Un sottovalutato viaggio nel migliore songwriting americano,
o solo un lungo capriccio di una star scoppiata? La disputa sul valore degli
anni settanta del King Elvis Presley è
sempre aperta, anche ora che tira aria di rivalutazione, e magari ci si vergogna
meno a scrivere bene di un uomo che nel 1970 beveva il tè al fianco di Richard
Nixon mentre il rock, quello “serio”, contestava nelle piazze. Certo, la nuova
edizione rimasterizzata e ampliata di Elvis Recorded Live on Stage in Memphis
(Sony) ci ricorda che nel 1974 il disco uscì esibendo senza ritegno la sfarzosa
entrata della sua villa di Graceland, dimenticandosi di una nazione ridotta in
rovine da una guerra persa e da un economia in piena implosione. Sarà per
quello che l’album non è mai stato troppo amato (unico suo live a non aver raggiunto lo status di disco di platino), vuoi anche
per una scaletta sbrigativamente tagliata, vuoi perché per molti fu l’ultimo
fuoco prima della discesa verso l’inferno. La nuova edizione però ripropone
l’intero concerto, riportando alla luce alcune perle come Steamroller Blues di James Taylor, le sempre imperdibili Suspicious Minds e Polk Salad Annie, e evergreen come Love Me Tender, Fever e Teddy
Bear/Don’t be Cruel. Nel secondo cd ci vengono invece offerte le prove del
concerto e qualche spezzone di una quinta serata del tour. Chicche per
collezionisti a parte, sentita nella sua versione completa, la performance
dimostra ancora una volta quanto Elvis avesse ancora molto da dare come
interprete, e come anche solo la scelta di affrontare l’American Trilogy di Mickey Newbury (una piccola suite antirazzista
sulla Guerra civile americana) era segno che non fosse proprio così rimbambito.
Certo, il suo pubblico nel 1974 era ormai quello delle conservatorissime madri di
famiglia e non più quello dei teenagers affamati di rivoluzione, ma se oggi provate
a contare i capelli bianchi ad un qualsiasi concerto dell’altro rock, vi renderete conto di quanto la cosa fosse perdonabile
già allora.
Nicola Gervasini
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