre 2016

MICHAEL KIWANUKA

Michael Kiwanuka 
Love & Hate
[
Interscope/Polydor 
2016]
www.michaelkiwanuka.com File Under: new soul 2.0

di Nicola Gervasini (01/08/2016)
Si potrebbe dire che il capitolo secondo di Michael Kiwanuka potrebbe anche equivalere all'inizio dell'era "New Soul 2.0". Che è come dire che il recupero del vecchio soul avvenuto negli anni zero passa ad una nuova fase, che non è non sarà mai "nuovo", ma semplicemente riadattamento revivalistico di un altro tipo di vecchio. Il giovane artista londinese aveva già fatto parlare di sé con l'esordio Home Again del 2012, disco che ha anche venduto bene, ma che non ha avuto seguito per ben quattro anni, fino a questo Love & Hate. Anni spesi bene insieme al produttore Danger Mouse, forse uno dei pochi rimasti sulla piazza capace di coniugare modernità e vendibilità con la qualità.

E se al suo esordio Kiwanuka era sembrato solo uno dei tanti nuovi adepti del culto del soul classico con una insana passione per lo smooth-soul alla Smokey Robinson, qui si comincia già a sentire un autore e un artista un gradino sopra la media. Basterebbero anche soltanto i dieci minuti di apertura di Cold Little heart, emozionante crescendo in chiave soul barocca che riesce in un colpo solo a sintetizzare tutta la black music classica con l'indie-folk degli anni 2000. L'album ha una intensità e una qualità di scrittura davvero notevole, e forse il passo in più che manca è l'introduzione di un po' più di ritmo, una spruzzata funky che gioverebbe ancor maggiormente al suo cocktail, visto che il singolo orgogliosamente antirazzista Black Man in a White World rinverdisce i fasti polemici di Marvin Gaye e Curtis Mayfield, ma non basta a dare vigore all'insieme. In ogni caso dal punto di vista emotivo il disco non ha quasi mai punti morti, e gli omaggi al Philly Sound di Falling e della title-track si imprimono nella mente fin dal primo ascolto.

Da notare anche un deciso miglioramento nell'uso della voce, che dall'attenta e precisa maniera del primo album, sta assumendo un tono personale e riconoscibile. Tra i suoni volutamente retrò di One More Night(niente che non abbia già fatto Lenny Kravitz negli anni novanta in ogni caso), ballate pianistiche un po' furbe che cercano il sound di Bill Withers (I'll Never Love) si giunge al convincente wall of sound di Rule The World, dove cori, violini e un memorabile assolo finale del chitarrista Miles James regalano uno dei momenti più epici del disco. Finale con la lunga Father's Child (anche qui con sezione d'archi strabordante) e una The Final Frame che fa l'occhiolino a Easy dei Commodores di Lionel Richie, giusto per chiudere il cerchio delle influenze più evidenti.

Ottima conferma di un artista che sta dalla parte di quelli che riscrivono con intelligenza e vero talento.

martedì 13 settembre 2016

RED HOT CHILI PEPPERS

Il percorso dei Red Hot Chili Peppers somiglia sempre più a quello dei R.E.M.: anni ottanta fatti di solida gavetta undergound, anni novanta fatti di successi e grandi vendite, anni duemila caratterizzati da una lenta ma inesorabile perdita di creatività e mordente. Michael Stipe e soci hanno avuto il coraggio di fermarsi (per sempre?), Anthony Kiedis, Flea e compagni invece tengono duro, e dopo l’insuccesso dello spento I’m With You del 2011, con The Getaway (Warner Bros.) provano a dare un senso al loro futuro. Archiviato dopo 25 anni il produttore Rick Rubin, i quattro si sono affidati al modernista Danger Mouse per un disco che fin da subito sa di “adesso proviamo a fare qualcosa di diverso”. Missione riuscita a metà, perché se è vero che il disco è sicuramente il più interessante dai tempi di Californication, manca però l’obiettivo di definire una nuova direzione, finendo a riproporre schemi risaputi scontentando tutti. C’è il funky (la quasi disco Go Robot ad esempio), ma non è travolgente come un tempo, c’è il pop (The Longest Wave) ma non è più così vendibile, ci sono ancora rari sprazzi di rock (Detroit), e c’è anche altro (l’accoppiata inziale The Getaway/Dark Necessities mette insieme un po’ tutte le loro anime) che sa forse di esperimenti del momento. Il presente li vede ancora degni di attenzione, ma sul loro futuro restano ancora parecchie nubi nere.


Nicola Gervasini

giovedì 1 settembre 2016

ZUCCHERO

I quotidiani italiani continuano imperterriti a chiamarlo ”blues”, ma sappiamo bene che ciò che Zucchero propone ormai da più di 30 anni è Pop italiano, appena sporcato di un Soul certo non originalissimo. Non c’è una sua canzone che non sia, se non proprio plagiata, perlomeno “ispirata” da altro brano, sia esso un classico della Black Music o uno qualsiasi dei tanti brani presi in prestito da Joe Cocker; eppure il nuovo album Black Cat (Universal) merita una riflessione. Se perfino Bob Dylan o i Led Zeppelin rubavano a tutti per rendere oro quello che prima era argento, Zucchero finisce sempre per offrire un prodotto per certi versi superiore alla media italiana. Magari non nei testi, ancora legati a quell’infantile bisogno di liberazione sessuale e trasgressione anti-clericale che è tipico del mondo emiliano, o capaci di rime quantomeno discutibili (Ora fai come fanno i raga. E credi d'essere Lady Gaga), quanto nella produzione di suoni e melodie che sono ormai un vero e proprio marchio di fabbrica. Facile quando hai Mark Knopfler in session e tre produttori come Don Was, T-Bone Burnett e Brendan O’Brien, che per chi mastica musica americana sono come dire il massimo possibile, ma resta il fatto che la farina del suo sacco si riconosce sempre, e che i suoi album insegnano a tutti la nobile e ormai ovunque perduta arte di cercare la perfezione senza perdere feeling e groove.

Nicola Gervasini

mercoledì 17 agosto 2016

DUSTY SPRINGFIELD

Dusty Springfield 
Come for a Dream: The U.K. Sessions 1970-1971
[Real Gone/ IRD 2015]

www.realgonemusic.com
File Under: Lost gems
di Nicola Gervasini (27/02/2016)
La storia raccontata da Come for a Dream- The U.K. Sessions 1970-1971, pubblicazione d'archivio di Dusty Springfield, è quella di politiche discografiche oggi ormai non più esistenti e immaginabili. Nel 2016 si registra e si pubblica tutto, in qualunque modo o canale. Nel 1970 invece una grande etichetta come l'Atlantic poteva anche permettersi di impegnare una nuova gallina dalle uova d'oro come la Springfield, fresca del successo di album come "Dusty in Memphis" e "From Dusty With Love", in una lunga serie di session, rigettando però gli album presentati. La storia dice infatti che la sua carriera fu pesantemente segnata dalla pausa imposta dalla grande major, che solo nel 1972 pubblicò l'album "See All Her Faces", unendo brani provenienti da diverse sessions e pubblicandolo solo in Inghilterra, condannando così il disco all'insuccesso e all'oblio.

Già lo scorso anno era uscito Faithful, album presentato dalla Springfield nel 1971, ma mai pubblicato, e per più di vent'anni erroneamente ritenuto perduto in un incendio. Ora questa nuova raccolta cerca di fare ulteriore ordine, pubblicando interamente le incisioni realizzate a Londra in un lungo arco di tempo che va dall'8 giugno del 1970 al 19 novembre 1971. Alcuni di questi brani erano già stati recuperati dalle pubblicazioni successive, altri vennero poi manipolati come bonus track di alcune raccolte e riedizioni in cd, ma molti risultavano ad oggi ancora inediti. Regina del soul bianco per una breve stagione, la Springfield nel 1970 portava avanti quella sua visione "poppish" della musica nera che ancora oggi (come allora) ha molte adepte (pensate a Joss Stone ad esempio). Ma quando per gli studi si aggirano produttori come Tom Dowd, Jerry Wexler o Arif Mardin si ha la garanzia che non tutto si risolverà in un pop levigato e insulso. Prendete ad esempio la cover di I Wasn't Born To Follow, immancabile passaggio attraverso il songbook di Carole King, dove alla doverosa estetizzazione della melodia fa da contraltare una slide-guitar decisamente southern-oriented, segno di una decisa apertura ai nuovi sound imperanti nei primi anni settanta.

La linea però appare non chiara proprio per i troppi interessi dimostrati e i troppi produttori coinvolti, non sempre allineati sulla strada da intraprendere. E così per una sentita ma decisamente pomposa versione di Yesterday When i Was Young di Charles Aznavour, abbiamo una delle tante versioni esistenti di A Song For You di Leon Russell, per passare alla musica brasiliana con Come For A Dream, un brano di Antonio Carlos Jobim. E si può immaginare quindi che il pubblico potesse essere confuso da una artista che passava dall'easy-soul in stile Supremes di Girls It Ain't Easy a pezzi fortemente rock-oriented come Crumbs Off The Table (scritta da Scherrie Payne, sorella minore della più nota Freda, e che successivamente sarà lead singer di una edizione post Diana Ross proprio delle Supremes).

Qualche eccesso di eleganza, ma anche classe a profusione: la raccolta evidenzia una valida interprete che stava già perdendo il treno per confermare il successo, ma che forse è stata archiviata troppo in fretta da un'industria che ai tempi non ammetteva passi falsi.

martedì 19 luglio 2016

DIRK HAMILTON

Dirk Hamilton 
Touch and Go
[Acoustic Rock/ IRD 2016
]
www.dirkhamilton.com
 File Under: beautiful losers are still alive
di Nicola Gervasini (28/06/2016)
Facciamo un discorso un po' scomodo: ci siamo mai chiesti "noi che ascoltiamo quelli che nessuno ascolta" se poi sia davvero solo un ingiustizia che gente come Willie Nile, Steve Forbert o Elliott Murphy (giusto per citare "losers" noti a tutti i nostri fedeli lettori) abbiano dovuto faticare per portare avanti le proprie carriere, vissute all'ombra del mondo discografico che conta (ma un'occasione per tutti c'è comunque stata)? Era davvero tutto oro che cola nel fango di un ingiusto oblio? Prendiamo il caso Dirk Hamilton: esordi su major, primi album bene, con cura negli arrangiamenti, "pensati". I suoi primi 4 album restano da avere, non si discute. Ma poi? L'apartheid discografico degli anni 80, la salvezza trovata in Italia grazie a Franco Ratti e la sua Appaloosa Records, e un ripresa discografica che fino ad oggi forse solo con l'ottimo Sufferupachuckle del 1996 ha veramente ritrovato lo smalto e la brillantezza dei primi anni.

Colpa solo del fatto che è stato dimenticato ed emarginato dunque se i suoi dischi hanno sempre lamentato grosse pecche produttive ed evidenti cali di ispirazione? In fondo, a ben vedere, a lui una nuova Billboard on the Moon non è più uscita. O non è forse vero che Hamilton, come anche i suoi colleghi, si sia un po' arreso all'evidenza di una grande carriera naufragata sul nascere, contando però sul suo piccolo ma duraturo zoccolo di fans ai quali basta anche solo il fatto che si faccia vivo, per sentirsi parte di una setta carbonara per pochi adepti. Sono proprio loro i primi a non richiedergli nuovi slanci creativi, ad accontentarsi sempre in nome dell'epica della resistenza del Loser contro i cattivoni dell'industria discografica. Arriviamo dunque a Touch and Go: la bella notizia per i fans è che si tratta senza dubbio del suo miglior disco da 20 anni a questa parte, appunto da quel Sufferupachuckle di cui pare fin da subito l'ideale seguito per suoni, stile e tipo di canzoni.

La brutta notizia è nella frase precedente: Hamilton si è solo impegnato di più in fase realizzativa, ha selezionato bene le canzoni, ma non c'è ancora nulla qui che possa cambiare la sua storia, né tanto meno rilanciarlo. Ma, quel che è peggio, neppur incuriosire troppo le nuove generazioni di cantautori e i loro pochi giovani seguaci. Quello che sentiamo è ancora quel suo essere un po' un Van Morrison più ironico e stralunato, che mischia folk, soul e ogni tanto qualche ritmo caraibico. Mix vecchio, ma sempre godibile quando serve a tirar fuori pezzi come Head On The Neck o ballate soulful come la title-track, o quando finalmente si risente la sua penna ritrovare la vena satirica che più gli era congeniale (Build A Submarine).

Prodotto praticamente in presa diretta, live in studio da Rob Laufer (artista solista più conosciuto come chitarrista per Fiona Apple, Frank Black e versione recente dei Cheap Trick), Touch and Go è un disco che merita attenzione brano per brano (non ne abbiamo lo spazio qui ora…), e lo si può salutare anche come un gradito ritorno alla forma. Ma contate che sto sempre rivolgendomi solo a voi che già del buon vecchio Dirk conoscete vita e miracoli.

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