lunedì 17 novembre 2025

Emma Swift

 

Emma Swift

The Resurrection Game

(2025, Tiny Ghost Records)

File Under: Sophisticated Lady

Il rock non è più materiale da bruciare solo in anni giovanili, e così non pare troppo strano che l’australiana Emma Swift pubblichi il suo vero album d’esordio a 44 anni. Intendiamoci, The Resurrection Game non è la sua primissima pubblicazione, perché dopo anni passati in terra natia come speaker radiofonica, già nel 2014 Emma si era recata a Nashville per registrare un Ep omonimo di 6 brani, e nel 2020 aveva dato alle stampe un cover-record interamente dedicato a Bob Dylan (tappa obbligata per molti, ma solitamente a carriera avanzata), genialmente intitolato Blonde On The Tracks. Ma questo è il primo vero album di materiale autografo, e c’era una certa curiosità nel cercare di immaginarsi quale stile avrebbe abbracciato.

E anche qui tutto sommato la particolarità è che il disco pare davvero uno di quei momenti di riflessione e introspezione personale che di solito capitano agli artisti dopo un lungo percorso artistico, quasi che Emma stia ripercorrendo le più comuni fasi creative al contrario, partendo dall’album in cui racconta la fatica di ritrovarsi, senza averci mai cantato prima di quando si era persa. Si tratta davvero di una raccolta di canzoni che parlano di resurrezione, dalla depressione e da una mancanza di fiducia in sé stessa. Il compagno Robyn Htchcock è stato giustamente tenuto fuori da questo percorso così personale, anche perché lo stile da sontuoso chamber-folk di questi brani non è certo nelle sue corde, ma va notato che il merchandising collegato all’album e al tour mantiene il loro gattone grigio Ringo come icona e testimonial, lo stesso felino che già abbiamo visto nelle recenti copertine dei dischi di Robyn.

Registrato con un quartetto di musicisti che offre una base asciutta e priva di qualsiasi virtuosismo (Juan Solorzano alla chitarra, Spencer Cullum alla pedal steel e Dominic Billet alle percussioni), The Resurrection Game poggia tutto il suo impianto sonoro sulle orchestrazioni pensate dal tastierista e produttore Jordan Lehning, figlio d’arte (suo padre Kyle Lehning è un vecchio produttore e session man della scena country di Nashville, lo trovate nei dischi migliori di Waylon Jennings degli anni Settanta ad esempio) che ha condiviso con Emma la passione per l’arte dell’arrangiamento d’archi in puro stile Lee Hazlewood o Harry Nilsson, anche se lo spleen oscuro che permea queste canzoni potrebbe anche far tirare in ballo Scott Walker.

Ne esce un album affascinante e ben scritto, con brani davvero notevoli come Nothing and Forever, No Happy Endings e How To be Small, ma forse ancora troppo monolitico nel proprio concept produttivo, e paradossalmente aveva dimostrato più versatilità alle prese con il mondo di Dylan, che con il suo personale. Ma se amate i dischi di Angel Olsen, per dire un nome in qualche modo assimilabile, o ancor più avete amato l’album Ramona di Grace Cummings lo scorso anno, potrete trovare in questo mondo sofferto e sognante il vostro terreno naturale. Resta la sensazione che possa sviluppare ancora meglio certe idee e intuizioni da autrice per nulla alle prime armi, per cui per ora diamole la fiducia che comunque merita.

 

Nicola Gervasini

venerdì 14 novembre 2025

Cangolla

 Cangolla – Iter

Vina Records - 2025



Si dice spesso che il rock abbia perso la capacità di palare del contemporaneo, e che la maggior parte degli artisti si sono chiusi in uno sterile continuo racconto di sé stessi per non dover affrontare una realtà ormai troppo terrificante anche per essere raccontata in una canzone. Eppure nei bassifondi ancora si muovono artisti che provano a veicolare le problematiche più grandi in versi, e tra questi ci sembra il caso di segnalare i Cangolla, un progetto creato anni fa da Emanuele Calì che si è trasformato in vera propria band con il trasferimento a Berlino. Iter è un disco che nasce innanzitutto dalla rielaborazione dei testi presenti in una graphic novel, Viaticus, scritta da Calì con il disegnatore Giacomo Della Maria, ed è stato registrato nel corso di due anni di lavoro nella città tedesca, assorbendone tutte le atmosfere e sonorità.

Registrato da una formazione a 4 che comprende anche la chitarra di Marco Papa e la sezione ritmica di Yerko Ursic e Felipe Melo, l’album offre nove brani che musicalmente spaziano nella storia del rock berlinese, con testi principalmente in inglese e un suono chitarristico saldamente ancorato ad un mondo post-rock che può ricordare, ad esempio, i dischi anni 80 dei Fall. L’apertura del disco con Morning Star e Iter tracciano infatti subito la linea stilistica, con tempi sincopati, chitarre acide, e il tono declamatorio di Calì mentre affronta testi che parlano di viaggi esoterici o sofferte dichiarazioni di resistenza immerse nei riverberi delle due chitarre

In Erdelose Pflanze inglese e tedesco si mischiano in una lenta e catatonica ballata per evocare un legame con la terra distrutto dall’inquinamento moderno, mentre le immagini marine di Frantic Movement ci immergono in un crescendo di chitarre distorte e quasi al limite dello stoner-rock. Calm Waves invece gioca ancora una volta con le lingue, inserendo stavolta termini francesi per descrivere uno stato mentale che passa dalla calma alla tensione con grande facilità, mentre la veemente The Puppeteer interrompe il clima ipnotico dell’album per raccontare di burattinaie e manipolazioni (il testo è stato scritto dalla poetessa Maria Grazia Tonetto). Con Pupilla Digitale l’album continua il suo viaggio europeo approdando all’italiano, in un brano che ancora una volta continua l’esplosione di rabbia del precedente per descrivere l’incubo tecnologico dei tempi moderni. Il clima onirico della prima parte dell’album torna in Zenobius I, 16, un viaggio nel tempo, con persino citazioni in greco antico, che introduce al tour de force linguistico della conclusiva Dicotomias, dove gli opposti che si confrontano nel testo parlano due lingue completamente diverse (spagnolo nella prima parte, siciliano nel finale). Se musicalmente il disco è ancorato a stili più che collaudati nel passato, l’album piace soprattutto per la capacità di Calì di trovare la lingua più adatta per esprimere la sensazione del brano, sia essa, di rabbia o di disagio


VOTO 7

Nicola Gervasini. 


lunedì 10 novembre 2025

Joan Shelley

 Joan Shelley

Real Warmth

(2025, No Quarter)

File Under: “holding my dear friends and drinking wine”


Se c’è un aspetto che rende sempre interessante seguire e scrivere di musica, è quello di seguire un artista fin dagli esordi, raccontandone quindi nel corso degli anni le evoluzioni e la crescita artistica in diretta.  Ad esempio, seguo da tempo le gesta di Joan Shelley, folksinger americana attiva dal 2010, perché, anche nei suoi esordi da indipendente, ha sempre dimostrato di poter dare qualcosa in più ad un genere spesso relegato nella propria nicchia di utenza.

Quello di trasportare la grammatica del brit-folk classico anche oltreoceano, immergendola nei sapori del folk e del country americano, è una operazione che non nasce certo con lei, ma sicuramente il suo album Like the River Loves the Sea del 2019, arrivato dopo che Jeff Tweedy l’aveva sponsorizzata e aiutata nell’opera precedente, è stata una milestone fondamentale in questo processo, che in questi anni, tra l’altro, ha parlato molto spesso al femminile. Dopo la conferma di The Spur del 2022, arriva oggi questo Real Warmth a consacrarla tra i nomi più importanti (e ormai sono tanti) del cantautorato femminile odierno. 

Le registrazioni del nuovo disco sono tornate in patria, in Michigan, dopo le trasferte (persino islandesii) dei precedenti lavori, dove con il compagno e chitarrista Nathan Salsburg, e la vicinanza della figlia, ha trovato nuova ispirazione. E la collaborazione di amici e colleghi a noi ben noti come Doug Paisley o Ben Whiteley (bassista dei The Weather Station, anche produttore dell’album) testimonia quanto il suo nome sia ormai considerato tutt’altro che quello di una outsider.

Dal punto di vista compativo questi nuovi 13 brani segnano poi un ulteriore ampliamento del suo spettro di riferimenti, che tornano ad essere più statunitensi, con l’aggiunta di qualche sapore jazz (sentite il sax di Karen Ng in On The Gold and The Silver) o country (Who Do You Want Checking in on You). Insomma, la lezione di Joni Mitchell resta sempre dietro l’angolo per tutte queste nuove regine della canzone elettro-acustica, ma la Shelley, come altre colleghe, ha ben chiaro come far valere la propria personalità, anche nei testi sempre molto personali e originali, che sanno essere poetici e gentili, ma anche crudi quando esprime la propria veemente protesta verso un mondo difficile da comprendere (The Orchard). 

Ma è un caso, perché ovunque spira aria di famiglia e idea di comunità (Everybody, ma anche nell’iniziale e programmatica Here in The High and Low), ed è forse proprio questo confronto tra la propria dimensione casalinga, così pacifica e piena d’amore, e l’orrore che regna nel mondo, che ammanta il disco di una inquietudine evidente per un futuro tutt’altro che chiaro (Heaven Knows, Give It Up, It’s Too Much). Sono canzoni da scoprire una ad una, e da ascoltare come al solito nel vostro silenzio, se avete la fortuna di trovarne ancora uno in questo volgare chiasso in cui un disco sussurrato come Real Warmth faticherà a farsi sentire.

Nicola Gervasini


lunedì 3 novembre 2025

Jake Winstrom

 

Jake Winstrom

RAZZMATAZZ!

(2025, Jake Winstrom)

File Under: Canceling the noise

Jake Winstrom viene dal Tennessee, e, nonostante l’aria da eterno ragazzino, è già giunto al terzo album, ma Il suo nome era già circolato nel lontano 2008, quando a capo della band dei Tenderhooks, fece una gran bella impressione al Bonnaroo Festival, anche se il loro unico album Vidalia non fu granché segnalato e l’esperienza finì presto. Rimessosi “on the road” nel 2018 con l’esordio Scared Away The Song e il seguito del 2020 intitolato Circles, l’artista si è preso una nuova lunga pausa prima di pubblicare questo RAZZMATAZZ!, e l’impressione è che forse potrebbe essere la volta buona di farsi notare. Proposta non facile la sua, perché se da una parte predilige cimentarsi in bani di soffice chamber-pop acustico che guardano a Paul Simon come schema classico, passando però attraverso un piglio più “indie” alla Elilott Smith (in Can I Get A Ride, ma anche nell’apertura di Exhausted, lo ricorda molto), dall’altra la sua formazione di rockettaro affiora ogni tanto quando chiama a raccolta il batterista Matt Honkonen a dare vigore alle sue canzoni (sentite ad esempio la ruvida e quasi “blue-collar” One More For The Moon).

Di certo è la sua voce molto particolare, pulita e melodica, sospesa tra la teatralità di un Rufus Wainwright e una tonalità che mi ricorda, per chi se li rammenta, cantautori come Pierce Pettis o Tom McRae, o volendo andare ancora più indietro, citerei anche Marshall Crenshaw. D’altronde nella foto promozionale allegata al comunicato stampa lo vediamo in un negozio di dischi con il cd di Grace di Jeff Buckley sullo sfondo a fare da santino, ma volendo potremmo ritenere tali anche i visibili bestsellers dei Fleetwood Mac e dei Supertramp, visto che la vena melodica di certo non gli manca.

Il disco è scritto e prodotto con il collaboratore Jason Binnick, multistrumentista di solito attivo nel mondo delle colone sonore cinematografiche, e con lui Winstrom ha saputo maneggiare i ferri del mestiere sia quando si getta nell’indie-folk intimista di This Blue Note, sia quando fa sfogare la sua Rickenbacker nel Jingle-Jangle rock di Don’t Make the Rules, o quando prova a riempire gli spazi con le tante chitarre elettriche di Jaws Of Life. In Freelancing on a Pheromone richiama quasi il cantautorato rock di Pete Droge degli anni 90, ma in ogni caso è nelle ballate acustiche come Molotov o Canceling The Noise che pare dare il meglio, ed è così che infatti la dolce Lucys Luck chiude un album molto piacevole che aggiunge un nuovo nome da ricordare alla folta (ma sempre apprezzata nei nostri lidi) schiera di cantautori americani.

 

Nicola Gervasini

venerdì 31 ottobre 2025

Mike Reid & Joe Henry

 

Mike Reid & Joe Henry

Life and Time

(2025, Thirty Tigers)

File Under: No Country for Old Men

La curiosità che salta subito all’occhio, leggendo le note biografiche del settantottenne Mike Reid, è il suo passato da giocatore professionista di Football Americano, quando ha militato in NFL per 5 anni nei Cincinnati Bengals, interrotti solo da un irrimediabile infortunio al ginocchio nel 1974. Da allora Reid è diventato una figura da backstage del mondo del country, con non poche hit scritte per conto terzi (soprattutto per le star di Nashville Ronnie Milsap e Larry Gatlin), fino al grande successo di I Can't Make You Love Me (co-scritta con Allen Shamblin), bestseller di Bonnie Raitt nel 1991. La sua carriera discografica personale, infatti, inizia solo in quell’anno, quando la Columbia gli dà fiducia sulla scorta di quella hit miliardaria (l’album Luck of the Draw di Bonnie Raitt è arrivato a vendere fino a 7 milioni di copie). I due album pubblicati nel 1991 e 1992 non vendono però quanto preventivato, e così il nostro venne scaricato dalla major, e da allora ha pubblicato solo un del tutto ignorato terzo capitolo nel 2012.

Singolare anche scoprire che, dopo un lungo periodo di ritiro, il nostro, abbia conosciuto Joe Henry durante uno dei mitici” Songwriting Camp” organizzati ogni estate a Nashville da Rodney Crowell, quando le migliori penne della città si incontrano per 3 giorni scrivendo canzoni in puro spirito di collaborazione. I due si sono piaciuti, e dicono di aver scritto almeno 30 canzoni, di cui 12 sono quelle scelte per questo Life and Time (altre sono già state prenotate da Shelby Lynne per un suo prossimo album, ci anticipa Henry). Disco bello e atipico per entrambi, con un coraggioso ribaltamento di ruoli che vede Reid prendersi carico di tutte le parti vocali e della scrittura delle musiche, e Henry che scrive tutti i testi e produce.  Da notare anche il processo in questo senso, visto che Reid ha registrato in casa tutti i demo per voce e piano, e Henry ha inviato ad una schiera di fidati musicisti i nastri per sovraincidere gli interventi degli altri strumenti. Di fatto quindi nessuno dei musicisti si è mai incontrato, e tutti si sono auto-registrati in casa, con la sola eccezione di Jay Bellerose e la stessa Bonnie Raitt, che hanno registrato la loro parte in un vero studio di registrazione.

Tecnicamente per cui il gran lavoro di un Henry in ripresa da una bruttissima malattia è stato una sorta di taglia/incolla, per un risultato decisamente riuscito che sa di esibizione corale e dal vivo. L’effetto finale non è dissimile dalle produzioni di Henry degli ultimi quindici anni, con brani fatti di suoni intensi e molti silenzi, giochi ad incastro tra chitarre acustiche e pianoforti, e tanto, tanto “mestiere” da parte di entrambi. E, se vogliamo, questo rappresenta il pregio, ma anche il difetto dell’album, che suona come un continuo flusso di parole e suoni, senza ritmo, e con melodie solo accennate, che solo la grande maestria dei due padroni di casa evita di far deragliare nella noia. Per contro il pugno di canzoni, che Reid ha cantato davvero bene e con gran trasporto, confermano comunque Henry come uno dei migliori songwriter in circolazione, e il consiglio è di seguire brani come History o Weather Rose nel silenzio e con i testi alla mano per apprezzare appieno un disco non per tutti.

 

Nicola Gervasini

giovedì 23 ottobre 2025

Ryan Davis & The Roadhouse Band

 

Ryan Davis & The Roadhouse Band - New Threats From the Soul

2025, Tough Love Records/ Goodfellas

 

Sette brani con minutaggi che vanno dai circa sei ai quasi dodici minuti sono un dato abituale per un album di progressive rock, non certo per il secondo sforzo discografico di un cantautore di stampo country americano. E invece Ryan Davis, ex componente degli State Champion e originario di Louisville in Kentucky, dopo che già si era fatto notare nel 2023 con l’album di esordio Dancing On the Edge, ha voglia di sorprendere con un disco dall’inusuale struttura, assemblando per l’occasione una band (chiamata - senza troppa fantasia in questo caso - Roadhouse Band) di ben 7 elementi in cui non manca nulla, dagli strumenti cardine di un qualsiasi disco country come il violino o la pedal steel, ad elementi più modernisti come synth e qualche software di programmazione.

A questi si aggiungono più di 15 ospiti, tra cui spicca quasi come nume tutelare un Will Oldham (aka Bonnie Prince Billy) ai cori, e forse proprio da lui sarebbe utile partire per spiegarvi questo New Threats From the Soul. Perché se la title-track in apertura viaggia su canoni che potreste aspettarvi da un Chris Stapleton, già il mid-tempo Monte Carlo/No Limits mostra la sua stessa passione nel rileggere la tradizione nashvilliana con amore e originalità, con cambi di ritmo e melodia continui ad evitare la monotonia. Il trucco di Davis, che sfoggia un vocione d’ordinanza per il genere (in verità più simile a quello di Bill Callahan che ad un qualsiasi seguace di Johnny Cash come intonazione) è tutto nei testi, verbosi, a tratti apparentemente astrusi, e alquanto articolati di immagini spesso sospese tra l’ironico e l’intimista, un mondo mentale tutto da scoprire che costituisce uno degli elementi chiave per capire queste lunghe canzoni, con l’episodio più prolisso (Mutilation Springs, a cui fa seguito più tardi Mutilation Falls, e insieme fanno più di 20 minuti di canzone) che quasi ricorda certe cavalcate verbali di Mark Kozelek / Sun Kil Moon.

A volte, come nel caso dell’incedere classicissimo dell’ottima Better If You Make Me, unisce tradizione con un cantato volutamente sgraziato e meno impostato, o come nel lento racconto di Simple Joy, immerso in pedal steel e batterie elettroniche, quasi a ribadire che la tradizione deve essere per lui un pentagramma su cui scrivere la propria visione personale di una country-song. Chiude sulla stessa linea Crass Shadows (At Walden Pawn), tra rumori e suoni di strumenti giocattolo e un songwriting mai banale. Non è un disco facile New Threats From the Soul, non siamo a livelli di tour de force di un disco degli Swans, ma poco ci manca insomma, ma lo consiglio anche al di fuori della cerchia di fans di musica americana per originalità e ampio raggio di ispirazioni.

 

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

mercoledì 15 ottobre 2025

The Reds, Pinks & Purples

 

The Reds, Pinks & Purples

The Past Is A Garden I Never Fed

(2025, Fire Records)

File Under: british sadness

Glenn Donaldson è uno di quei personaggi un po’ strambi, ma creativamente vulcanici, che rende unica San Francisco e la sua scena musicale. Attivo fin dagli anni Novanta in tanti progetti (tra i vari, citiamo The Art Museums, Skygreen Leopards, Painted Shrines), dal 2019 ha ormai definito un suo suono con i The Reds, Pinks & Purples (nome considerabile come un nickname da solista), nonostante il primo brano di questo The Past Is A Garden I Never Fed, già nono album della sigla, chiosi ironicamente che The World Doesn't Need Another Band. Uno stile figlio di molteplici influenze della scena indipendente classica, e nel suo caso vengono infatti spesso citati Guided by Voices o i Television Personalities, ma in generale, come dimostra qui I Only Ever Wanted To See You Fail, ispirato da qualsiasi band abbia abbracciato un suono fatto di chitarre Jangle-pop e atmosfere un po’ plumbee da dream-pop.

Qualcuno lo mette nel calderone dello “shoegaze”, ed è vero che ogni tanto, come nel già citato primo brano, o in Richard In The Age Of The Corporation, si concede qualche timido muro di chitarre riverberate in puro stile di genere, ma alla fine Donaldson è solo uno dei tanti tessitori di fini trame pop, più britanniche che statunitensi nel DNA, compreso quel tono un po’ da crooner che tanto piace tanto agli inglesi, sciorinato ad esempio in A Figure On The Stairs. Al solito curato molto nella confezione, The Past Is A Garden I Never Fed è un disco che nasce da una cernita di più di 200 brani scritti in questi anni Venti da Donaldson, molti dei quali già pubblicati singolarmente dal suo sito, un fiume in piena che lo porta magari a non essere originalissimo nelle soluzioni anche in fase di scrittura, ma sicuramente a volare sempre su ottimi livelli.

I suoi mid-tempo come You're Never Safe From Yourself o Slow Torture Of An Hourly Wage (quanto piacerebbe questa ai War On Drugs!) sono figli degli Smiths o degli Housemartins (quell’armonica un po’ alla Reverends Revenge…), se proprio vogliamo andare indietro nel tempo, ma lo spleen malinconico di una Trouble Don’t Last discende dal Brit-pop alla Pulp di metà anni Novanta, e l’incremento di elettricità introdotto in My Toxic Friend ricorda tantissimo Evan Dando e i suoi Lemonheads. E ovviamente non può mancare il passaggio tutto Rickenbacker alla Roger McGuinn di Marty As A Youth (ma con tastiera alla Cure), pezzi suadenti alla Richard Hawley (What's The Worst Thing You Heard?), e un amaro finale acustico che assicura che There Must Be A Pill for This. Disco godibilissimo di uno dei tanti moderni artigiani di musica che garantiscono che, se non c’è ormai più troppo spazio per nuove grandi rivoluzioni musicali, ne resterà sempre abbastanza per nuove ottime canzoni.

 

Nicola Gervasini

venerdì 10 ottobre 2025

Hayes Carll

 Hayes Carll

We’re Only Human

(2025, Hwy 87 Records)

File Under: Making Amends


Prima o poi arriva un momento nella vita di un uomo in cui ci si auto-rivolge qualche pensiero

motivante, in cui si riguarda agli errori del passato e si fanno buoni propositi sul futuro, o in cui

si decide cosa veramente conta, e quale, delle innumerevoli voci che ci parlano, seguire. Non è

facilissimo per molti, ma sicuramente un artista ha un modo ideale per farlo attraverso la sua

opera. Ed è così che anche per un musicista come Hayes Carll, ormai sulla strada del

cantautorato americano da più di vent’anni, pare ovvio arrivare a scrivere un disco come We’re

Only Human, chiaramente un album rivolto prima di tutto a se stesso, prima ancora che ad un

pubblico. E non parliamo neanche di un album “intimo”, nel senso di confessione di una

“another side“ di se stessi (per dirla alla Dylan), ma proprio di una sorta di lunga predica auto-

rivolta, e quindi per forza di cose autoreferenziale.

Bisognoso di una disperata ricerca di risposte, Carll usa il veicolo di una religiosità laica mai

direttamente espressa, con temi ricorrenti come la ricerca di un perdono o di una grazia (ad

esempio in Make Amends), che sono cari al cattolicesimo americano, ma che rimangono

comunque sospesi ad un livello di riflessione personale. Il titolo infatti parla di umanità, parla a

se stesso usando però un plurale, anche quando nella title-track ricorda che nel mondo si

parlano seimila lingue, ma per dire tutti le stesse cose. E così il disco cerca la pace, interiore

(What I Will Be), o anche quella donata da un uccellino che canta visto dalla veranda di casa

(Stay Here a While, scritta con MC Taylor, aka Hiss Golden Messenger).

Di fatto la condizione di Hayes è la stessa di molti di noi, con una modernità che ci pare fuori

controllo o fuori logica, cantata in Progress of Man (Bitcoin and Cattle), o con la ricerca di

contatti umani affini che non siano solo virtuali di Good People (Thank Me). Nato alla scuola di

songwriting di John Prine e Loudon Wainwright III, Carll non evita ogni tanto qualche tono

ironico o sarcastico (High), ma il clima è decisamente più serio dei suoi standard abituali, e in

casi come I Got Away with It, anche abbastanza drammatico. C’è comunque gran spazio per la

speranza (One Day), e per una riconciliazione finale con il mondo, resa in un pezzo cantato a

più voci come May I Never (una idea simile alla chiusura che fece Nick Cave del disco Murder

Ballads), dove Carll chiama a raccolta alcuni amici a noi ben noti come Ray Wylie Hubbard,

Shovels & Rope, Darrell Scott, Nicole Atkins e Gordy Quist e Ed Jurdi dei The Band of Heathens.

Disco formalmente ineccepibile, prettamente acustico ma con anche molti interventi esterni

(compresi i fiati), We’re Only Human è un album intenso e importantissimo per il suo percorso

di crescita, che conferma però i pregi e difetti che da sempre ha caratterizzato la sua

produzione, con quel vago “accontentarsi” di soluzioni semplici e raffinate, quanto un po’ ovvie,

che impedisce un po’ di caratterizzarlo e identificarlo con uno stile tutto suo subito

riconoscibile.

Nicola Gervasini

mercoledì 1 ottobre 2025

Swans

 

Swans – Birthing

2025 - Mute/Young God

115 minuti, solo 7 brani, quasi tutti con minutaggi al di sopra dei dieci minuti. Affrontare un disco degli Swans è un atto di coraggio, o, se siete degli adepti, di pura fedeltà. Con una carriera ormai lunghissima sotto varie spoglie, il leader Michael Gira ha ormai da qualche anno preso questa china nei tempi delle canzoni, quasi in voluta controtendenza con un mondo discografico che ci sta riportando alle “2 minute songs” e al singolo come formato standard. Sarà che Michel Gira noi ormai ce lo immaginammo come una sorta di guru spirituale che vive al di sopra della realtà, e perciò al riparo da qualsiasi tipo di idea di convenienza, ma forse poi non è troppo così. Perché poi, come era già successo negli ottimi The Glowing Man del 2016 o Leaving Meaning del 2019 (e forse in modalità più confusa nel più recente The Beggar del 2023), in tutto questo tempo che si prende (o ci ruba, a seconda di come la vogliate vedere), gli Swans non sono affatto avari di soluzioni musicali più che accessibili, che si diversificano anche nel corso dello stesso brano, e che non hanno nulla a che vedere con la complessità delle strutture del prog (i minutaggi porterebbero a pensarlo), quanto ancor più con un bel mix di soluzioni più legate al mondo alternativo degli anni ottanta.

The Healers apre l’album con dieci minuti di atmosfere da musica gotica e spaventa un po’, e se non lo conoscessimo già, probabilmente ci chiederemmo ”ma davvero intende fare 115 minuti così?”. Ma lo sappiamo, la risposta è no, visto che lo stesso brano si sviluppa in un declamatorio tour de force con momenti di elettricità noise. E struttura simile ha I Am a Tower, che si tramuta in una sorta di sua versione riveduta e corretta di Heroes di David Bowie (la canzone non è quella, ma ritmo e chitarre si), o dell’etereo canto di rinascita di Birthing, con il suo finale di minacciosi colpi di batteria. L’unico brano con durata diciamo “normale” (quasi sette minuti) sta nel mezzo, quasi a separare le acque di un mare di note con un brano che sa di new wave anni 80, tra voci e mille tastiere (e soprattutto, se leggete i credits, scoprirete che quasi tutti e sette i membri della band sono impegnati anche nella produzione di loops, oltre che a suonare i rispettivi strumenti).

Il disco riprende poi con i toni da apocalisse di Guardian Spirit, i cambi di ritmo di The Merge (che si chiude con una sognante ballad acustica), e con la finale (Rope) Away, divisa in due sezioni distinte.  Lo schema dei brani, infatti, è sempre quello di una lunga inquietante intro, con uno sviluppo a canzone che rassicura l’ascoltatore. Gioco che funziona, perché nonostante la loro prolissità, i pezzi riescono a tenere alta la tensione e quel senso di “sentiamo che succede ora”. Difficile dire poi che ruolo abbia all’interno della sua sterminata discografia, considerando anche altri progetti come, ad esempio, gli Angels Of Light, ma sicuramente Birthing vede una band ormai consolidata (da tempo ormai il fulcro sono le chitarre di Kristof Hahn e Norman Westberg, ma vanno anche notati gli interventi del polistrumentista Larry Mullins e del batterista Phil Puleo), che sempre più registra album come fossero delle lunghe esibizioni live libere da ogni schema.

 

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

martedì 30 settembre 2025

ALEX G

 Alex G – Headlights

RCA, 2025

L’americano Alexander Giannascoli, in arte Alex G, potremmo considerarlo uno dei migliori rappresentanti

della “Bandcamp Generation”, cioè quegli artisti che hanno beneficiato delle libertà auto-imprenditoriale

offerta della nota piattaforma di streaming, per farsi notare e passare quindi ad una carriera sotto la

protezione di una etichetta discografica. Ben 4 album pubblicati in maniera indipendente tra il 2011 e il

2012 hanno infatti dato vita ad una carriera che oggi arriva, con questo Headlights, al sesto capitolo

ufficiale (e quindi decimo, comprendendo anche i 4 album di cui sopra).

Ma qui possiamo dire che si apre un nuovo capitolo, perché da Label importanti, ma comunque da

sottobosco, come la Orchid Tapes o la Domino, si passa ad una major come la RCA, e in questi casi la

domanda tipica del fan è sempre la stessa, chiedersi se questo abbia cambiato qualcosa nella sua qualità. La

risposta è implicitamente data dal fatto che Alex G non cambia squadra e le modalità di produzione rispetto

al precedente album God Save the Animals (2022), confermando alla co-produzione Jacob Portrait, bassista

della Unknown Mortal Orchestra, e suonando come suo solito praticamente tutti gli strumenti (sezione

d’archi a parte), lasciando spazio alla sua storica band d’accompagnamento nei tour (Samuel Acchione,

John Heywood e Tom Kelly), solo nell’ultima traccia (Logan Hotel), quasi a voler ribadire la piena continuità

con la sua storia e il suo giro di amicizie e collaborazioni.

In ogni caso il salto di qualità in termini di distribuzione, e la possibilità di lavorare in un vero studio di

registrazione, non ha cambiato la ricetta tipica delle sue canzoni, sempre in bilico tra folk classico e un

atteggiamento indie che guarda a Elliott Smith nello stile, e magari anche a personaggi meno noti che tanto

hanno fatto per la scena indie di 20 anni fa come Langhorne Slim o M.Ward. Manca forse nel menu un

piatto atipico, un qualcosa che si discosti veramente dalla sua collaudata routine (oggi diremmo qualcosa

che sia fuori dalla sua “comfort zone”), confermata anche negli abituali testi abbastanza onirici e visionari di

brani come Oranges, Afterlife o June Guitar, quasi che, ora che ormai ha attirato l’attenzione, Alex G non

vuole sbagliare e non si prende troppi rischi. Ne esce uno album discreto, con brani sicuramente

accattivanti come Real Thing o Louisiana, ma che mi sa che ancora lo terrà un po’ nelle retrovie di una

scena odierna troppo affollata per impressionarsi troppo per questi brani.

VOTO: 6,5

Nicola Gervasini

lunedì 29 settembre 2025

Jeff Buckley - Nightmares by the sea

 

Chissà quante volte una donna si è chiesta cosa diavolo passasse nella testa di Jeff Buckley, probabilmente abbastanza perché lui provasse per una volta a mettersi nei loro panni nell’enigmatico testo di Nightmares By The Sea. Testo scritto infatti dal punto di una Lei che cerca di immaginare “i pensieri in bottiglia dei giovani uomini arrabbiati” e ne viene affascinata, quanto anche intimorita. Un testo in sé oscuro e romantico al tempo stesso, persino ironico quando lei definisce il proprio amato “rube”, uno slang che in italiano tradurremmo liberamente come “burino”. Il brano è presente sia nella versione prodotta da Verlaine, sia nel mix originale nel secondo CD, e se la prima ha tutto il sapore di chitarre oscure e minacciose del suo produttore, la seconda, con il suo suono più lo-fi è più “live” e diretto, assume un tono decisamente meno teso. In ogni caso è sicuramente uno dei brani del disco che mantiene un taglio e un “mood” più in continuità con quello di Grace, con una interpretazione vocale molto “di pancia” e poco virtuosistica che lo rende uno dei brani che preferisco della raccolta.

 

Nicola Gervasini


pubblicata su Kalporz  https://www.kalporz.com/2025/08/my-sweetheart-the-drunk-lalbum-postumo-di-jeff-buckley/

lunedì 15 settembre 2025

Andrea Van Cleef

 

Andrea Van Cleef

Greetings From Slaughter Creek

(2025, Rivertale Production)

File Under: Live in USA

 

Poco più di un anno fa vi segnalavamo con convinzione l’album Horse Latitudes di Andrea Van Cleef come il punto di arrivo di una maturazione dell’artista bresciano, che ormai da anni ospitiamo sulle nostre pagine con le sue uscite. Credo che ad un anno di distanza Andrea possa essere soddisfatto delle tante reazioni positive suscitate da un disco che unisce tradizione americana e quella tendenza al suono dark che spesso caratterizza la visione italiana della musica d’oltreoceano, tanto che ora Van Cleef si permette di pubblicare un disco dal vivo, oggetto divenuto più raro nel moderno mondo discografico rispetto ad un tempo (ci sarebbe da fare un lungo ragionamento al proposito, ma sarà per un’altra occasione).

Ma l’opportunità di immortalare una speciale serata di un breve tour americano, scaturito proprio dal riconoscimento anche internazionale ricevuto dal disco, pare troppo ghiotta. Soprattutto perché Andrea ha avuto modo di ritrovare alcuni collaboratori dei suoi precedenti dischi, primo fra tutti il produttore Rick Del Castillo, che già aveva collaborato a Horse Latitudes, anche mettendo a disposizione i propri studi di registrazione in Texas, ma anche la cantautrice Patricia Vonne (sorella del regista Robert Rodriguez), che già aveva duettato con Van Cleef nel suo album Tropic From Nowhere.

L’esibizione è avvenuta negli stessi studi di Del Castillo, gli Smilin’ Castle Studio di Kyle, e ha coinvolto qualche session man reclutato in loco come Mike Zeoli (batterista dei Chingòn, in cui suona lo stesso Rodriquez), Stefano Intelisano (fisarmonicista già incontrato nei dischi di David Grissom e Fabrizio Poggi), e il chitarrista Matthew Smith, che affianca Simon Grazioli, suo abituale collaboratore. Il disco ha quindi il clima da esibizione da piccolo club, con un evidente dialogo intimo ed emotivo tra musicisti e pubblico in sala, e soprattutto finisce ad essere quasi una raccolta di versioni acustiche (quasi un “Unplugged” di altri tempi quindi) delle canzoni migliori dei suoi album.

The Day You Tried To Kill Me ad esempio viene dal lontano Sundog del 2012, mentre da Tropic of Nowhere del 2018 si ripescano Wrong Side of a Gun, già in origine cantata con Patricia Vonne, e Friday, e da Safari Station del 2021 arriva You Can’t Hide Your Love Away. Per il resto è la scaletta presa da Horse Latitudes a comporre il grosso dello show, che si chiude però con un brano che potremmo anche prendere a simbolo di stile e ispirazione di Van Cleef come il classico Big River di Johnny Cash. L’esibizione è ispirata e ben registrata, e sicuramente valeva la pena pubblicarla, visto che suonare in un bel posto, con il pubblico giusto, e soprattutto con un bel suono da poter registrare, pare essere diventato un lusso per troppi artisti indipendenti.

 

Nicola Gervasini

 

venerdì 5 settembre 2025

Federico Sirianni

 

Federico Sirianni

La Promessa della Felicità

(Squilibri, 2025)

File Under: “Mentre guardiamo la Luna”

E’ ormai un veterano della canzone d’autore di scuola genovese Federico Sirianni, fin da quando fu premiato al Premio Tenco nel 1993 come miglior esordiente, e con una carriera solista portata avanti parallelamente ad altri progetti (Molotov Orchestra). La title-track di questo La Promessa della Felicità, che mette in musica una poesia di Max Ponte, era già finita nella cinquina finale del Tenco dello scorso anno, e ora esce finalmente un album frutto di una stretta e già collaudata collaborazione con il violinista Michele Gazich. Album molto curato sia nella confezione (con i bei dipinti di Romina di Forti a commento), che nella produzione (ottimi i suoni di archi e chitarre acustiche), La Promessa della Felicità è un sofferto viaggio di dieci brani nei mali della modernità, letti attraverso pensieri, sentimenti, storie e riferimenti storici (Okinawa) sempre molto liricamente elaborati. Sirianni è autore molto attento alle parole infatti, spesso abbondanti di immagini e attenzione ai particolari, uno stile letterario che Gazich riesce bene a incanalare in arrangiamenti eleganti. Altro riferimento artistico evidente resta quello di Leonard Cohen, e non solo perché nella iniziale Nel Fuoco suona il suo batterista Rafa Gayol, ma per la sua capacità di farsi occhio critico e coinvolto sui mali del mondo (Dalla Finestra). Tanti i collaboratori coinvolti (da citare tra i tanti le onnipresenti Veronica Perego al contrabbasso e Valeria Quarta alla voce) in un disco fieramente e intensamente folk (L’Ora Bella), che cerca comunque di aprire le melodie anche ad altri orizzonti (gli echi orientali di Il Vento Di Domani). Imperdibile per chi segue la canzone d’autore nostrana.

Nicola Gervasini

sabato 30 agosto 2025

MATTHEW DUNN

 

Matthew Dunn

Love Raiders

Cosmic Range Records

 

Ogni era discografica ha le sue esigenze, e se negli anni novanta l‘entusiasmo per il formato CD ci ha portato moltissimi album che duravano anche più di un’ora, senza essere per questo considerati doppi, oggi in era Streaming le durate medie si sono drasticamente ridotte, tanto da non capire più troppo la differenza tra album ed EP. E poi ci sono quelli che non ci badano affatto, come Matthew Dunn, artista canadese che fino a pochi anni fa si firmava mettendo un “DOC” tra nome e cognome (e sarebbe curioso sapere come mai ha deciso di abbandonare il soprannome), e che vanta ormai più di vent’anni di fiera carriera discografica indipendente.

Di lui si era sentito parlare soprattutto nel 2023 con l’album Fantastic Light, che si era guadagnato ottime recensioni, e che riuniva una serie di collaboratori che a sorpresa scompaiono in questo torrenziale Love Raiders, eccezion fatta per il Dinosaur Jr. J Mascis, che qui porta in dote la sua abituale elettricità nella rauca Tally Ho!. Suonato e co-prodotto con l’amico Asher Gould-Murtagh, l’album è un classico doppio da 22 canzoni, in cui i due buttano nel calderone influenze di ogni tipo. Dotato di una voce portata a giocare su tonalità alte, con qualche sofferta inflessione un po’ alla Jesse Malin, Dunn suona quasi tutto, giocando anche non poco con le tastiere e sintetizzatori di vecchia data (It’s Over), e comunque non perdendo le proprie radici da vero songwriter di scuola canadese (le trame acustiche di Flower Maiden, uno dei brani più significativi della raccolta, non dispiacerebbero neanche a Bruce Cockburn).

Ma l’artista ha puntato soprattutto sulla varietà, giocando con il rock sia alternativo che radiofonico, ponendo subito in seconda posizione di scaletta la lunga e acida cavalcata chitarristica alla Neil Young  di Algonquin, passando per qualche trama blues (Hideway), echi di jingle-jangle byrdsiani (Sad Masquerade), e giocando anche molto con un certo pop di Costelliana memoria (Forbidden Life). Insomma c’è tanto, inutile dire “a volte troppo”, visto che avendo spazio a volontà da riempire, si permette qualche passaggio strumentale un po’ fine a sé stesso (Rain Rain Rain, che era anche il titolo del suo penultimo album), dando la sensazione di aver approfittato dell’attenzione suscitata dal suo disco precedente per svuotare un po’ i cassetti di tante idee rimaste irrealizzate e accantonate nel tempo. Resta comunque un tour de force affascinante e neanche troppo stancante, grazie alla pluralità di toni e generi, anche se resta quella patina da produzione casalinga che forse penalizza un po’ il risultato finale.

Nicola Gervasini

lunedì 11 agosto 2025

Matteo Nativo

 Matteo Nativo

Orione

RadiciMusic Records

File Under: Blues per un matrimonio

Matteo Nativo è un virtuoso chitarrista toscano attivo da più di 30 anni, ma che curiosamente solo a 52 anni arriva a pubblicare il suo album d’esordio. Orione è raccolta di sette brani inediti, spesso scritti con la collaborazione di Michele Mingrone, e due cover di Tom Waits che in qualche modo targano fin da subito la sua proposta, basata su un impianto blues, ma con un approccio decisamente più cantautoriale. E oltretutto il suo stile chitarristico, basato spesso sulla tecnica del fingerpicking (si dice allievo di Leo Kottke e si sente), pare essere lontano dall’abituale mondo musicale di Waits. Le due cover sono in verità due traduzioni in italiano, operazione sempre rischiosa ma direi più che riuscita, sia quando le parole sono le sue (una ottima Clap Hands), sia quando invece la traduzione arriva da un'altra valida cantautrice toscana come Silvia Conti (che poi offre i cori in tre brani del disco). I brani inediti variano molto sui temi, partendo con toni più che personali raccontando prima la dolorosa separazione dalla moglie (Che Ora è?), ma successivamente anche una dedica alla stessa in occasione di una diagnosi di una malattia (Ovunque tu sarai), in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo nella storia del loro amore. Altrove si parla di guerra (Oradur), rinascite personali (Ultima stella del Mattino) e si piangono amici scomparsi (Orione), con toni da blues sofferto, ma con l’eccezione della scanzonata e divertente Fantasma, e del fugace amore con una improvvisata fan dopo un concerto di Un’altra Come Te. Suonato in trio con Fabrizio Morganti e Lorenzo Forti alla sezione ritmica e qualche ospite a corredo, il disco è prodotto con l’esperto Gianfilippo Boni.

Nicola Gervasini

martedì 5 agosto 2025

Piero Ciampi

 

Piero Ciampi

Siamo in Cattive Acque

(Squilibri, 2025)

File Under: Ritrovamenti

Non basterebbero dieci pagine per raccontare e descrivere l’opera di Piero Ciampi, se già non la conoscete, ma è ovvio che prima ancora di introdurvi a questa bellissima operazione discografica di Squlibri, vi rimando all’ascolto perlomeno dei suoi 4 album pubblicati tra il 1963 e 1976. Pochi, per un autore che in vita ha avuto tanti estimatori ma pochi successi (e spesso grazie ad interpretazioni altrui, soprattutto di vocalist femminili come, tra le altre, Gigliola Cinquetti, Carmen Villani o Dalida), ma il ritrovamento di un suo appunto per un ipotetico disco intitolato Siamo in Cattive Acque, ha portato a riunire in un doppio CD 21 versioni alternative di brani già noti, e ben 11 inediti assoluti. CD saggiamente divisi tra versioni comunque fatte e finite, e demo e abbozzi teoricamente non pubblicabili (definiti “Le Incompiute”), ma di sicuro valore storico. Più che altro perché molti brani come Sul Porto di Livorno o Confiteor tracciano una storica genesi di quello che sarà il bellissimo album Ho Scoperto che Esisto Anch’Io pubblicato da Nada nel 1973, interamente scritto per lei (già nei demo cantati da lui, come Sono Seconda, Ciampi parla al femminile infatti). La confezione ha uno splendido libretto dove ogni brano viene descritto minuziosamente, una ricerca curata da Enrico De Angelis davvero encomiabile. Piero Ciampi, morto in solitudine nel 1980, resta un autore non facile, la cui memoria è tenuta viva più dagli addetti ai lavori che da un pubblico che certo oggi faticherebbe ad apprezzare molte di queste canzoni, e forse per questo Siamo in Cattive Acque è  ancora più importante da scoprire.

Nicola Gervasini

giovedì 31 luglio 2025

TY SEGALL

 

Ty Segall – Possession

2025 – Drag City

Prima o poi la tentazione di fare un disco “normale” viene a tutti, anche ai più sregolati e imprevedibili artisti. E perché no in fondo, Picasso d’altronde sapeva benissimo dipingere in stile figurativo, e nel cinema persino un autore riconoscibilissimo come David Lynch ha fatto Una storia Vera, film bellissimo, ma che usciva dal suo percorso stilistico, e che probabilmente avrebbe potuto girare anche un altro regista. E così il genio e sregolatezza di Ty Segall, pur non smentendo la sua proverbiale tendenza ad una mole produttiva difficile da seguire con attenzione (Possession arriva dopo che nel 2024 aveva già prodotto due album), per una volta prova a buttare anima e talento in dieci brani che per qualcuno potrebbero sembrare addirittura (“che orrore!”) “mainstream”, o semplicemente ancora legati ad una vecchia idea di “classic rock” che ignora (ma non del tutto) la sua abituale verve da eroe indie.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, queste opere siano una sorta di risposta a qualche detrattore che avanza il sospetto che tanta sregolata originalità non sia altro che un modo per mascherare l’incapacità di fare le cose come le fanno tutti, e credo che Segall abbia registrato questi pezzi un po’ con questo pensiero, quasi anche a voler fieramente dimostrare che quello di rimanere un personaggio da undeground carbonaro, per appassionati di weird-folk, non è un condanna, quanto una sua precisa scelta. Quello che magari non si aspettava è che Possession sta paradossalmente piacendo a tutti, e che il fatto di aver fatto un album che può benissimo funzionare anche come musica da viaggio in macchina (secondo “orrore!”) non solo non gli sta facendo perdere l’affezionata fan-base, ma sta conquistando qualche adepto fino ad oggi scettico nei suoi confronti.

Possession di fatto è un bel disco, con chitarre e fiati in gran spolvero, ma soprattutto un largo uso di cori, il che fin dall’iniziale Shoplifter fa ricordare davvero le migliori opere di Todd Rundgren, sospese tra perizia tecnica da one-man band di studio, piglio da rocker, e melodie vocali molto elaborate e spesso decisamente radiofoniche e pop. Ci sono variazioni sul tema (gli archi di Buildings, l’aura da prog quasi alla Steven Wilson di Hotel), ma fondamentalmente Possession è un disco che, fin dalla title-track scritta dal collaboratore Matt Yoka, (bello anche il video), si fa apprezzare per avere dalla sua parte un pugno di buonissime canzoni, da Skirts of Heaven con le sue chitarre in evidenza, alle conclusive Alive e Another California Song, fino al primo singolo Fantastic Tomb. Sono certo che Segall tornerà a offrire produzioni fuori dagli schemi, ma anche questa sua versione “public-friendly” non ci dispiace affatto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 luglio 2025

Ivan Francesco Ballerini

 

 

Ivan Francesco Ballerini

La guerra è finita

RadiciMusic Records

File Under:  War is not the answer

 

Impossibile rimanere impassibili davanti a questi tempi di guerra nel mondo, soprattutto se si è un sensibile cantautore, ma le canzoni di La guerra è finita, quarto album di Ivan Francesco Ballerini sono nate anche prima degli scenari più noti nei nostri giorni, quasi a dire che la speranza di pace è qualcosa che non ha bisogno di una guerra per sentire il bisogno di esprimersi. Autore toscano di impostazione classicamente folk, Ballerini ha iniziato a pubblicare album solo dal 2019 con l’esordio di Cavallo Pazzo, e si presenta ora con quello che potremmo quasi definire un concept album, sebbene il filo conduttore che lega i brani sia il tema e non i protagonisti. Che sono il soldato che al fronte scrive all’amata della title-track (con la bella voce di Lisa Buralli a supporto), oppure la studentessa che spera di poter finire gli studi nonostante i bombardamenti (Tra Bombe e Distruzione). Altrove Ballerini si ispira alla letteratura (Linea d’Ombra ovviamente si rifà a Joseph Conrad, mentre Vestire di Parole ad un racconto di Primo Levi), o semplicemente parla di amore di coppia (Tra le dita e Perché Mai) o universale (Sulle Pietre del Mondo) come unica arma contro i conflitti dell’umanità. Chiude (così come apriva in un breve strumentale) il brano Il Mondo Aspetta Te, brano in cui un artigiano si mette al lavoro per ricostruire il tutto a guerra finita, un chiaro messaggio di speranza finale per un album che comunque non assume mai toni troppo cupi o pessimistici, nonostante il tema trattato. Nell’album suonano molti musicisti, con particolare peso della chitarra e degli arrangiamenti di Giancarlo Capo. In mezzo a tante voci bellicose in ogni parte dl globo, serve ancora che il folk faccia la parte di un grido che sia sempre ostinatamente per la pace.

Nicola Gervasini

 

martedì 15 luglio 2025

Lavinia Blackwall

 


 Lavinia Blackwall

The Making

(The Barne Society, 2025)

File Under: What She Did On Her Holidays

Nel fenomeno di rinascita e riscoperta del folk britannico negli anni 2000, gli scozzesi Trembling Bells hanno giocato un ruolo importante. Cinque album pubblicati tra il 2008 e il 2018, in cui hanno rimescolato le carte del genere, più un EP e un disco in collaborazione con Bonnie Prince Billy (The Marble Downs del 2012), che testimoniava proprio la stretta parentela tra l’indie-folk di questi decenni e la musica tradizionale di marca Fairport Convention e dintorni. Nel 2018 però la vocalist della band, Lavinia Blackwall, ha annunciato di lasciare la band, di fatto sciogliendola (ad oggi infatti la sigla pare aver chiuso i battenti), e varando così una carriera solista con l’album Muggington Lane End del 2020. Ci sono voluti cinque anni per avere The Making, il secondo album, anni difficili e dolorosi di ritirata riflessione e introspezione, grazie ai quali ha prodotto quello che pare proprio uno di quei dischi che cambiano le sorti di una carriera. La Blackwall, infatti, aiutata del produttore Marco Rea, ha lavorato per lungo tempo su 10 brani che assorbono come una spugna moltissime influenze e diverse sonorità, pur non abbandonando il proprio stile, che ovviamene le porta paragoni con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle.

E se l’iniziale Keep Me Away From The Dark è ancorata ad uno stile classico, l’arioso mid-tempo di The Damage We Have Done riesce a far confluire in un colpo solo un incedere alla Byrds con una melodia da dischi di Kate e Anna McGarrigle. Ma l’album gioca di varietà con la piano-ballad Scarlett Fever (qui sì che aleggia lo spirito della Denny), coi fiati che giocano sulla melodia di My Hopes Are Mine (dove torna sulle ragioni della fine dei Trembling Bells, aiutata tra l’altro dalla voce di “Miss Moonlight Shadow” Maggie Reilly), o l’incedere brit-pop di Morning To Remember (lei stessa cita i Kinks come influenza, ma io direi quasi più i Blur più classici). La Blackwall non rinuncia mai al suo vocalizzo alto e impostato (The Making), mostrando però le proprie doti e possibilità vocali con parsimonia, e sempre con rispetto al tema della canzone (bravissima nell’emotivamente sofferte We All Get Lost e The Art of Leaving, tra i brani più memorabili della raccolta).

Il finale non perde colpi con The Will To Be Wild e una eterea e riflessiva Sisters In Line in cui tornano protagonisti i fiati di Ross McRae e Richard Merchant. Dopo un esordio in cui aveva forse voluto metterci troppo, Lavinia Blackwall centra il bersaglio con un album che non perde semplicità nonostante gli arrangiamenti ben studiati, e soprattutto con dieci brani che spiegano perché si possa ancora essere moderni partendo dalla tradizione.

Nicola Gervasini

Robert Forster

 

Robert Forster

Strawberries

(2025, Tapete Records)

File Under : Strawberries fields forever

Tra i sopravvissuti all’incredibile e forse irripetibile calderone di grandi artisti usciti dalla scena australiana di fine anni settanta, l’ex Go.Betweens Robert Forster è forse uno di quelli più in credito con la fortuna (ma questa ormai è una banalità anche ricordarlo trattandosi di personaggi così di nicchia), ma anche uno di quelli che ancora sta tenendo un ritmo discografico qualitativamente altissimo. Se non conoscete la sua carriera solista, iniziata nel 1990 ancora in parallelo all’attività della band, recuperate lo splendido The Evangelist del 2008, ma in ogni caso anche i titoli più recenti valgono la pena. Questo Strawberries in particolare esce a poca distanza da The Candle and the Flame, disco piuttosto sofferto segnato dalla contemporanea morte della madre e dalla diagnosi di una grave malattia alla moglie Karin Bäumler, cercando però con tutta evidenza di esserne il capitolo di ritorno alla vita.

Ne esce di fatto un disco completamente diverso, non voglio dire “allegro” perché comunque questi racconti letterari, apparentemente meno autobiografici, sono pregni di disagi di varia natura, ma sicuramente positivo nel reagire alle avversità della vita. Ne è testimonianza anche il video che accompagna la title-track, che vede lui e una rigenerata moglie duettare nella loro cucina in una splendida pop-song, con tanto di fiati e citazioni dei Lovin Spoonful, video che testimonia la semplicità del personaggio e del suo messaggio artistico, ma anche la complessità delle sue trame da pop-rock d’altri tempi.  Ma è tutto il disco che vola altissimo fin dalla strana storia d’amore di Tell’It Back To Me, e passando per un numero da pub-rock degno del miglior Nick Lowe come Good To Cry, a quel lungo e splendido tour de force di folk-pop all’australiana (siamo in zona Paul Kelly quasi) che è Breakfast on The Train, Forster sembra aver trovato con questo disco (solo 8 brani, ma bastano) la chiusura del cerchio di una lunga carriera.

Nella seconda parte si viaggia un po’ più sul sicuro con brani che tornano a citare non poco il passato, come l’intro pianistica alla John Cale di Such A Shame, o come nelle atmosfere da rock anni 70 di All Of The Time. Ma è nel finale di Diamonds che le carte vengono rimescolate, introducendo un sax quasi free-jazz in un brano che ha ben altro spirito rispetto al clima più scanzonato del brano precedente (Foolish I Know), nel quale quasi veste i panni dell’elegante jazz-crooner. Un gran bel finale per un disco vario e alquanto ispirato, e soprattutto capace di usare l’ironia (leggetevi il testo di Foolish I Know) per tagliare quella soffocante patina di dolore che aveva reso non facilissimo da digerire il suo album precedente. E solo i grandi artisti hanno la capacità di cambiare registro rimanendo comunque sé stessi,  e di non perdere mai le proprie radici musicali fatte di pane e Kinks, ma da saperle riscrivere senza mai apparire sterilmente citazionista.

 

Nicola Gervasini

lunedì 7 luglio 2025

BOB MOULD

 

Bob Mould

Here We Go Crazy

(2025, Granary Music)

File Under: These Important Songs

 

Bob Mould è un intoccabile. Vale a dire uno di quei nomi su cui si è sempre tutti d’accordo, che nessuno oserebbe mai contestare, al riparo pure dalle manie di insensato revisionismo critico verso i mostri sacri che ha imperato in questi anni di discussioni musicali nei social. Non si ebbe il coraggio di metterlo in discussione neppure quando nel 2002 con Modulate azzardò un abbraccio all’elettronica, non poi così memorabile col senno di poi, ma è indubbio che il suo nome è sempre in cima quando si deve portare un esempio di integrità artistica e qualità costantemente alta. Ma da 15 anni a questa parte serpeggia tra le righe dei fans la sensazione che si sia un po’ arenato su un modello di canzone (che resta poi lo stesso degli anni con gli Hüsker Dü), senza più porsi il problema di nuovi azzardi.

Ho fatto una prova empirica, e ho ascoltato per la prima volta questo nuovo Here We Go Crazy subito dopo aver riascoltato Silver Age del 2012, considerando che in mezzo ci sono altri 4 album che hanno mantenuto bene o male lo stesso registro di suoni, ed effettivamente è stato difficile capire dove finisse il primo e dove iniziasse il secondo, se non per un leggero calo di ritmo e ferocia sonora evidenziato dal nuovo capitolo.

Si potrebbe quindi davvero ipotizzare che Mould faccia ormai da tempo lo stesso disco, sensazione amplificata dal fatto che di fatto stiamo parlando di album registrati dalla stessa band e sempre con la stessa “ratio” produttiva, e cioè con la sua chitarra iper-amplificata in primissimo piano, e la sezione ritmica di  Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria), sempre loro ormai da anni, che lo segue con la medesima veemenza ma sempre un po’ in sottofondo nel mix finale.

E sebbene qui brani come la title-track o Breathing Room si assestino su un ritmo più riflessivo e autoriale e meno da garage-rock, e in Lost Or Stolen riaffiori persino una chitarra acustica (ma nulla a che vedere con il suono elettro-acustico che aveva reso il suo esordio solista Workbook uno di suoi album più amati nel tempo), la solfa non cambia. Ma, e il “Ma” fortunatamente c’è, il finale di questa premessa non è un superficiale “ragazzi, ammettiamolo, Mould ormai rimesta la stessa minestra da anni”, perché se lo consideriamo un numero Uno del mondo del rock alternativo (o underground, o metteteci voi la definizione che ancora ritenete valida nel 2025), è perché Mould non ha mai smesso di essere un Autore, e pure uno dei migliori.

Immaginate ad esempio se Leonard Cohen avesse fatto a tempo registrare una sua versione di Hard to Get, o pensate se Joe Cocker avesse notato il potenziale da mainstream-rock radiofonico di una When The Heart is Broken, e davvero non si farebbe fatica a farlo. E questo funziona perché i brani di Mould sono ancora ottimi innesti di ottimi testi (qui più nostalgici del solito), e melodie “quasi-pop” che potrebbero vivere benissimo anche se confezionati con una carta da pacchi diversa da quella che lui usa ormai da anni. Here We Go Crazy è solo il nuovo capitolo di un lungo libro che forse potrebbe anche cominciare a stancare qualcuno, perché poi sì, probabilmente lui non cambia le impostazioni dell’amplificatore della propria chitarra da anni, e credo che se ne guardi anche bene dal farlo, ma abbiamo 11 nuove canzoni di Bob Mould, e non è mica facile trovarne di altrettanto belle anche nel 2025.

 

Nicola Gervasini

lunedì 30 giugno 2025

AJ CROCE

 

A.J. Croce

Heart Of The Eternal

(BMG Rights Management, 2025)

File Under: Play It Again, A.J.

L’esercito dei figli d’arte nel rock ha da sempre due categorie ben precise, e cioè quelli che in qualche modo ricalcano le strade paterne/materne semplicemente aggiornandole ai tempi, o chi invece si distacca del tutto, prendendo altri modelli stilistici. A.J. Croce, figlio del songwriter Jim Croce, è da anni un vero e proprio adepto di un suono a metà tra il Tom Waits degli anni 70 e il New Orleans sound di Dr. John, certo lontano dal cantautorato West Coast del padre. I suoi primi album negli anni 90 furono piuttosto apprezzati (se non li conoscete, recuperate subito That’s Me in The Bar, il migliore del lotto), poi nei primi 2000 anche lui sentì l’esigenza di provare a “normalizzare” il suo suono e il suo sound, e un po’ si era perso, ma già da qualche titolo degli ultimi quindici anni pare aver ritrovato la voglia di esprimersi col linguaggio al lui più congeniale. Per questo vi presentiamo questo Heart Of The Eternal, suo undicesimo album, un po’ come un nuovo capitolo di un libro già scritto, una sorta di prosecuzione del precedente album di inediti Just Like Medicine del 2017.

A fare la differenza è che qui a produrre c’è un altro nobile “figlio di”, uno Shooter Jennings che da qualche tempo sembra dare il meglio più come collaboratore che come primo nome, e che ammanta le canzoni di Croce con un suono più deciso e cristallino, sicuramente più in linea con le esigenze di riproduzione streaming odierne. Ma soprattutto è il primo vero album scritto di suo pugno uscito in seguito alla tragica morte della moglie, lutto che artisticamente aveva elaborato usando parole d’altri nel cover-record By Request del 2021, e aver lasciato passare qualche anno è stato sicuramente utile, perché i testi tengono conto sì del gran dolore patito, ma cercano anche una via positiva di ritrovata filosofia di vita e di amore, e di rasserenata coabitazione con i suoi lutti.

Insomma, fin dall’aggressivo giro di I Got A Feeling c’è voglia di vita e vitalità, voglia di avvolgersi nella calda e rassicurante coperta di un brano ovvio e stra-sentito (ma che non ci verrà mai a noia) come la baldanzosa On A Roll. Le cose si fanno serie con la soul-ballad Reunion, tra cori femminili e organi Hammond che sibilano come nella migliore tradizione, con il tango alla Calexico di Complications Of Love, con il blues di Hey Margarita e con la suadente The Best You Can. Il suo stile dei primi album torna a fare capolino in So Much Fun, e il momento quasi da crooner di All You Want. Tra gli ospiti troviamo la voce di John Oates e quella fascinosa di Margo Price nel finale tutto archi e cori di The Finest Line.  Tutto classicissimo e tutto prevedibilissimo, ma tutto anche fatto benissimo, a riprova che il ruolo che potrebbe avere A.J. Croce nel panorama musicale moderno sia quello di continuare ad essere un fiero “New Traditionalist”, senza tentazioni di cercare una modernità che proprio non gli si confà.

 

Nicola Gervasini

giovedì 26 giugno 2025

Ashleigh Flynn & the Riveters

 

Ashleigh Flynn & the Riveters

Good Morning, Sunshine

(2025, Blackbird Record Label)

File Under: Country Fun

 

Sono passati ormai 17 anni da quando su queste pagine vi consigliavamo l’album American Dream di una giovane cantautrice di nome Ashleigh Flynn, inizialmente presentata dalle sue cartelle stampa come una nuova Norah Jones, ma poi nel tempo sempre più adepta di un cantautorato ostinatamente e fieramente country-rock. La ragazza non ha forse più tenuto lo stesso livello da allora, fin quando poi ha deciso nel 2018 di uscire dalla solitudine e unire le forze con le Riveters, una “All-Female Americana & Rock Band”, come si autodefiniscono sul loro sito. E sappiamo bene quanto una band al femminile faccia storicamente scena nel panorama rock (chiedetelo anche a Dave Alvin ad esempio), e così la nuova combo (in totale 7 donne sul palco), dopo aver pubblicato un album d’esordio nel 2018, ha poi passato anni ad infiammare i palchi americani con set energici e più che coreografici.

Il titolo del loro secondo sforzo discografico in studio, Good Morning, Sunshine, esprime benissimo lo spirito:” fun fun fun” avrebbero detto i Beach Boys, per cui al bando ballate tristi e polemiche politiche, e via ad una celebrazione della vita da strada e da bar (l’apertura Drunk in Ojai lì ci porta fin da subito), in cui si da spazio alle musiciste e alla loro verve. In qualche modo oggi Ashleigh Flynn & the Riveters potremmo definirle come dei Commander Cody and His Lost Planet Airman in quota rosa (se non li ricordate, andate subito a studiare i loro dischi degli anni 70), per citare nomi classici, o delle Dixie Chicks più spensierate, per stare su esempi più recenti,  dove non si cerca tanto la proposta musicalmente originale, quanto il cocktail esplosivo di energia e suoni della tradizione.

In questo scenario Ashleigh Flynn forse perde un  po’ della sua personalità, ma ugualmente si cala bene nel ruolo di band-leader, cantando su toni altissimi e ricordando sempre più la Maria McKee dei tempi d’oro. Sul piatto girano pezzi di sapore rockabilly (Deep River Hollow), baldanzosi brani da line-dance come Eye of the Light, occhiate convinte al southern-rock come la title-track, e anche qualche momento più calmo come Love is An Ember, fino alla corale battuta di mani di Don’t Leave Me Lonesome. In questo mix di bluegrass, country e varie influenze di roots-music, la Flynn riesce a piazzare anche qualche testo impegnato sull’ecologia, e forse si potrebbe anche intuire un sottotesto sociale in brani danzerecci come Shake The Stranger, ma non è sulle parole che punta un disco nato per divertire e intrattenere durante un viaggio, durante una bevuta al bar, o semplicemente da suonare in casa in un giorno di festa. A Portland funziona benissimo, in Italia non so se fa lo stesso effetto, ma vale la pena provarci.

Nicola Gervasini

lunedì 23 giugno 2025

DEAN OWENS

 

Dean Owens

Spirit Ridge

(Continental Song City, 2025)

File Under: From Texas to Romagna

 

Nel 2008 proprio su queste pagine parlai del primo disco lanciato a livello internazionale di Dean Owens (Whiskey Heart), descrivendo uno scozzese fieramente innamorato dell’America, presentato sulle note di copertina dal connazionale Irvine Welsh come una sorta di esploratore di un immaginario che noi qui ovviamente ben conosciamo. Uno dei suoi primi dischi autoprodotti si intitolava Gas, Food & Lodging, e credo che questo basti per accendere qualche lampadina nei nostri riferimenti culturali.

Nonostante l’impegno del produttore e chitarrista Will Kimbrough, il disco non impressionò troppo (ai tempi davamo i voti  numerici, e si meritò un 6 di incoraggiamento), però il buon Owens ha continuato a studiare disco dopo disco, tonando nei nostri radar quando, decisosi per un trasferimento artistico in terra statunitense, ha cominciato a collaborare con gente come i Calexico per il già notevole Sinner's Shrine del 2022 e successiva saga di EP dedicati al confine messicano condensati nell’album El Tiradito (The Curse of Sinner's Shrine), a cui va aggiunto anche un side-project a tre mani sempre con Will Kimbrough e Neilson Hubbard (Pictures).

Insomma, Spirit Ridge è il classico disco in cui lo si aspetta un po’ al varco, perché ormai di esperienza ne ha tanta, e i buoni maestri non gli sono mancati, e infatti qui possiamo davvero a confermare che alla fine il “ragazzo” ce l’ha fatta a diventare un credibile cantore di frontiere yankee. E lo fa paradossalmente accasandosi nelle nostrane terre emiliane, sfruttando l’ormai consolidata esperienza di Don Antonio (alias Antonio Gramentieri) nel descrivere un certo immaginario musicale, contattato su consiglio proprio di John Convertino, che ha poi partecipato a queste sessions.

Potremmo quasi dire che Gramentieri ormai un disco del genere lo suona e produce ad occhi chiusi, e il suo tocco (e quello di alcuni suoi collaboratori, come ad esempio il chitarrista Luca Giovacchini) si sente al primo colpo nei riverberi dell’iniziale Eden Is Here o nel breve intermezzo mariachi di Spirito. A questo punto, se il risultato è garantito dal team, resta però da capire quanto Owens ci abbia messo di suo, e rispetto ad esempio al disco di 17 anni fa, in un brano tesissimo (e francamente bellissimo) come My Beloved Hills, è proprio la sua prova vocale che mostra una nuova maturità, che ribadisce come anche senza grandi e potenti mezzi vocali si possa comunque incidere su un brano.

Owens scrive tutti i brani con toni lenti e profondi, anche se c’è spazio anche per qualche episodio più veemente (l’epico dialogo tra chitarre e sezione d’archi di Light This World), e dopo un momento un po’ sperimentale (The Buzzard and the Crow), arriva l'uno-due da K.O. di Burn It All e Face The Storm, anima centrale del disco.

Dodici brani per 49 minuti, ma era difficile voler tagliare qualcosa, volendo lasciare spazio ai fiati di Michele Vignali e Francesco Bucci (arrangiati da Vanni Crociani) nella cavalcata di Wall Of Death, o per chiudere con i tre brani liricamente più intensi (A Divine Tragedy, Spirit Of Us e Tame The Lion). Un bel salto di qualità che porta quel 6 di un tempo ad un 8 pieno.

Nicola Gervasini

lunedì 16 giugno 2025

LUMINEERS

 

The Lumineers - Automatic

Dualtone, 2025

 

Per molti i Lumineers resteranno solo degli one-hit-wonder, cioè quei gruppi che verranno ricordati dal grand pubblico per un'unica canzone, ed è un destino decisamente curioso per una band del genere. Più che altro perché negli anni 2000 di band a due elementi (Wesley Schultz e Jeremiah Fraites ) dediti ad un americana-folk riletto con piglio indie, ne sono piene le cronache e le pagine delle riviste dedicate, ma un successo planetario come Ho Hey del 2012 pochi possono vantarlo. Il brano era una simpatica folk-song forte di un coretto impossibile da non memorizzare al primo colpo, e qui poi partono sempre quelle diatribe critiche sugli effettivi meriti di un tale successo e la relativa polemica “perché loro si, e altri no”.

La storia del rock è piena di paradossali ingiustizie, e nel novero conto anche quel riflusso di apprezzamenti che spesso chi azzecca il brano popolare deve subire nel proseguo della carriera. Insomma, i Lumineers ora li conoscono tutti, ma pochi poi sono stati disposti a prenderli sul serio anche nei loro dischi successivi. Non che il duo abbia sfornato poi indiscutibili capolavori, ma la sensazione è che la loro opera sia stata accolta con aria di sufficienza.

Per questo spero che almeno questo Automatic, quinto capitolo della loro saga, venga perlomeno preso per quello che è, un buonissimo disco di folk che sa essere a volte leggero, a volte impegnato, ma sicuramente non vacuo. Schultz e Fraites proseguono il loro discorso noncuranti degli antichi clamori, scrivono da soli 11 canzoni che suonano fresche e riuscite fin dal primo ascolto, e racchiudono tutto in 32 minuti che impediscono sbadigli e vanno dritti al punto. “Musica senza fronzoli“ si scriveva spesso un tempo quando le super produzioni spesso rappresentavano un problema, mentre qui i due fanno tutto da soli, con qualche intervento esterno sporadico (la viola di Megan Gould ad esempio), e sotto la guida del team produttivo formato da David Baron e l’ex Felice Brothers Simone Felice.

Il titolo del primo brano d’altronde la dice lunga, Same Old Song, e i due infatti sanno benissimo di non avere eventi sensazionali da offrire, ma rifugi sicuri di belle canzoni come la title-track o Plasticine, con toni soffici persino quando si cerca il testo tagliente (Asshole), e generalmente un mood che me li fa quasi avvicinare alla West Coast più suadente di Loggins & Messina o Seals and Crofts, nomi che certamente i due avranno imparato ad apprezzare. Automatic è un disco diretto, che solo nella finale So Long (unico brano sopra i 4 minuti) si prende anche il tempo per riflettere. Il folk dei Lumineers è lo stesso dei loro esordi, la notizia è che ora hanno smesso di cercare una nuova hit e semplicemente fanno quello che sanno ben fare.

VOTO 7

Nicola Gervasini

giovedì 12 giugno 2025

LUTHER RUSSELL

 

Luther Russell

Happiness For Beginners

2025, Curation Records

File Under: In the Jingle Jangle Morning

Per la serie “chi se li ricorda?”, Luther Russell fu cantante dei Freewheelers, band che negli anni ’90 partecipò al momento d’oro di tutta una scena di band americane che riscoprivano i suoni della tradizione, spesso appartenenti alla scuderia dell’American Recordings. Il loro secondo album si chiamava Waitin' for George, in riferimento al guru della label George Drakoulias, che produsse quel mix di suono sospeso tra i Traffic e Joe Cocker, un disco che credo che molti nostri lettori avranno comprato ai tempi. L’album però fu uno dei pochi flop commerciali della label, spingendo la band a sciogliersi. Da allora Russell ha portato avanti una carriera solista un po’ oscura, concedendosi anche qualche ruolo da produttore (ad esempio in Lost Son, ma anche in Winnemucca, dei Richmond Fontaine di Willy Vlautin), prima di approdare al settimo album con questo Happiness For Beginners. Il disco è figlio indiretto di un'altra sua importante avventura, i 3 album pubblicati dal 2016 ad oggi dei Those Pretty Wrongs, duo che aveva formato nientemeno con Jody Stephens, storico batterista dei Big Star, esperienza che già aveva portato il suo suono ad abbracciare altri lidi classici in ara country-rock/Byrds.

Il nuovo album di fatto nasce con una costante decisa, e cioè “Rickenbacker 12 corde ovunque”, in un gioco a cercare la perfetta jingle-jangle song certo non nuovo (chiedete a Sid Griffin dei Long Ryders come si fa a costruire gran parte di una carriera sul concetto), ma sempre ben accolto nei nostri lidi. Se avete però in mente i due dischi dei Freewheelers farete bene a dimenticarli, e non tanto per il diverso suono di rifermento, ma quanto perché Russell ha smesso completamente di cercare i toni rochi e “cockeriani” di un tempo, e ora canta con una voce più pulita, che addirittura rende brani come la tilte-track più vicino ai Buffalo Tom di Bill Janovitz, rendendosi quasi irriconoscibile rispetto al passato. Per il resto Happiness For Beginners è un piacevolissimo bigino del McGuinn-pensiero, che azzecca non pochi brani potentissimi da suonare in macchina come Downtown Girls e All The Ways.

Il gioco, a cui partecipano tra gli altri la fedele collaboratrice Sarabeth Tucek e Jason Falkner (vecchia conoscenza della scena anni americana di un tempo anche lui, con Jellyfish e Three O’Clock), è tutto qui, i dieci brani seguono la linea tracciata con qualche accelerazione (Sing A Song entra quasi in area Dinosaur Jr.) e qualche rallentamento (la lenta And Ever), con brani che si segnalano anche per buona scrittura (Your Reckless Heart) e altri magari più prevedibili (Right Way). Una bella sorpresa che non scrive nulla di nuovo ma rinnova l’idea che probabilmente senza i Byrds oggi noi saremmo qui a discorrere di ben altra musica.

 

Nicola Gervasini

lunedì 9 giugno 2025

Mark Pritchard e Thom Yorke

 

Mark Pritchard e Thom Yorke - Tall Tales

2025 – Warp Records

 

Pareva quasi solo un esperimento estemporaneo KId A dei Radiohead, uscito ormai 25 anni fa, eppure da allora il leader della band Thom Yorke non è più tornato indietro nel considerare l’elettronica, e non il sound guitar-oriented dei loro anni ’90, il fulcro sonoro delle sue creazioni. Trasformazione ancora più evidente nella sua ormai corposa carriera fuori dal gruppo, sia col side-project degli Smile, sia nei suoi album solisti, spesso legati a soundtracks per pellicole (quella per Suspiria del nostro Guadagnino resta la più famosa), oppure frutto di collaborazioni a due mani o di gruppo (penso al disco degli Atoms for Peace ad esempio). All’ultima categoria appartiene anche questo Tall Tales, lungo viaggio sonoro concepito col guru dell’ elettronica Mark Pritchard, artista che prima del 2013 ha pubblicato e prodotto molto materiale sotto svariati nickname (Global Communication è forse il più noto tra i tanti), prima di decidere di presentarsi sempre o comunque col suo vero nome.

 

Il disco è seguito anche da un film d’animazione creato da Jonathan Zawad, a testimonianza di una continua visione multimediale dell’artista, ma il progetto stavolta non nasce come soundtrack, ma come il risultato di un lungo scambio di idee e demo he i due hanno tenuto vivo nel corso degli ultimi quattro anni. Ci sono momenti strumentali (soprattutto in apertura e chiusura del disco), ma nel complesso Yorke torna qui a pensare la sua produzione in termini di canzoni, lavorando anche molto sulla sua vocalità e le sue possibili estensioni e interazioni con gli effetti elettronici. Ne nasce un album molto unitario nel suo mood ipnotico e decisamente oscuro (ma non direi depresso per una volta), in cui compaiono anche episodi quasi synth-pop come Gangsters o This Conversation is Missing Your Voice, o brani comunque in linea con il mondo Radiohead (The Spirit), fino a episodi più ipnotici come l’ecologista The White Cliffs.

 

Una buona scelta quella del duo di giocare non solo carte d’atmosfera come la title-track, ma anche episodi che potrebbero persino essere più radiofonici, come il ritmo quasi balcanico di Happy Days, o indiretti omaggi al rock classico, come l’incedere alla Velvet Underground di The Men Who Dance In Stags’ Heads. Disco costruito a distanza (i due non si sono quasi mai incontrati per registrarlo), Tell Tales pare un lavoro compiuto, che non ha più l’aria del progetto sperimentale, ma di una proposta ben definita, e che fa fare un ulteriore passo avanti alla ricerca musicale di Yorke. Mark Pritchard, che con Yorke aveva comunque già collaborato, dal canto suo conferma di essere un punto di riferimento del genere, con l’intelligenza di mettere la sua strumentazione e la sua perizia tecnologica al servizio delle canzoni, in cui compaiono non pochi contributi di altri suoni, come ad esempio il trombone che appare nel singolo Back in the Game.

VOTO: 7

NICOLA GERVASINI

venerdì 30 maggio 2025

BEIRUT

 

Beirut – A study of Losses

2024 Pompeii Recording Co & Beirut

Nel gran marasma di uscite discografiche moderne si finisce spesso ad essere incuriositi dal nome nuovo, e magari si danno inavvertitamente per scontati artisti ormai consolidati. E così Hadsel, il disco del 2023 di Zach Condon, alias Beirut, è stato secondo me ingiustamente ignorato da tante classifiche di fine anno, più per abbondanza di proposte, che per reali demeriti di un album nato nella vita solitaria della Norvegia.

Magari troverà più eco questo suo nuovo sforzo altrettanto interessante, A Study Of Losses, che più che nuovo album potremmo considerare un side-project sperimentale nato su commissione. L’occasione gli è stata data da un trio di acrobati e ballerini svedesi, I Kompani Giraff, che gli hanno chiesto di musicare una loro performance dallo stesso titolo, basando i testi sul bestseller dell’autrice tedesca Judith Schalansky Verzeichnis Einiger Verluste (tradotto in inglese come An Inventory of Losses, da cui l’edizione italiana Inventario di Alcune Cose Perdute edito da Nottetempo nel 2020). Il libro è una raccolta di dodici racconti, ognuno dedicato a qualcosa che si è ormai irrimediabilmente perso, sia esso un animale ormai estinto, o un’ isola sommersa dall’oceano (Tuanaki Atoll), fino ai versi perduti delle poesie di Saffo (Sappho’s Poems).

Registrato tra la Germania e la Norvegia, A Study Of Losses tiene fede al proprio titolo offrendo 18 bozzetti di sperimentazione di suoni tra elettronica, chitarre acustiche e archi, che probabilmente andrebbe gustata in parallelo alle performance circensi del trio di acrobati, ma che vive benissimo anche come opera a sé stante. Già Forest Encyclopedia mostra subito tutte le note e ben apprezzate doti vocali e melodiche del padrone di casa, anche se il disco alterna strumentali e brani cantati, e tra i secondi si mettono in evidenza Villa Sacchetti con la sua melodia quasi medioevale, dedicata alla villa romana progettata da Pietro da Cortona per i marchesi Sacchetti, ormai distrutta e ridotta ad un ammasso di ruderi lasciati all’incuria, ma immortalata dallo splendido dipinto di Gaspar van Wittel.

Con la quasi samba elettronica di Garbo's Face si passa a piangere la star scomparsa, che si era ritirata dalle scene per non mostrarsi invecchiata (“I know your hair goes grey, I see the color fade ,I see the time around your eyes” canta Beirut). Il clima generale è ovviamente malinconico e nebbioso, anche se Guericke's Unicorn si avventura in un synth-pop abbastanza scanzonato per ricordare l’Unicorno di Magdeburgo, animale di cui abbiamo solo un improbabile fossile, e la cui effettiva esistenza non è mai stata verificata o certificata, storia sicuramente più fantasiosa di quella cantata in The Caspian Tiger su una tigre effettivamente esistita. A parte gli archi e qualche intervento di basso e batteria, Beirut suona tutto in solitaria, aiutandosi con vari tipi di chitarre e tastiere, e con sovraregistrazioni vocali per ottenere anche effetti corali suggestivi come quelli di Ghost Train, o brani più ritmati come Mani’s 10 Books, dedicato al solo favoleggiato decimo libro del profeta fondatore del manicheismo, mentre Moon Voyager addirittura termina con una sezione fiati mariachi, pezzo che anticipa la chiusura con due brani dedicati ai mari lunari Mare Nectaris e Mare Tranquillitatis. Sforzo artistico notevole quello di Beirut, per un risultato magari non per tutti i palati, ma in ogni caso encomiabile.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

lunedì 7 aprile 2025

Elli de Mon

 

Elli de Mon

Raise

(2025, Rivertale Production)

File Under: Saints & Sinners

L’idea di canzoni che utilizzino un dialetto (se non proprio una vera lingua) regionale, anche su sonorità non per forza di musica tradizionali, è ormai vecchia, e l’elenco di nobili esempi, da Creuza de Ma in giù, è vasto. Anche il mondo del blues non si è fatto attendere nello sperimentarne l’effetto (singolare, ad esempio che l’unico disco interamente in napoletano registrato da Edoardo Bennato, con l’alias di Joe Sarnataro, fosse proprio in chiave chicago-blues), ma nel caso di Elli De Mon i distinguo sono parecchi.

Lei la conosciamo già da molti anni su queste pagine, sia come solitaria one-woman-band dedita ad un blues spigoloso e luciferino, sia, con il suo vero nome (Elisa de Munari), come autrice di libri, e rinnovo l’invito a leggere il suo interessantissimo Countin The Blues sulle blues-singer storiche. Doppia vita artistica che qui si riunisce in un album intitolato Raise (“radici” in vicentino), a cui fa eco anche un libro dallo stesso titolo realizzato con le illustrazioni di Luca Peverelli. Ma per l’album, stavolta, non solo ci troviamo davanti ad una proposta che esce ancor più del solito dai confini del blues usato nella sua abituale versione anglofona, ma qui Elli De Mon si inventa un suono che sa di Delta come anche di Laguna, anche se più precisamente il dialetto utilizzato è quello vicentino e non veneziano.

Anzi, l’album è una sorta di concept che scava nelle sue radici del paese di origine, Santorso, tra santi veri e miti pagani che costellano la storia di Orso (da non confondere con il più noto Sant’Orso della Val d’Aosta), un nobile del medioevo che, dopo aver ucciso la famiglia, fu condannato ad intraprendere un lungo cammino in cerca di una identità. Un simbolico percorso umano che è di ispirazione per una serie di canzoni che vanno davvero oltre il concetto di blues, invadendo il campo del mondo del dark-folk come anche di un roccioso stoner-rock alla Kyuss in alcuni casi, e creando così un genere tutto suo, a cui il dialetto si adatta persino meglio dell’italiano.

Le origini famigliari di Raise, la presentazione del personaggio principale di Orso e di Sinner (dove riaffiora un refrain in inglese), il viaggio che lo ha portato alla santità di Sumàn (il monte Summano sovrasta il paese di Santorso) sono tutti i primi tasselli della leggenda, che poi si fa quadro di vita di provincia in El Me Moro, dove su un ipnotico ritmo sospeso a metà tra The End dei Doors e All Tomorrows Parties dei Velvet Underground da  rientriamo nell’ambito del focolare domestico con una moglie che deve sopportare le angherie del marito che tona a casa ubriaco. La presa di coscienza di poter risorgere a nuova vita arriva in Babastrii (Pippistrelli), simboleggiata dall’acqua purificatrice di Giose (Gocce), e si finisce così con la rinascita (Sarò Tera) e la ninna nanna finale di Nana Bobò.

Elli suona tutto, aiutata da Marco Degli Esposti e Francesco Sicchieri alle chitarre e percussioni, e lasciandosi influenzare da suoni che uniscono rock anni 90, blues, temi orientali tradizionali veneti, e componendo un puzzle davvero originale, nonché un album che meriterebbe davvero di portarla davanti a platee anche più ampie.

 

Nicola Gervasini

 

martedì 1 aprile 2025

Bob Mosley

 

Bob Mosley

Bob Mosley

(Waner Bros/Reprise 1972/2024)

File Under: Soul Frisco

 

E’ il 1972, il country-rock sta esplodendo come genere buono per le radio FM anche al di fuori dei soliti circoli radiofonici di Nashville, e da qualche tempo è partita la corsa a seguire le orme tracciate a suo tempo dai successi commerciali di Sweetheart of the Rodeo dei Byrds o lo stesso Nashville Skyline di Bob Dylan, e non ultimi i Poco e i Flying Burrito Brothers. In questa eccitazione discografica, e in attesa che gli Eagles dimostrassero che il genere poteva persino avere vendite mostruose a livello mondiale, i californiani Moby Grape fallirono l’appuntamento col successo persino quando nel 1971 il loro ultimo album - un 20 Granite Creek sicuramente influenzato dal country-sound imperante - si rivelò un piccolo flop.

Ma il seme era tracciato, il rock psichedelico figlio di mille influenze dei loro dischi storici degli anni 60 si era adattato ai tempi, ma non con la dovuta furbizia commerciale evidentemente, e soprattutto poi nessuno dei componenti della band di San Francisco aveva più voglia di investire nel gruppo. Il cantante e bassista Bob Mosley esordì infatti subito con un disco omonimo che però seguiva la via di un soul-country (ci sono i Memphis Horns, ma c’è anche la pedal steel di Ed Black per capirci) decisamente avanti coi tempi, forse troppo, visto che a parte forse Thanks, mancavano le suadenti ballate country-rock che piacevano tanto agli ascoltatori in quel periodo. Il disco andò male e finì col tempo nella lista dei cult-record più ricercati dagli appassionati. E soprattutto, per Mosley, non ci fu una seconda chance per lungo tempo, complice anche pesanti problemi di schizofrenia che lo portarono sul lastrico.

Ma qui oggi arriva l’uomo della provvidenza che non ti aspetti, quel John DeNicola che immaginiamo economicamente bello tranquillo per aver scritto e prodotto la soundtrack di Dirty Dancing (una delle più vendute della storia) e scoperto i Maroon 5 tra le altre cose, insospettabile fan del disco che ha infatti deciso di rimixare e riprodurre. Da buon marpione del mainstream DeNicola nota che il disco aveva un potenziale enorme ma che l’ingegnere del suono aveva tenuto troppo bassa e poco evidente la sezione ritmica, rendendo così anche brani energici come The Joker o la riproposizione di Gypsy Wedding dei Moby Grape non adatte ad un airplay radiofonico.

Normalmente c’è sempre da storcere il naso per questo tipo di operazioni, personalmente penso che la storia, per quanto triste e sbagliata sia, non vada mai ritoccata, ma è indubbio che a confronto con l’unica versione CD mai pubblicata nel 2005 dalla Wounded Bird Records e con i vinili originali (mai ristampati dal 1972 a oggi), le differenze di pulizia e brillantezza di suono sono evidenti. Il disco così non è solo bello, ma suona anche benissimo anche senza essere degli accesi audiofili, la batteria è in primo piano come promesso, anche se forse ora le chitarre vanno un poco troppo sopra la sezione fiati in alcuni casi come Let The Music Play, ma l’intenzione di DeNicola era proprio esaltare il piglio rock. Per questo mi sento di perdonare il tipo di scelte prese nel remastering e consigliare questa nuova versione anche come primo ascolto. Tra l’altro DeNicola ha deciso di includere nei proventi della ristampa (immagino non faraonici, ma è il gesto che conta) anche lo stesso Mosley, oggi 81enne, anche se in verità aveva perso i diritti sull’opera da tempo. A voi l’occasione di scoprire grandi gemme perdute come il maestoso finale di So Many Troubles o Squaw Valley Nils

 

Nicola Gervasini

Emma Swift

  Emma Swift The Resurrection Game (2025, Tiny Ghost Records) File Under: Sophisticated Lady Il rock non è più materiale da bruciar...