lunedì 11 agosto 2025

Matteo Nativo

 Matteo Nativo

Orione

RadiciMusic Records

File Under: Blues per un matrimonio

Matteo Nativo è un virtuoso chitarrista toscano attivo da più di 30 anni, ma che curiosamente solo a 52 anni arriva a pubblicare il suo album d’esordio. Orione è raccolta di sette brani inediti, spesso scritti con la collaborazione di Michele Mingrone, e due cover di Tom Waits che in qualche modo targano fin da subito la sua proposta, basata su un impianto blues, ma con un approccio decisamente più cantautoriale. E oltretutto il suo stile chitarristico, basato spesso sulla tecnica del fingerpicking (si dice allievo di Leo Kottke e si sente), pare essere lontano dall’abituale mondo musicale di Waits. Le due cover sono in verità due traduzioni in italiano, operazione sempre rischiosa ma direi più che riuscita, sia quando le parole sono le sue (una ottima Clap Hands), sia quando invece la traduzione arriva da un'altra valida cantautrice toscana come Silvia Conti (che poi offre i cori in tre brani del disco). I brani inediti variano molto sui temi, partendo con toni più che personali raccontando prima la dolorosa separazione dalla moglie (Che Ora è?), ma successivamente anche una dedica alla stessa in occasione di una diagnosi di una malattia (Ovunque tu sarai), in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo nella storia del loro amore. Altrove si parla di guerra (Oradur), rinascite personali (Ultima stella del Mattino) e si piangono amici scomparsi (Orione), con toni da blues sofferto, ma con l’eccezione della scanzonata e divertente Fantasma, e del fugace amore con una improvvisata fan dopo un concerto di Un’altra Come Te. Suonato in trio con Fabrizio Morganti e Lorenzo Forti alla sezione ritmica e qualche ospite a corredo, il disco è prodotto con l’esperto Gianfilippo Boni.

Nicola Gervasini

martedì 5 agosto 2025

Piero Ciampi

 

Piero Ciampi

Siamo in Cattive Acque

(Squilibri, 2025)

File Under: Ritrovamenti

Non basterebbero dieci pagine per raccontare e descrivere l’opera di Piero Ciampi, se già non la conoscete, ma è ovvio che prima ancora di introdurvi a questa bellissima operazione discografica di Squlibri, vi rimando all’ascolto perlomeno dei suoi 4 album pubblicati tra il 1963 e 1976. Pochi, per un autore che in vita ha avuto tanti estimatori ma pochi successi (e spesso grazie ad interpretazioni altrui, soprattutto di vocalist femminili come, tra le altre, Gigliola Cinquetti, Carmen Villani o Dalida), ma il ritrovamento di un suo appunto per un ipotetico disco intitolato Siamo in Cattive Acque, ha portato a riunire in un doppio CD 21 versioni alternative di brani già noti, e ben 11 inediti assoluti. CD saggiamente divisi tra versioni comunque fatte e finite, e demo e abbozzi teoricamente non pubblicabili (definiti “Le Incompiute”), ma di sicuro valore storico. Più che altro perché molti brani come Sul Porto di Livorno o Confiteor tracciano una storica genesi di quello che sarà il bellissimo album Ho Scoperto che Esisto Anch’Io pubblicato da Nada nel 1973, interamente scritto per lei (già nei demo cantati da lui, come Sono Seconda, Ciampi parla al femminile infatti). La confezione ha uno splendido libretto dove ogni brano viene descritto minuziosamente, una ricerca curata da Enrico De Angelis davvero encomiabile. Piero Ciampi, morto in solitudine nel 1980, resta un autore non facile, la cui memoria è tenuta viva più dagli addetti ai lavori che da un pubblico che certo oggi faticherebbe ad apprezzare molte di queste canzoni, e forse per questo Siamo in Cattive Acque è  ancora più importante da scoprire.

Nicola Gervasini

giovedì 31 luglio 2025

TY SEGALL

 

Ty Segall – Possession

2025 – Drag City

Prima o poi la tentazione di fare un disco “normale” viene a tutti, anche ai più sregolati e imprevedibili artisti. E perché no in fondo, Picasso d’altronde sapeva benissimo dipingere in stile figurativo, e nel cinema persino un autore riconoscibilissimo come David Lynch ha fatto Una storia Vera, film bellissimo, ma che usciva dal suo percorso stilistico, e che probabilmente avrebbe potuto girare anche un altro regista. E così il genio e sregolatezza di Ty Segall, pur non smentendo la sua proverbiale tendenza ad una mole produttiva difficile da seguire con attenzione (Possession arriva dopo che nel 2024 aveva già prodotto due album), per una volta prova a buttare anima e talento in dieci brani che per qualcuno potrebbero sembrare addirittura (“che orrore!”) “mainstream”, o semplicemente ancora legati ad una vecchia idea di “classic rock” che ignora (ma non del tutto) la sua abituale verve da eroe indie.

Ho sempre pensato che, in qualche modo, queste opere siano una sorta di risposta a qualche detrattore che avanza il sospetto che tanta sregolata originalità non sia altro che un modo per mascherare l’incapacità di fare le cose come le fanno tutti, e credo che Segall abbia registrato questi pezzi un po’ con questo pensiero, quasi anche a voler fieramente dimostrare che quello di rimanere un personaggio da undeground carbonaro, per appassionati di weird-folk, non è un condanna, quanto una sua precisa scelta. Quello che magari non si aspettava è che Possession sta paradossalmente piacendo a tutti, e che il fatto di aver fatto un album che può benissimo funzionare anche come musica da viaggio in macchina (secondo “orrore!”) non solo non gli sta facendo perdere l’affezionata fan-base, ma sta conquistando qualche adepto fino ad oggi scettico nei suoi confronti.

Possession di fatto è un bel disco, con chitarre e fiati in gran spolvero, ma soprattutto un largo uso di cori, il che fin dall’iniziale Shoplifter fa ricordare davvero le migliori opere di Todd Rundgren, sospese tra perizia tecnica da one-man band di studio, piglio da rocker, e melodie vocali molto elaborate e spesso decisamente radiofoniche e pop. Ci sono variazioni sul tema (gli archi di Buildings, l’aura da prog quasi alla Steven Wilson di Hotel), ma fondamentalmente Possession è un disco che, fin dalla title-track scritta dal collaboratore Matt Yoka, (bello anche il video), si fa apprezzare per avere dalla sua parte un pugno di buonissime canzoni, da Skirts of Heaven con le sue chitarre in evidenza, alle conclusive Alive e Another California Song, fino al primo singolo Fantastic Tomb. Sono certo che Segall tornerà a offrire produzioni fuori dagli schemi, ma anche questa sua versione “public-friendly” non ci dispiace affatto.

Nicola Gervasini

lunedì 21 luglio 2025

Ivan Francesco Ballerini

 

 

Ivan Francesco Ballerini

La guerra è finita

RadiciMusic Records

File Under:  War is not the answer

 

Impossibile rimanere impassibili davanti a questi tempi di guerra nel mondo, soprattutto se si è un sensibile cantautore, ma le canzoni di La guerra è finita, quarto album di Ivan Francesco Ballerini sono nate anche prima degli scenari più noti nei nostri giorni, quasi a dire che la speranza di pace è qualcosa che non ha bisogno di una guerra per sentire il bisogno di esprimersi. Autore toscano di impostazione classicamente folk, Ballerini ha iniziato a pubblicare album solo dal 2019 con l’esordio di Cavallo Pazzo, e si presenta ora con quello che potremmo quasi definire un concept album, sebbene il filo conduttore che lega i brani sia il tema e non i protagonisti. Che sono il soldato che al fronte scrive all’amata della title-track (con la bella voce di Lisa Buralli a supporto), oppure la studentessa che spera di poter finire gli studi nonostante i bombardamenti (Tra Bombe e Distruzione). Altrove Ballerini si ispira alla letteratura (Linea d’Ombra ovviamente si rifà a Joseph Conrad, mentre Vestire di Parole ad un racconto di Primo Levi), o semplicemente parla di amore di coppia (Tra le dita e Perché Mai) o universale (Sulle Pietre del Mondo) come unica arma contro i conflitti dell’umanità. Chiude (così come apriva in un breve strumentale) il brano Il Mondo Aspetta Te, brano in cui un artigiano si mette al lavoro per ricostruire il tutto a guerra finita, un chiaro messaggio di speranza finale per un album che comunque non assume mai toni troppo cupi o pessimistici, nonostante il tema trattato. Nell’album suonano molti musicisti, con particolare peso della chitarra e degli arrangiamenti di Giancarlo Capo. In mezzo a tante voci bellicose in ogni parte dl globo, serve ancora che il folk faccia la parte di un grido che sia sempre ostinatamente per la pace.

Nicola Gervasini

 

martedì 15 luglio 2025

Lavinia Blackwall

 


 Lavinia Blackwall

The Making

(The Barne Society, 2025)

File Under: What She Did On Her Holidays

Nel fenomeno di rinascita e riscoperta del folk britannico negli anni 2000, gli scozzesi Trembling Bells hanno giocato un ruolo importante. Cinque album pubblicati tra il 2008 e il 2018, in cui hanno rimescolato le carte del genere, più un EP e un disco in collaborazione con Bonnie Prince Billy (The Marble Downs del 2012), che testimoniava proprio la stretta parentela tra l’indie-folk di questi decenni e la musica tradizionale di marca Fairport Convention e dintorni. Nel 2018 però la vocalist della band, Lavinia Blackwall, ha annunciato di lasciare la band, di fatto sciogliendola (ad oggi infatti la sigla pare aver chiuso i battenti), e varando così una carriera solista con l’album Muggington Lane End del 2020. Ci sono voluti cinque anni per avere The Making, il secondo album, anni difficili e dolorosi di ritirata riflessione e introspezione, grazie ai quali ha prodotto quello che pare proprio uno di quei dischi che cambiano le sorti di una carriera. La Blackwall, infatti, aiutata del produttore Marco Rea, ha lavorato per lungo tempo su 10 brani che assorbono come una spugna moltissime influenze e diverse sonorità, pur non abbandonando il proprio stile, che ovviamene le porta paragoni con Sandy Danny o Jacqui McShee dei Pentangle.

E se l’iniziale Keep Me Away From The Dark è ancorata ad uno stile classico, l’arioso mid-tempo di The Damage We Have Done riesce a far confluire in un colpo solo un incedere alla Byrds con una melodia da dischi di Kate e Anna McGarrigle. Ma l’album gioca di varietà con la piano-ballad Scarlett Fever (qui sì che aleggia lo spirito della Denny), coi fiati che giocano sulla melodia di My Hopes Are Mine (dove torna sulle ragioni della fine dei Trembling Bells, aiutata tra l’altro dalla voce di “Miss Moonlight Shadow” Maggie Reilly), o l’incedere brit-pop di Morning To Remember (lei stessa cita i Kinks come influenza, ma io direi quasi più i Blur più classici). La Blackwall non rinuncia mai al suo vocalizzo alto e impostato (The Making), mostrando però le proprie doti e possibilità vocali con parsimonia, e sempre con rispetto al tema della canzone (bravissima nell’emotivamente sofferte We All Get Lost e The Art of Leaving, tra i brani più memorabili della raccolta).

Il finale non perde colpi con The Will To Be Wild e una eterea e riflessiva Sisters In Line in cui tornano protagonisti i fiati di Ross McRae e Richard Merchant. Dopo un esordio in cui aveva forse voluto metterci troppo, Lavinia Blackwall centra il bersaglio con un album che non perde semplicità nonostante gli arrangiamenti ben studiati, e soprattutto con dieci brani che spiegano perché si possa ancora essere moderni partendo dalla tradizione.

Nicola Gervasini

Robert Forster

 

Robert Forster

Strawberries

(2025, Tapete Records)

File Under : Strawberries fields forever

Tra i sopravvissuti all’incredibile e forse irripetibile calderone di grandi artisti usciti dalla scena australiana di fine anni settanta, l’ex Go.Betweens Robert Forster è forse uno di quelli più in credito con la fortuna (ma questa ormai è una banalità anche ricordarlo trattandosi di personaggi così di nicchia), ma anche uno di quelli che ancora sta tenendo un ritmo discografico qualitativamente altissimo. Se non conoscete la sua carriera solista, iniziata nel 1990 ancora in parallelo all’attività della band, recuperate lo splendido The Evangelist del 2008, ma in ogni caso anche i titoli più recenti valgono la pena. Questo Strawberries in particolare esce a poca distanza da The Candle and the Flame, disco piuttosto sofferto segnato dalla contemporanea morte della madre e dalla diagnosi di una grave malattia alla moglie Karin Bäumler, cercando però con tutta evidenza di esserne il capitolo di ritorno alla vita.

Ne esce di fatto un disco completamente diverso, non voglio dire “allegro” perché comunque questi racconti letterari, apparentemente meno autobiografici, sono pregni di disagi di varia natura, ma sicuramente positivo nel reagire alle avversità della vita. Ne è testimonianza anche il video che accompagna la title-track, che vede lui e una rigenerata moglie duettare nella loro cucina in una splendida pop-song, con tanto di fiati e citazioni dei Lovin Spoonful, video che testimonia la semplicità del personaggio e del suo messaggio artistico, ma anche la complessità delle sue trame da pop-rock d’altri tempi.  Ma è tutto il disco che vola altissimo fin dalla strana storia d’amore di Tell’It Back To Me, e passando per un numero da pub-rock degno del miglior Nick Lowe come Good To Cry, a quel lungo e splendido tour de force di folk-pop all’australiana (siamo in zona Paul Kelly quasi) che è Breakfast on The Train, Forster sembra aver trovato con questo disco (solo 8 brani, ma bastano) la chiusura del cerchio di una lunga carriera.

Nella seconda parte si viaggia un po’ più sul sicuro con brani che tornano a citare non poco il passato, come l’intro pianistica alla John Cale di Such A Shame, o come nelle atmosfere da rock anni 70 di All Of The Time. Ma è nel finale di Diamonds che le carte vengono rimescolate, introducendo un sax quasi free-jazz in un brano che ha ben altro spirito rispetto al clima più scanzonato del brano precedente (Foolish I Know), nel quale quasi veste i panni dell’elegante jazz-crooner. Un gran bel finale per un disco vario e alquanto ispirato, e soprattutto capace di usare l’ironia (leggetevi il testo di Foolish I Know) per tagliare quella soffocante patina di dolore che aveva reso non facilissimo da digerire il suo album precedente. E solo i grandi artisti hanno la capacità di cambiare registro rimanendo comunque sé stessi,  e di non perdere mai le proprie radici musicali fatte di pane e Kinks, ma da saperle riscrivere senza mai apparire sterilmente citazionista.

 

Nicola Gervasini

lunedì 7 luglio 2025

BOB MOULD

 

Bob Mould

Here We Go Crazy

(2025, Granary Music)

File Under: These Important Songs

 

Bob Mould è un intoccabile. Vale a dire uno di quei nomi su cui si è sempre tutti d’accordo, che nessuno oserebbe mai contestare, al riparo pure dalle manie di insensato revisionismo critico verso i mostri sacri che ha imperato in questi anni di discussioni musicali nei social. Non si ebbe il coraggio di metterlo in discussione neppure quando nel 2002 con Modulate azzardò un abbraccio all’elettronica, non poi così memorabile col senno di poi, ma è indubbio che il suo nome è sempre in cima quando si deve portare un esempio di integrità artistica e qualità costantemente alta. Ma da 15 anni a questa parte serpeggia tra le righe dei fans la sensazione che si sia un po’ arenato su un modello di canzone (che resta poi lo stesso degli anni con gli Hüsker Dü), senza più porsi il problema di nuovi azzardi.

Ho fatto una prova empirica, e ho ascoltato per la prima volta questo nuovo Here We Go Crazy subito dopo aver riascoltato Silver Age del 2012, considerando che in mezzo ci sono altri 4 album che hanno mantenuto bene o male lo stesso registro di suoni, ed effettivamente è stato difficile capire dove finisse il primo e dove iniziasse il secondo, se non per un leggero calo di ritmo e ferocia sonora evidenziato dal nuovo capitolo.

Si potrebbe quindi davvero ipotizzare che Mould faccia ormai da tempo lo stesso disco, sensazione amplificata dal fatto che di fatto stiamo parlando di album registrati dalla stessa band e sempre con la stessa “ratio” produttiva, e cioè con la sua chitarra iper-amplificata in primissimo piano, e la sezione ritmica di  Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria), sempre loro ormai da anni, che lo segue con la medesima veemenza ma sempre un po’ in sottofondo nel mix finale.

E sebbene qui brani come la title-track o Breathing Room si assestino su un ritmo più riflessivo e autoriale e meno da garage-rock, e in Lost Or Stolen riaffiori persino una chitarra acustica (ma nulla a che vedere con il suono elettro-acustico che aveva reso il suo esordio solista Workbook uno di suoi album più amati nel tempo), la solfa non cambia. Ma, e il “Ma” fortunatamente c’è, il finale di questa premessa non è un superficiale “ragazzi, ammettiamolo, Mould ormai rimesta la stessa minestra da anni”, perché se lo consideriamo un numero Uno del mondo del rock alternativo (o underground, o metteteci voi la definizione che ancora ritenete valida nel 2025), è perché Mould non ha mai smesso di essere un Autore, e pure uno dei migliori.

Immaginate ad esempio se Leonard Cohen avesse fatto a tempo registrare una sua versione di Hard to Get, o pensate se Joe Cocker avesse notato il potenziale da mainstream-rock radiofonico di una When The Heart is Broken, e davvero non si farebbe fatica a farlo. E questo funziona perché i brani di Mould sono ancora ottimi innesti di ottimi testi (qui più nostalgici del solito), e melodie “quasi-pop” che potrebbero vivere benissimo anche se confezionati con una carta da pacchi diversa da quella che lui usa ormai da anni. Here We Go Crazy è solo il nuovo capitolo di un lungo libro che forse potrebbe anche cominciare a stancare qualcuno, perché poi sì, probabilmente lui non cambia le impostazioni dell’amplificatore della propria chitarra da anni, e credo che se ne guardi anche bene dal farlo, ma abbiamo 11 nuove canzoni di Bob Mould, e non è mica facile trovarne di altrettanto belle anche nel 2025.

 

Nicola Gervasini

lunedì 30 giugno 2025

AJ CROCE

 

A.J. Croce

Heart Of The Eternal

(BMG Rights Management, 2025)

File Under: Play It Again, A.J.

L’esercito dei figli d’arte nel rock ha da sempre due categorie ben precise, e cioè quelli che in qualche modo ricalcano le strade paterne/materne semplicemente aggiornandole ai tempi, o chi invece si distacca del tutto, prendendo altri modelli stilistici. A.J. Croce, figlio del songwriter Jim Croce, è da anni un vero e proprio adepto di un suono a metà tra il Tom Waits degli anni 70 e il New Orleans sound di Dr. John, certo lontano dal cantautorato West Coast del padre. I suoi primi album negli anni 90 furono piuttosto apprezzati (se non li conoscete, recuperate subito That’s Me in The Bar, il migliore del lotto), poi nei primi 2000 anche lui sentì l’esigenza di provare a “normalizzare” il suo suono e il suo sound, e un po’ si era perso, ma già da qualche titolo degli ultimi quindici anni pare aver ritrovato la voglia di esprimersi col linguaggio al lui più congeniale. Per questo vi presentiamo questo Heart Of The Eternal, suo undicesimo album, un po’ come un nuovo capitolo di un libro già scritto, una sorta di prosecuzione del precedente album di inediti Just Like Medicine del 2017.

A fare la differenza è che qui a produrre c’è un altro nobile “figlio di”, uno Shooter Jennings che da qualche tempo sembra dare il meglio più come collaboratore che come primo nome, e che ammanta le canzoni di Croce con un suono più deciso e cristallino, sicuramente più in linea con le esigenze di riproduzione streaming odierne. Ma soprattutto è il primo vero album scritto di suo pugno uscito in seguito alla tragica morte della moglie, lutto che artisticamente aveva elaborato usando parole d’altri nel cover-record By Request del 2021, e aver lasciato passare qualche anno è stato sicuramente utile, perché i testi tengono conto sì del gran dolore patito, ma cercano anche una via positiva di ritrovata filosofia di vita e di amore, e di rasserenata coabitazione con i suoi lutti.

Insomma, fin dall’aggressivo giro di I Got A Feeling c’è voglia di vita e vitalità, voglia di avvolgersi nella calda e rassicurante coperta di un brano ovvio e stra-sentito (ma che non ci verrà mai a noia) come la baldanzosa On A Roll. Le cose si fanno serie con la soul-ballad Reunion, tra cori femminili e organi Hammond che sibilano come nella migliore tradizione, con il tango alla Calexico di Complications Of Love, con il blues di Hey Margarita e con la suadente The Best You Can. Il suo stile dei primi album torna a fare capolino in So Much Fun, e il momento quasi da crooner di All You Want. Tra gli ospiti troviamo la voce di John Oates e quella fascinosa di Margo Price nel finale tutto archi e cori di The Finest Line.  Tutto classicissimo e tutto prevedibilissimo, ma tutto anche fatto benissimo, a riprova che il ruolo che potrebbe avere A.J. Croce nel panorama musicale moderno sia quello di continuare ad essere un fiero “New Traditionalist”, senza tentazioni di cercare una modernità che proprio non gli si confà.

 

Nicola Gervasini

giovedì 26 giugno 2025

Ashleigh Flynn & the Riveters

 

Ashleigh Flynn & the Riveters

Good Morning, Sunshine

(2025, Blackbird Record Label)

File Under: Country Fun

 

Sono passati ormai 17 anni da quando su queste pagine vi consigliavamo l’album American Dream di una giovane cantautrice di nome Ashleigh Flynn, inizialmente presentata dalle sue cartelle stampa come una nuova Norah Jones, ma poi nel tempo sempre più adepta di un cantautorato ostinatamente e fieramente country-rock. La ragazza non ha forse più tenuto lo stesso livello da allora, fin quando poi ha deciso nel 2018 di uscire dalla solitudine e unire le forze con le Riveters, una “All-Female Americana & Rock Band”, come si autodefiniscono sul loro sito. E sappiamo bene quanto una band al femminile faccia storicamente scena nel panorama rock (chiedetelo anche a Dave Alvin ad esempio), e così la nuova combo (in totale 7 donne sul palco), dopo aver pubblicato un album d’esordio nel 2018, ha poi passato anni ad infiammare i palchi americani con set energici e più che coreografici.

Il titolo del loro secondo sforzo discografico in studio, Good Morning, Sunshine, esprime benissimo lo spirito:” fun fun fun” avrebbero detto i Beach Boys, per cui al bando ballate tristi e polemiche politiche, e via ad una celebrazione della vita da strada e da bar (l’apertura Drunk in Ojai lì ci porta fin da subito), in cui si da spazio alle musiciste e alla loro verve. In qualche modo oggi Ashleigh Flynn & the Riveters potremmo definirle come dei Commander Cody and His Lost Planet Airman in quota rosa (se non li ricordate, andate subito a studiare i loro dischi degli anni 70), per citare nomi classici, o delle Dixie Chicks più spensierate, per stare su esempi più recenti,  dove non si cerca tanto la proposta musicalmente originale, quanto il cocktail esplosivo di energia e suoni della tradizione.

In questo scenario Ashleigh Flynn forse perde un  po’ della sua personalità, ma ugualmente si cala bene nel ruolo di band-leader, cantando su toni altissimi e ricordando sempre più la Maria McKee dei tempi d’oro. Sul piatto girano pezzi di sapore rockabilly (Deep River Hollow), baldanzosi brani da line-dance come Eye of the Light, occhiate convinte al southern-rock come la title-track, e anche qualche momento più calmo come Love is An Ember, fino alla corale battuta di mani di Don’t Leave Me Lonesome. In questo mix di bluegrass, country e varie influenze di roots-music, la Flynn riesce a piazzare anche qualche testo impegnato sull’ecologia, e forse si potrebbe anche intuire un sottotesto sociale in brani danzerecci come Shake The Stranger, ma non è sulle parole che punta un disco nato per divertire e intrattenere durante un viaggio, durante una bevuta al bar, o semplicemente da suonare in casa in un giorno di festa. A Portland funziona benissimo, in Italia non so se fa lo stesso effetto, ma vale la pena provarci.

Nicola Gervasini

lunedì 23 giugno 2025

DEAN OWENS

 

Dean Owens

Spirit Ridge

(Continental Song City, 2025)

File Under: From Texas to Romagna

 

Nel 2008 proprio su queste pagine parlai del primo disco lanciato a livello internazionale di Dean Owens (Whiskey Heart), descrivendo uno scozzese fieramente innamorato dell’America, presentato sulle note di copertina dal connazionale Irvine Welsh come una sorta di esploratore di un immaginario che noi qui ovviamente ben conosciamo. Uno dei suoi primi dischi autoprodotti si intitolava Gas, Food & Lodging, e credo che questo basti per accendere qualche lampadina nei nostri riferimenti culturali.

Nonostante l’impegno del produttore e chitarrista Will Kimbrough, il disco non impressionò troppo (ai tempi davamo i voti  numerici, e si meritò un 6 di incoraggiamento), però il buon Owens ha continuato a studiare disco dopo disco, tonando nei nostri radar quando, decisosi per un trasferimento artistico in terra statunitense, ha cominciato a collaborare con gente come i Calexico per il già notevole Sinner's Shrine del 2022 e successiva saga di EP dedicati al confine messicano condensati nell’album El Tiradito (The Curse of Sinner's Shrine), a cui va aggiunto anche un side-project a tre mani sempre con Will Kimbrough e Neilson Hubbard (Pictures).

Insomma, Spirit Ridge è il classico disco in cui lo si aspetta un po’ al varco, perché ormai di esperienza ne ha tanta, e i buoni maestri non gli sono mancati, e infatti qui possiamo davvero a confermare che alla fine il “ragazzo” ce l’ha fatta a diventare un credibile cantore di frontiere yankee. E lo fa paradossalmente accasandosi nelle nostrane terre emiliane, sfruttando l’ormai consolidata esperienza di Don Antonio (alias Antonio Gramentieri) nel descrivere un certo immaginario musicale, contattato su consiglio proprio di John Convertino, che ha poi partecipato a queste sessions.

Potremmo quasi dire che Gramentieri ormai un disco del genere lo suona e produce ad occhi chiusi, e il suo tocco (e quello di alcuni suoi collaboratori, come ad esempio il chitarrista Luca Giovacchini) si sente al primo colpo nei riverberi dell’iniziale Eden Is Here o nel breve intermezzo mariachi di Spirito. A questo punto, se il risultato è garantito dal team, resta però da capire quanto Owens ci abbia messo di suo, e rispetto ad esempio al disco di 17 anni fa, in un brano tesissimo (e francamente bellissimo) come My Beloved Hills, è proprio la sua prova vocale che mostra una nuova maturità, che ribadisce come anche senza grandi e potenti mezzi vocali si possa comunque incidere su un brano.

Owens scrive tutti i brani con toni lenti e profondi, anche se c’è spazio anche per qualche episodio più veemente (l’epico dialogo tra chitarre e sezione d’archi di Light This World), e dopo un momento un po’ sperimentale (The Buzzard and the Crow), arriva l'uno-due da K.O. di Burn It All e Face The Storm, anima centrale del disco.

Dodici brani per 49 minuti, ma era difficile voler tagliare qualcosa, volendo lasciare spazio ai fiati di Michele Vignali e Francesco Bucci (arrangiati da Vanni Crociani) nella cavalcata di Wall Of Death, o per chiudere con i tre brani liricamente più intensi (A Divine Tragedy, Spirit Of Us e Tame The Lion). Un bel salto di qualità che porta quel 6 di un tempo ad un 8 pieno.

Nicola Gervasini

lunedì 16 giugno 2025

LUMINEERS

 

The Lumineers - Automatic

Dualtone, 2025

 

Per molti i Lumineers resteranno solo degli one-hit-wonder, cioè quei gruppi che verranno ricordati dal grand pubblico per un'unica canzone, ed è un destino decisamente curioso per una band del genere. Più che altro perché negli anni 2000 di band a due elementi (Wesley Schultz e Jeremiah Fraites ) dediti ad un americana-folk riletto con piglio indie, ne sono piene le cronache e le pagine delle riviste dedicate, ma un successo planetario come Ho Hey del 2012 pochi possono vantarlo. Il brano era una simpatica folk-song forte di un coretto impossibile da non memorizzare al primo colpo, e qui poi partono sempre quelle diatribe critiche sugli effettivi meriti di un tale successo e la relativa polemica “perché loro si, e altri no”.

La storia del rock è piena di paradossali ingiustizie, e nel novero conto anche quel riflusso di apprezzamenti che spesso chi azzecca il brano popolare deve subire nel proseguo della carriera. Insomma, i Lumineers ora li conoscono tutti, ma pochi poi sono stati disposti a prenderli sul serio anche nei loro dischi successivi. Non che il duo abbia sfornato poi indiscutibili capolavori, ma la sensazione è che la loro opera sia stata accolta con aria di sufficienza.

Per questo spero che almeno questo Automatic, quinto capitolo della loro saga, venga perlomeno preso per quello che è, un buonissimo disco di folk che sa essere a volte leggero, a volte impegnato, ma sicuramente non vacuo. Schultz e Fraites proseguono il loro discorso noncuranti degli antichi clamori, scrivono da soli 11 canzoni che suonano fresche e riuscite fin dal primo ascolto, e racchiudono tutto in 32 minuti che impediscono sbadigli e vanno dritti al punto. “Musica senza fronzoli“ si scriveva spesso un tempo quando le super produzioni spesso rappresentavano un problema, mentre qui i due fanno tutto da soli, con qualche intervento esterno sporadico (la viola di Megan Gould ad esempio), e sotto la guida del team produttivo formato da David Baron e l’ex Felice Brothers Simone Felice.

Il titolo del primo brano d’altronde la dice lunga, Same Old Song, e i due infatti sanno benissimo di non avere eventi sensazionali da offrire, ma rifugi sicuri di belle canzoni come la title-track o Plasticine, con toni soffici persino quando si cerca il testo tagliente (Asshole), e generalmente un mood che me li fa quasi avvicinare alla West Coast più suadente di Loggins & Messina o Seals and Crofts, nomi che certamente i due avranno imparato ad apprezzare. Automatic è un disco diretto, che solo nella finale So Long (unico brano sopra i 4 minuti) si prende anche il tempo per riflettere. Il folk dei Lumineers è lo stesso dei loro esordi, la notizia è che ora hanno smesso di cercare una nuova hit e semplicemente fanno quello che sanno ben fare.

VOTO 7

Nicola Gervasini

giovedì 12 giugno 2025

LUTHER RUSSELL

 

Luther Russell

Happiness For Beginners

2025, Curation Records

File Under: In the Jingle Jangle Morning

Per la serie “chi se li ricorda?”, Luther Russell fu cantante dei Freewheelers, band che negli anni ’90 partecipò al momento d’oro di tutta una scena di band americane che riscoprivano i suoni della tradizione, spesso appartenenti alla scuderia dell’American Recordings. Il loro secondo album si chiamava Waitin' for George, in riferimento al guru della label George Drakoulias, che produsse quel mix di suono sospeso tra i Traffic e Joe Cocker, un disco che credo che molti nostri lettori avranno comprato ai tempi. L’album però fu uno dei pochi flop commerciali della label, spingendo la band a sciogliersi. Da allora Russell ha portato avanti una carriera solista un po’ oscura, concedendosi anche qualche ruolo da produttore (ad esempio in Lost Son, ma anche in Winnemucca, dei Richmond Fontaine di Willy Vlautin), prima di approdare al settimo album con questo Happiness For Beginners. Il disco è figlio indiretto di un'altra sua importante avventura, i 3 album pubblicati dal 2016 ad oggi dei Those Pretty Wrongs, duo che aveva formato nientemeno con Jody Stephens, storico batterista dei Big Star, esperienza che già aveva portato il suo suono ad abbracciare altri lidi classici in ara country-rock/Byrds.

Il nuovo album di fatto nasce con una costante decisa, e cioè “Rickenbacker 12 corde ovunque”, in un gioco a cercare la perfetta jingle-jangle song certo non nuovo (chiedete a Sid Griffin dei Long Ryders come si fa a costruire gran parte di una carriera sul concetto), ma sempre ben accolto nei nostri lidi. Se avete però in mente i due dischi dei Freewheelers farete bene a dimenticarli, e non tanto per il diverso suono di rifermento, ma quanto perché Russell ha smesso completamente di cercare i toni rochi e “cockeriani” di un tempo, e ora canta con una voce più pulita, che addirittura rende brani come la tilte-track più vicino ai Buffalo Tom di Bill Janovitz, rendendosi quasi irriconoscibile rispetto al passato. Per il resto Happiness For Beginners è un piacevolissimo bigino del McGuinn-pensiero, che azzecca non pochi brani potentissimi da suonare in macchina come Downtown Girls e All The Ways.

Il gioco, a cui partecipano tra gli altri la fedele collaboratrice Sarabeth Tucek e Jason Falkner (vecchia conoscenza della scena anni americana di un tempo anche lui, con Jellyfish e Three O’Clock), è tutto qui, i dieci brani seguono la linea tracciata con qualche accelerazione (Sing A Song entra quasi in area Dinosaur Jr.) e qualche rallentamento (la lenta And Ever), con brani che si segnalano anche per buona scrittura (Your Reckless Heart) e altri magari più prevedibili (Right Way). Una bella sorpresa che non scrive nulla di nuovo ma rinnova l’idea che probabilmente senza i Byrds oggi noi saremmo qui a discorrere di ben altra musica.

 

Nicola Gervasini

lunedì 9 giugno 2025

Mark Pritchard e Thom Yorke

 

Mark Pritchard e Thom Yorke - Tall Tales

2025 – Warp Records

 

Pareva quasi solo un esperimento estemporaneo KId A dei Radiohead, uscito ormai 25 anni fa, eppure da allora il leader della band Thom Yorke non è più tornato indietro nel considerare l’elettronica, e non il sound guitar-oriented dei loro anni ’90, il fulcro sonoro delle sue creazioni. Trasformazione ancora più evidente nella sua ormai corposa carriera fuori dal gruppo, sia col side-project degli Smile, sia nei suoi album solisti, spesso legati a soundtracks per pellicole (quella per Suspiria del nostro Guadagnino resta la più famosa), oppure frutto di collaborazioni a due mani o di gruppo (penso al disco degli Atoms for Peace ad esempio). All’ultima categoria appartiene anche questo Tall Tales, lungo viaggio sonoro concepito col guru dell’ elettronica Mark Pritchard, artista che prima del 2013 ha pubblicato e prodotto molto materiale sotto svariati nickname (Global Communication è forse il più noto tra i tanti), prima di decidere di presentarsi sempre o comunque col suo vero nome.

 

Il disco è seguito anche da un film d’animazione creato da Jonathan Zawad, a testimonianza di una continua visione multimediale dell’artista, ma il progetto stavolta non nasce come soundtrack, ma come il risultato di un lungo scambio di idee e demo he i due hanno tenuto vivo nel corso degli ultimi quattro anni. Ci sono momenti strumentali (soprattutto in apertura e chiusura del disco), ma nel complesso Yorke torna qui a pensare la sua produzione in termini di canzoni, lavorando anche molto sulla sua vocalità e le sue possibili estensioni e interazioni con gli effetti elettronici. Ne nasce un album molto unitario nel suo mood ipnotico e decisamente oscuro (ma non direi depresso per una volta), in cui compaiono anche episodi quasi synth-pop come Gangsters o This Conversation is Missing Your Voice, o brani comunque in linea con il mondo Radiohead (The Spirit), fino a episodi più ipnotici come l’ecologista The White Cliffs.

 

Una buona scelta quella del duo di giocare non solo carte d’atmosfera come la title-track, ma anche episodi che potrebbero persino essere più radiofonici, come il ritmo quasi balcanico di Happy Days, o indiretti omaggi al rock classico, come l’incedere alla Velvet Underground di The Men Who Dance In Stags’ Heads. Disco costruito a distanza (i due non si sono quasi mai incontrati per registrarlo), Tell Tales pare un lavoro compiuto, che non ha più l’aria del progetto sperimentale, ma di una proposta ben definita, e che fa fare un ulteriore passo avanti alla ricerca musicale di Yorke. Mark Pritchard, che con Yorke aveva comunque già collaborato, dal canto suo conferma di essere un punto di riferimento del genere, con l’intelligenza di mettere la sua strumentazione e la sua perizia tecnologica al servizio delle canzoni, in cui compaiono non pochi contributi di altri suoni, come ad esempio il trombone che appare nel singolo Back in the Game.

VOTO: 7

NICOLA GERVASINI

venerdì 30 maggio 2025

BEIRUT

 

Beirut – A study of Losses

2024 Pompeii Recording Co & Beirut

Nel gran marasma di uscite discografiche moderne si finisce spesso ad essere incuriositi dal nome nuovo, e magari si danno inavvertitamente per scontati artisti ormai consolidati. E così Hadsel, il disco del 2023 di Zach Condon, alias Beirut, è stato secondo me ingiustamente ignorato da tante classifiche di fine anno, più per abbondanza di proposte, che per reali demeriti di un album nato nella vita solitaria della Norvegia.

Magari troverà più eco questo suo nuovo sforzo altrettanto interessante, A Study Of Losses, che più che nuovo album potremmo considerare un side-project sperimentale nato su commissione. L’occasione gli è stata data da un trio di acrobati e ballerini svedesi, I Kompani Giraff, che gli hanno chiesto di musicare una loro performance dallo stesso titolo, basando i testi sul bestseller dell’autrice tedesca Judith Schalansky Verzeichnis Einiger Verluste (tradotto in inglese come An Inventory of Losses, da cui l’edizione italiana Inventario di Alcune Cose Perdute edito da Nottetempo nel 2020). Il libro è una raccolta di dodici racconti, ognuno dedicato a qualcosa che si è ormai irrimediabilmente perso, sia esso un animale ormai estinto, o un’ isola sommersa dall’oceano (Tuanaki Atoll), fino ai versi perduti delle poesie di Saffo (Sappho’s Poems).

Registrato tra la Germania e la Norvegia, A Study Of Losses tiene fede al proprio titolo offrendo 18 bozzetti di sperimentazione di suoni tra elettronica, chitarre acustiche e archi, che probabilmente andrebbe gustata in parallelo alle performance circensi del trio di acrobati, ma che vive benissimo anche come opera a sé stante. Già Forest Encyclopedia mostra subito tutte le note e ben apprezzate doti vocali e melodiche del padrone di casa, anche se il disco alterna strumentali e brani cantati, e tra i secondi si mettono in evidenza Villa Sacchetti con la sua melodia quasi medioevale, dedicata alla villa romana progettata da Pietro da Cortona per i marchesi Sacchetti, ormai distrutta e ridotta ad un ammasso di ruderi lasciati all’incuria, ma immortalata dallo splendido dipinto di Gaspar van Wittel.

Con la quasi samba elettronica di Garbo's Face si passa a piangere la star scomparsa, che si era ritirata dalle scene per non mostrarsi invecchiata (“I know your hair goes grey, I see the color fade ,I see the time around your eyes” canta Beirut). Il clima generale è ovviamente malinconico e nebbioso, anche se Guericke's Unicorn si avventura in un synth-pop abbastanza scanzonato per ricordare l’Unicorno di Magdeburgo, animale di cui abbiamo solo un improbabile fossile, e la cui effettiva esistenza non è mai stata verificata o certificata, storia sicuramente più fantasiosa di quella cantata in The Caspian Tiger su una tigre effettivamente esistita. A parte gli archi e qualche intervento di basso e batteria, Beirut suona tutto in solitaria, aiutandosi con vari tipi di chitarre e tastiere, e con sovraregistrazioni vocali per ottenere anche effetti corali suggestivi come quelli di Ghost Train, o brani più ritmati come Mani’s 10 Books, dedicato al solo favoleggiato decimo libro del profeta fondatore del manicheismo, mentre Moon Voyager addirittura termina con una sezione fiati mariachi, pezzo che anticipa la chiusura con due brani dedicati ai mari lunari Mare Nectaris e Mare Tranquillitatis. Sforzo artistico notevole quello di Beirut, per un risultato magari non per tutti i palati, ma in ogni caso encomiabile.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

lunedì 7 aprile 2025

Elli de Mon

 

Elli de Mon

Raise

(2025, Rivertale Production)

File Under: Saints & Sinners

L’idea di canzoni che utilizzino un dialetto (se non proprio una vera lingua) regionale, anche su sonorità non per forza di musica tradizionali, è ormai vecchia, e l’elenco di nobili esempi, da Creuza de Ma in giù, è vasto. Anche il mondo del blues non si è fatto attendere nello sperimentarne l’effetto (singolare, ad esempio che l’unico disco interamente in napoletano registrato da Edoardo Bennato, con l’alias di Joe Sarnataro, fosse proprio in chiave chicago-blues), ma nel caso di Elli De Mon i distinguo sono parecchi.

Lei la conosciamo già da molti anni su queste pagine, sia come solitaria one-woman-band dedita ad un blues spigoloso e luciferino, sia, con il suo vero nome (Elisa de Munari), come autrice di libri, e rinnovo l’invito a leggere il suo interessantissimo Countin The Blues sulle blues-singer storiche. Doppia vita artistica che qui si riunisce in un album intitolato Raise (“radici” in vicentino), a cui fa eco anche un libro dallo stesso titolo realizzato con le illustrazioni di Luca Peverelli. Ma per l’album, stavolta, non solo ci troviamo davanti ad una proposta che esce ancor più del solito dai confini del blues usato nella sua abituale versione anglofona, ma qui Elli De Mon si inventa un suono che sa di Delta come anche di Laguna, anche se più precisamente il dialetto utilizzato è quello vicentino e non veneziano.

Anzi, l’album è una sorta di concept che scava nelle sue radici del paese di origine, Santorso, tra santi veri e miti pagani che costellano la storia di Orso (da non confondere con il più noto Sant’Orso della Val d’Aosta), un nobile del medioevo che, dopo aver ucciso la famiglia, fu condannato ad intraprendere un lungo cammino in cerca di una identità. Un simbolico percorso umano che è di ispirazione per una serie di canzoni che vanno davvero oltre il concetto di blues, invadendo il campo del mondo del dark-folk come anche di un roccioso stoner-rock alla Kyuss in alcuni casi, e creando così un genere tutto suo, a cui il dialetto si adatta persino meglio dell’italiano.

Le origini famigliari di Raise, la presentazione del personaggio principale di Orso e di Sinner (dove riaffiora un refrain in inglese), il viaggio che lo ha portato alla santità di Sumàn (il monte Summano sovrasta il paese di Santorso) sono tutti i primi tasselli della leggenda, che poi si fa quadro di vita di provincia in El Me Moro, dove su un ipnotico ritmo sospeso a metà tra The End dei Doors e All Tomorrows Parties dei Velvet Underground da  rientriamo nell’ambito del focolare domestico con una moglie che deve sopportare le angherie del marito che tona a casa ubriaco. La presa di coscienza di poter risorgere a nuova vita arriva in Babastrii (Pippistrelli), simboleggiata dall’acqua purificatrice di Giose (Gocce), e si finisce così con la rinascita (Sarò Tera) e la ninna nanna finale di Nana Bobò.

Elli suona tutto, aiutata da Marco Degli Esposti e Francesco Sicchieri alle chitarre e percussioni, e lasciandosi influenzare da suoni che uniscono rock anni 90, blues, temi orientali tradizionali veneti, e componendo un puzzle davvero originale, nonché un album che meriterebbe davvero di portarla davanti a platee anche più ampie.

 

Nicola Gervasini

 

martedì 1 aprile 2025

Bob Mosley

 

Bob Mosley

Bob Mosley

(Waner Bros/Reprise 1972/2024)

File Under: Soul Frisco

 

E’ il 1972, il country-rock sta esplodendo come genere buono per le radio FM anche al di fuori dei soliti circoli radiofonici di Nashville, e da qualche tempo è partita la corsa a seguire le orme tracciate a suo tempo dai successi commerciali di Sweetheart of the Rodeo dei Byrds o lo stesso Nashville Skyline di Bob Dylan, e non ultimi i Poco e i Flying Burrito Brothers. In questa eccitazione discografica, e in attesa che gli Eagles dimostrassero che il genere poteva persino avere vendite mostruose a livello mondiale, i californiani Moby Grape fallirono l’appuntamento col successo persino quando nel 1971 il loro ultimo album - un 20 Granite Creek sicuramente influenzato dal country-sound imperante - si rivelò un piccolo flop.

Ma il seme era tracciato, il rock psichedelico figlio di mille influenze dei loro dischi storici degli anni 60 si era adattato ai tempi, ma non con la dovuta furbizia commerciale evidentemente, e soprattutto poi nessuno dei componenti della band di San Francisco aveva più voglia di investire nel gruppo. Il cantante e bassista Bob Mosley esordì infatti subito con un disco omonimo che però seguiva la via di un soul-country (ci sono i Memphis Horns, ma c’è anche la pedal steel di Ed Black per capirci) decisamente avanti coi tempi, forse troppo, visto che a parte forse Thanks, mancavano le suadenti ballate country-rock che piacevano tanto agli ascoltatori in quel periodo. Il disco andò male e finì col tempo nella lista dei cult-record più ricercati dagli appassionati. E soprattutto, per Mosley, non ci fu una seconda chance per lungo tempo, complice anche pesanti problemi di schizofrenia che lo portarono sul lastrico.

Ma qui oggi arriva l’uomo della provvidenza che non ti aspetti, quel John DeNicola che immaginiamo economicamente bello tranquillo per aver scritto e prodotto la soundtrack di Dirty Dancing (una delle più vendute della storia) e scoperto i Maroon 5 tra le altre cose, insospettabile fan del disco che ha infatti deciso di rimixare e riprodurre. Da buon marpione del mainstream DeNicola nota che il disco aveva un potenziale enorme ma che l’ingegnere del suono aveva tenuto troppo bassa e poco evidente la sezione ritmica, rendendo così anche brani energici come The Joker o la riproposizione di Gypsy Wedding dei Moby Grape non adatte ad un airplay radiofonico.

Normalmente c’è sempre da storcere il naso per questo tipo di operazioni, personalmente penso che la storia, per quanto triste e sbagliata sia, non vada mai ritoccata, ma è indubbio che a confronto con l’unica versione CD mai pubblicata nel 2005 dalla Wounded Bird Records e con i vinili originali (mai ristampati dal 1972 a oggi), le differenze di pulizia e brillantezza di suono sono evidenti. Il disco così non è solo bello, ma suona anche benissimo anche senza essere degli accesi audiofili, la batteria è in primo piano come promesso, anche se forse ora le chitarre vanno un poco troppo sopra la sezione fiati in alcuni casi come Let The Music Play, ma l’intenzione di DeNicola era proprio esaltare il piglio rock. Per questo mi sento di perdonare il tipo di scelte prese nel remastering e consigliare questa nuova versione anche come primo ascolto. Tra l’altro DeNicola ha deciso di includere nei proventi della ristampa (immagino non faraonici, ma è il gesto che conta) anche lo stesso Mosley, oggi 81enne, anche se in verità aveva perso i diritti sull’opera da tempo. A voi l’occasione di scoprire grandi gemme perdute come il maestoso finale di So Many Troubles o Squaw Valley Nils

 

Nicola Gervasini

lunedì 24 marzo 2025

Benjamin Booker

 

Benjamin Booker  -  LOWER

2025 - Fire Next Time Records

 

Siamo un po’ sommersi e bombardati da una quantità spropositata di album e nuovi artisti da mettere alla prova, che alla fine si rischia di dimenticarsi un poco di quelli che già qualcosa lo avevano dimostrato. E’ il caso di Benjamin Booker, uno che con i due primi album (l’omonimo del 2014 e Witness del 2017) aveva portato una ventata di freschezza nella black music, con un suo personale mix di blues, rock e atteggiamento indie che aveva destato interesse e la sponsorship di Jack White. Anche dal vivo Booker fu di scena in parecchi festival in quegli anni, rubando spesso la scena a nomi più blasonati. Sono passati 8 anni e di lui quasi ci si stava dimenticando, ma questo LOWER (scritto tutto maiuscolo come anche i titoli delle canzoni) ha tutta l’aria di essere uno di quei lunghi parti artistici che lascerà più il segno.

La mossa a sorpresa è quella di affidarsi al produttore Kenny Segal, guru del mondo hip-hop che ha portato in dote un approccio completamente diverso, non so se definirlo moderno visto che poi il risultato, per quanto sperimentale, non è affatto nuovo. L’iniziale BLACK OPPS rende subito chiaro il concetto, con il suo riff hard-blues sommerso da voci filtrate e tastiere, o nell’ipnosi elettronica subito successiva di LWA IN THE TRAILER PARK. La tendenza è fare un gran mix di tante ispirazioni, persino quelle più “rootsy” che animano le chitarre di POMPEII STATUES, mentre SLOW DANCE IN A GAY BAR tiene fede al titolo con un suadentissimo dream-pop da struscio sulla pista della discoteca.

Ma la caratteristica da non dimenticare è anche quella dei testi fortemente polemici su società e politica americana, con lo zenith raggiunto in REBECCA LATIMER FELTON TAKES A BBC, brano decisamente sperimentale che sbertuccia una nota avvocata suprematista e nemica dichiarata della black-community, e se non capite il senso del titolo, provate a inserirlo nella ricerca di una qualsiasi sito pornografico e vi sarà tutta chiara l’ironia.

Il disco intrattiene bene, anche se poi a lungo andare, svelate le nuove carte, il gioco si fa più ripetitivo, ma si fanno ancora notare la quasi jazzy SAME KIND OF LONELY con il suo suggestivo video e i tanti samples usati per la base, e la finale HOPE FOR THE NIGHT TIME, mentre SHOW AND TELL si segnala come l’unico brano in continuità col suo passato anche nella produzione più acustica e tradizionale.

Quello che però piace del disco è che le atmosfere apparentemente glaciali create da Segal ben si sposano con i toni per nulla accomodanti di uno dei dischi più feroci dal punto di vista della lotta e orgoglio razziale che si sia sentito negli ultimi anni, con semplici slogan di rabbia e rivolta (SPEAKING WITH THE DEAD) che riportano ad un clima degno dei più riottosi anni 60. Un buon segno in un’era in cui da più parti si sottolinea quanto la musica abbia perso ornai totalmente la propria forza rivoluzionaria e la propria influenza sulla società. Non che il disco di Booker possa cambiare qualcosa dei tempi bui in cui è stato concepito, ma probabilmente il tentativo di fare un nuovo There’s a Riot Going On di Sly & the Family Stone per club, ad uso e consumo dei disc jockey, è perlomeno encomiabile.

NICOLA GERVASINI

VOTO: 7,5

mercoledì 19 marzo 2025

Lilly Hiatt

 

Lilly Hiatt

Forever

(New West, 2025)

File Under: My House is Very Beautiful at Night

L’anno scorso ha compiuto 40 anni Lilly Hiatt, e, in puro stile no-look/no-make-up alla Lucinda Williams, non fa nulla per nasconderli anche nelle foto incluse nel nuovo album Forever, il sesto di inediti di una carriera iniziata discograficamente nel 2012. Il padre John si è sempre tenuto un po’ disparte nei suoi dischi, quasi a non voler sembrare ingombrante, ma è evidente che l’evoluzione artistica della figlia la stia portando sempre più sui suoi territori. Significativo poi che la sua voce faccia capolino in un amorevole e paterno messaggio vocale al telefono posto nel finale della conclusiva Thought, un brano sui bei tempi andati della High School.

D’altronde Forever è un disco sull’essere famiglia, quella che lei, dopo anni di difficile recupero dall’alcolismo, è riuscita costruire con il marito (e qui produttore e chitarrista) Coley Hinson, che ha allestito uno studio casalingo per registrare 29 minuti di belle canzoni che parlano d’amore (Forever), di uomini a cui appoggiarsi (Man) e in generale di una nuova dimensione casalinga (la bella e suadente Evelyn’s House).

E’ un disco sul recupero di una sfera personale, e sul combattere e vincere i propri fantasmi personali (Ghost Ship), molti solo evocati o accennati ma segreti, altri più noti (la madre di Lilly si è suicidata quando lei aveva solo un anno, e già nel buon album Walking Proof del 2000 aveva raccontato delle sue dipendenze). Per questo il tono, sebbene raccontato tramite un sound di country molto elettrico (nella title-track vengono in mente le chitarre in libertà spesso usate da papà John), è abbastanza rilassata e risolta, e già Hidden Day in apertura avverte sul fatto che in questo caso andrà in onda un racconto diverso da quello a cui ci aveva abituati.

Ci sarebbe quasi da pensare un giorno ad uno speciale sui dischi che raccontano l’approdo in un porto sicuro e tranquillo da parte degli artisti dalla vita più disordinata (penso ad esempio al Lou Reed di My House in The Blue Mask), quasi un sottogenere narrativo che spesso viene avvertito come poco intrigante dal pubblico.  “Chi guarderebbe un film come questo dopo uno spettacolo rock n roll?” canta non a caso Lilly in Kwik-E-Mart quasi interrogandosi sul “who cares’” del suo uomo e della sua vita coniugale. Domanda lecita a cui rispondiamo “a noi”, che amiamo comunque le belle canzoni finemente scritte e ben suonate, anche da una artista che forse non ha poi fatto il grande salto di crescita di personalità che possa portarla in prima fila nel vasto mondo della canzone americana, ma che da qualche anno ha trovato perlomeno un suo filone narrativo e espressivo che merita attenzione.

Nicola Gervasini

mercoledì 5 marzo 2025

SAY ZUZU

 

Say Zuzu

Bull

(Strolling Bones Records, 1998/2024)

File Under: Try One More Tme

Se ragionassimo con una logica commerciale, per non dire capitalistica, per cui una offerta sul mercato la si ripropone solo se ha avuto un ritorno economico soddisfacente e replicabile, dovremmo pensare che la ristampa dell’album Every Mile dei Say Zuzu, che vi presentammo poco più di un anno fa, abbia avuto vendite più che incoraggianti. Non disponendo di questi dati, possiamo però anche pensare che il fatto che la Strolling Bones Records di Athens abbia deciso di proseguire con l’operazione, proponendo il precedente disco del 1998 Bull, sia anche frutto di una passione, prima ancora che di mero calcolo economico. D’altronde per capire il loro spirito, basta guadare il sito della label per scoprire che ha in catalogo nomi alquanto oscuri della scena roots, in cui gente a noi ben nota, ma certo non “di primo grido”, come Jon Dee Graham, i Chickasaw Mudd Puppies o Randall Bramlett, giocano il ruolo di nomi di punta.

 

Soprattutto perché poi la cosiddetta “deluxe edition” è una semplice ristampa, arricchita in questo caso con tre inediti, segno che poi gli stessi Say Zuzu ai tempi non si preoccuparono poi molto di lasciare materiale nel cassetto per future operazioni discografiche. Intanto ci dà, comunque, l’occasione di riascoltare (o a voi che non l’avete preso in considerazione 26 anni fa, di riscoprire) un disco che rappresentò per la band la raggiunta maturità. Non aveva forse i pezzi potenti dei precedenti Highway Signs & Driving Songs (1995) e Take These Turns (1997), che restano i primi due titoli che consiglierei della band, ma era sicuramente il disco meglio prodotto del loro catalogo, forte anche di una band che si era ormai ben rodata nei live, e aveva trovato anche in studio il modo per smussare certe spigolature e ingenuità dei primi album. Bull in un certo senso poteva essere la loro occasione di uscire dalla nicchia con pezzi forti come Fredericksburg e Pennsylvania, ma arrivò purtroppo quando l’onda commercialmente positiva dell’Americana stava entrando nella sua fase calante. E paradossalmente She Was The Best, uno dei tre inediti, avrebbe potuto avere qualche chance se si ricorda il successo ottenuto dai Sister Hazel con brani molto simili, e viene da pensare sia stata esclusa ai tempi forse proprio perché un po’ fuori dalle loro solite coordinate

 

La formula comunque rimaneva la stessa, potremmo definirla “Uncle Tupelo-Like” (e la presenza di Moonshiner parla chiaro in tal senso), sia nel suono tutto chitarre, sia nella divisione di compiti tra i due leader Cliff Murphy e Jon Nolan, ma è ovvio che oggi brani come Hank o Wasting Time possono conquistare solo chi seguiva la scena già ai tempi. In ogni caso anche gli altri due inediti valgono la pena, più che una ordinaria Didn’t Know, la bella Singing Bridges con il suo valido gioco di chitarre acustiche. Non tantissimo magari per chi deve decidere se rinnovare la propria edizione già acquistata nel 1998, un bel tesoro per chi parte da zero.

 

Nicola Gervasini

sabato 1 marzo 2025

HUMPTY DUMPTY

 

Humpty Dumpty – Et Cetera

Humpty Dumpty, 2024

 

Suscitando il consueto poco clamore, più per sua scelta artistica che per effettivi meriti, a fine 2024 è uscito Et Cetera, il nuovo album di Humpty Dumpty, la principale creatura artistica di Alessandro Calzavara (non è l’unica, nel 2022 vi avevamo presentato ad esempio il progetto a nome Dana Plato), figura storica della scena indipendente siciliana fin dagli esordi con i Maisie.

Libero di dare sfogo alle sua svariate passioni musicali grazie ad una fiera autoproduzione, Humpty Dumpty si prende anche la libertà di scegliere di volta in volta la lingua di riferimento, per cui per il nuovo album torna all’italiano, come già l’apprezzato La Vita Odia La Vita del 2019, compresa la conferma di Giulia Merlino ai testi, stavolta però in alternanza a quelli di una fantomatica Florita Campos (in realtà il piacentino Andrea Fornasari). Per questo album Calzavara fa tutto da solo, tranne farsi aiutare dal basso pulsante, e direi determinante, di Giovanni Mastrangelo (provate solo a concentrarvi sulla complessa bass-line di Cosa sono questi versi? tra le tante), per tessere un quadro di synth-pop italiano decisamente figlio della new wave nostrana dei primi anni 80 nel definire atmosfere dark, quasi berlinesi direi (città che viene di fatto citata anche in uno dei pezzi forti del disco, La Mort Peut Briller, forte anche di un recitato finale di Giuseppina Borghese, scrittrice siciliana). Tastiere e drum-machines si intersecano nei brani imponendo spesso ritmi quasi dance, a cui fanno da contraltare la vocalità oscura e declamatoria di Humpty Dumpty e i tanti interventi delle chitarre, particolarmente evidenti ad esempio in In fila Per Ore o nei riff di Inconsistenti.

Cos’altro Dire? apre il disco con un testo un po’ disilluso, una malinconia che pervade tutto il disco più come voluta “estetica del nero” che per un reale pessimismo di fondo (d’altronde, come si recita in un brano, “Anche la morte può luccicare”), e si conclude con la poetica La Tazza Preferita, in questo caso chiusa da un recitato di Giada Lottini che direi che illustra perfettamente lo spleen dell’album (“E il discepolo chiese: Maestro, non ci insegni il non attaccamento? Perché hai una tazza preferita? E il maestro rispose Sì, è la mia tazza preferita, ma io la vedo già rotta”). In mezzo, tra le altre, si fanno notare Vernissage, in cui tra le righe si legge una riflessione sulle modalità di apparire e promuoversi degli artisti moderni, o l’ipnotica Calle Bucarelli, in cui Florita Campos gioca con la propria misteriosa identità all’interno di un immaginario movimento letterario chiamato “surrealvisceralismo” in risposta al “realismo viscerale” dello scrittore Roberto Bolaño.

Disco molto omogeneo e riuscito direi, con Humpty Dumpty capace ormai di far valere una esperienza più che trentennale nelle produzioni casalinghe.

Nicola Gervasini

Voto: 7.5

venerdì 28 febbraio 2025

KIM DEAL

 

Kim Deal - Nobody Loves You More

4AD

Proprio su queste pagine ho recentemente parlato della pesante eredità storica che impedisce di ascoltare i dischi attuali dei Pixies senza il pregiudizio che tanto nulla potrà mai essere come un tempo. Era probabilmente la pura più grande della loro bassista Kim Deal, curiosamente disponibile ad una reunion durata quasi dieci anni dal 2004 al 2013, ma con l’implicito e tacito patto che rimanesse solo una rimpatriata per i concerti e non per nuove canzoni. Per quelle la Deal aveva la sua personale creatura da seguire, i Breeders , e così quando Frank Black volle registrare quello che sarà Indie Cindy, lei lasciò la nave. Non che rifiutasse la nostalgia, visto che All Never nel 2018 era di fatto una reunion dei Breeders originali del 1993, ma è ovvio che il suo interesse fosse ancora quello di non fermarsi, Arriva quindi a sorpresa, ma neanche troppo, il suo vero e proprio esordio solista, questo Nobody Loves You More, strano oggetto fin dalla copertina, che la vede esibirsi su una zattera alla deriva giusto per ribadire che lei vuole fare le cose di testa sua, anche a costo di farle da sola.

Disco solista per modo di dire, perché poi i Breeders più recenti suonano in vari pezzi, rendendo evidente come l’album, registrato anche da Steve Albini finché è rimasto in vita, sia una sorta di patchwork di diverse sessions avute dal 2011 ad oggi. Che è anche la ragione perché più che di un disco unitario, pare una raccolta di “Odds and Sods” (per dirla come gli Who), cioè progetti vari a cui è impossibile dare una cornice unitaria , ma che messi assieme così riescono a trovare la propria collocazione in una tavolozza davvero variopinta. E’ la varietà e il coraggio anche di affrontare stili certo non abituali per lei, sfociando spesso nel mondo cella canzone d’autore come nella title-track infarcita di fiati d’archi, che rende questo Nobody Loves You More un oggetto intrigante e forse il disco migliore che ci si poteva aspettare da una artista in una fase cruciale della sua carriera.

Da episodi di pop elegante (Summerland Key) all’avanguardia rock di Big Ben Beat, sembra che la Deal abbia voluto misurarsi con sfide diverse per dimostrare prima di tutto a sé stessa di essere una artista non riconducibile ad un cliché. Il risultato convince, anche se ovviamente resta la sensazione di saltare un po’ di palo in frasca, tra echi del suo stile abituale come Crystal Breath e di pop-rock da radio airplay come Coast, fino a brani più intimi e oscuri come Are You Mine? e Wish I Was. Potrebbe trattarsi di una prova generale lungamente pensata per una nuova ripartenza, che forse metterà più a fuoco tanti stimoli. Intanto godiamoci un disco comunque persino sofisticato e ammiccante nel suo venire in contro un po’ a tutti i gusti, con la sensazione che da lei potremmo avvero aspettarci ancora qualche sorpresa.

VOTO: 7,5

Nicola Gervasini

giovedì 27 febbraio 2025

Father John Misty

 Father John Misty

Mahashmashana

(Sub Pop/Bella Union, 2024)

File Under: All Included


Le classifiche di fine anno sono uscite ovunque, le recensioni si sono già sprecate, le discussioni si sono già

consumate, e mi accingo a scrivere dell’ultima fatica di mister Josh Tillman nel suo ormai abituale e forse

definitivo alias Father John Misty quando ormai quando ormai già sembra essere stato detto tutto.

Riassumendo, se non conoscete il personaggio per vostro approfondimento personale, il messaggio che vi

potrebbe generalmente arrivare è qualcosa che sta intorno al “ha talento, è talvolta geniale, ma è

sostanzialmente pretenzioso”.

Facciamo un passo indietro allora. 15 anni fa proprio su queste pagine scrivevo del disco Year in the

Kingdom, ottava uscita in pochi anni a nome J Tillman, che “mi piacerebbe così vedere ad esempio J. Tillman

alle prese con un produttore, uno studio di registrazione di primo livello, una strategia discografica e i mille

buoni/cattivi consigli che si aggiravano nei corridoi delle etichette discografiche”. Non avevo idea ai tempi

che anche a lui sarebbe evidentemente piaciuto, visto che dal 2012 non solo ha cambiato nome artistico,

ma da scarno homemade freak-folker (così lo definivo io stesso ai tempi), si è trasformato nell’incarnazione

moderna di Harry Nilsson, tra iper-produzioni kitsch e toni da grandi show. Un percorso in crescendo tra

album belli e complessi, in cui la forma di pop barocco che proprio Nilsson seppe realizzare meglio di tanti

altri, si alimenta di tutto quello che la storia del rock ha poi creato successivamente agli anni 70. Uno sforzo

produttivo enorme che ovviamente gli ha portato in session i produttori che speravo ai tempi (qui lo

affiancano Drew Erikson e Jonathan Wilson).

Mahashmashana è nel bene e nel male il sunto migliore della sua arte. Bene perché conosco pochi artisti

moderni in grado di maneggiare con maestria così tanti elementi (orchestre, fiati, cori, elettronica, melodie

pop, ritmi, testi taglienti e non banali), male perché poi conosco pochi artisti moderni in grado di fare un

grosso pasticcio come la detestabile Screamland, quasi sette minuti di insensato pastone di voci e tastiere,

arrivati dopo che Mental Health già un po’ aveva messo a prova la nostra pazienza. Prendere o lasciare,

negli 8 lunghi brani che compongono questa opera si passa dall’odiarlo ad amarlo (She Cleans Up ad

esempio è perfetta), senza trovare vie di mezzo, accettando che anche un brano che poteva

tranquillamente vivere solo di voce a pochi strumenti come Being You finisca sommerso da violini e sax

suadenti, e sapendo che iniziare un disco con i 9 minuti philspectoriani della title-track è un colpo d’autore,

ma anche una evidente spacconata.

E che dire della magnificenza della quasi disco-dance I Guess Time Just Makes Fools of Us All, dove potete

trovarci tutto, la yacht music, I sax alla Bowie, il Beck più piacione, i Bee Gees volendo. Il finale di Summer’s

Gone sta dalle parti del Billy Joel più ammiccante e romantico, e anche qui pare di vedere il suo sorrisetto

sardonico mentre pensa “voglio vedere tutti quei grandi critici che si sparerebbero piuttosto che ascoltare

un disco di Michael McDonald, sbrodolare lodi per questa cosa”. Insomma, quest’uomo è seriamente

bravo, ma i suoi dischi continuano a suonare anche un po’ come delle serissime prese in giro.

Nicola Gervasini

venerdì 21 febbraio 2025

CURE

 

The Cure

4:13 Dream

 

Scottato dal flop di accoglienza di The Cure del 2004, Robert Smith recupera in squadra il vecchio chitarrista Porl Thompson e con lui rimette mano a vecchie frattaglie lasciate nel cassetto durante gli anni ottanta, aggiungendo tonnellate di nuovo materiale con il chiaro intento di recuperare il tipico Cure-sound. 4:13 Dream nelle sue intenzioni doveva essere un doppio album, con una “pop-side” e una “dark-side”, insomma l’ideale capitolo secondo di Wish come impalcatura, ma alla fine dei 33 brani registrati si optò per pubblicarne solo 13 della prima parte, lasciando poi aperta la strada ad un capitolo due più lento e sognante. Seguito che non vedrà mai luce purtroppo, perché l’album andò anche peggio del suo predecessore, primo loro progetto senza certificazioni di vendita dai tempi carbonari e underground di Pornography. Eppure la lunga iniziale Underneath the Stars faceva ben sperare, ma tra le 12 restanti tracce, tutte in chiave pop alla loro maniera, non c’era nessuna nuova Friday I’m In Love a salvare la baracca, neppure brani come The Only One o The Perfect Boy, che parevano nati col chiaro intento di cercare una nuova hit. Sleep When I’m Dead fu pubblicata come singolo per risvegliare la vecchia fanbase, ma finì solo a rendere evidente come mai fu scartata già ai tempi di The Head On The Door. Il problema  di 4:13 Dream è che non ha nessun coraggio, neppure quello di essere veramente brutto (di fatto lo si ascolta senza troppi malori), ma resta solo lo specchio di una band rimasta senza idee che, con piena evidenza, necessitava di una pausa.

Nicola Gervasini

mercoledì 22 gennaio 2025

The Wild Feathers

 

The Wild Feathers
Sirens
[New West 2024]

 Sulla rete: thewildfeathers.com

 File Under: yacht country (rock)


di Nicola Gervasini (29/10/2024)

Wild Feathers vengono da Nashville, vanno verso i quindici anni di carriera, e Sirens è il loro quinto album. E credo che siano una di quelle band che riaprono una antica, ma sempre viva, spaccatura nelle preferenze delle redazioni delle riviste musicali, divise tra chi cerca anche a Nashville la polvere, la musica fuorilegge, la rottura degli schemi, e chi in quella città, così rigidamente severa sui propri canoni estetici, si inserisce nella tradizione senza caderne troppo nelle trappole della produzione in serie. Ad esempio, il collega Pie Cantoni nel 2018 su queste pagine stroncava senza mezzi termini il loro terzo album Greetings from the Neon Frontier, chiudendo la sua disanima con un “Sporcatevi, incattivitevi, incazzatevi, fate un po' di vita ai limiti e poi ne riparliamo.” che rendeva al meglio questa linea di confine estetico.

I Wild Feathers sono effettivamente uno strano caso di band che con tutta evidenza pescano un po’ ovunque, da Tom Petty ai Jayhawks, dagli Eagles a Keith Urban, persino un po’ in quella roots rock sporcata di new wave alla War on Drugs (sentite Sanctuary), e sicuramente l’originalità non è la freccia migliore del loro arco. Ma di strada un po’ ne hanno fatta, di polvere ne hanno presa, qualche incazzatura (si ascolti Pretending) deve essere arrivata, perché Sirens è quel passo in avanti che ci porta a riconsiderarli non più uno specchio per le allodole per quelle giovani generazioni che, istigate da Taylor Swift o dalla Beyoncè in versione cow-girl, provano ad affacciarsi su un mondo musicale che sa di vecchio per sua stessa auto-definizione, ma una band che va a cercare quello spazio occupato (spesso molto positivamente) da band come i Dawes, per esempio, in cui si cerca un equilibrio difficile tra autorialità e mainstream. E così andate subito al fulcro del disco, una Slow Down che è puro radio-sound da easy-rock americano (a me ricorda per certi versi Missing You di John Waite come tipo di brano), e subito dopo però un episodio come Comedown che sì, il buon vecchio Petty, maestro d‘arte del fare cose elaborate facendole sembrare comprensibili anche al pubblico più distratto e meno esigente, avrebbe apprezzato.

Per contro, sebbene più della metà delle canzoni funzionino benissimo se ancora avete il viaggio in macchina come prova d’ascolto, resta poco coraggio nella parte strumentale, la band pare sempre un po’ impagliata e impettita nel suonare anche i brani più coinvolgenti, e qui ad esempio un confronto con la carica emotiva dei i JJ Grey & Mofro del recente Olustee sarebbe impietoso. In ogni caso Sirens, prodotto peraltro da Shooter Jennings, è un buon disco, che non vi farà strappare le mutande, ma alzare il volume ogni tanto sicuramente. Potremmo quasi definirlo la pietra fondatrice di una nuova forma di "Yacht Rock" nashvilliano (nota curiosa: a Nashville c’è uno dei più grandi Yacht Club degli Stati Uniti), termine che in alcune redazioni musicali fa venire orticarie e svariate nausee, ma anche qualche bel ricordo di disimpegnato buon country-rock da frequenze FM.

lunedì 20 gennaio 2025

De Francesco e Paolo Rig8

 

De Francesco – Cupio Invenire

Paolo Rig8 – Compost

Snowdonia - 2024

 

 

Sempre attiva nel coprire talenti, la Snowdonia ha presentato in questo finale del 2024 due artisti molto interessanti. Il primo è il bresciano De Francesco, già noto con il nickname MARIX, con cui ha inciso nel decennio scorso tre album improntati ad uno stile da cantautore indie. Ora usa il suo vero cognome (lui si chiama Mario) per un progetto molto interessante, composto da 10 canzoni ispirate da altrettanti romanzi più o meno celebri, un omaggio alle letture che lo hanno forgiato in tutti questi anni. Troviamo così titoli importanti come Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij ad ispirare l’amarissimo brano Rodja, Fight Club di Chuck Palahniuk dare vita ad una cinica canzone dallo stesso titolo (l’incipit poi direi che dice molto anche sullo spirito ironicamente pessimista dei suoi testi: “nell’ottica comune io dovrei sentirmi appagato perché il design svedese del mio appartamento è cool, nel mio armadio pax ho sei camicie tutte uguali”), o anche Dissipatio H.G. di Guido Morselli (altra fase indicativa anche nel brano omonimo: “ma non c’è più nessuno in questo giardino che dia un senso al tempo, su questa panchina mi resta l’attesa e in tasca le tue Gauloise”). Ma anche titoli meno celebri come Creatività di Philippe Petit (che ispira Sul Filo), o narrativa italiana più recente come Nella vasca del Führer di Serena Dandini o La signorina Crovato di Luciana Boccardi, e, forse anche un po’ provocatoriamente, anche un brano finale (Galline) ispirato da un “Uomo Qualunque di Facebook” promosso a letteratura moderna. Cupio Invenire (titolo traducibile come “Desidero scoprire”) è un bel disco cantautoriale, curato anche dal punto di vista degli arrangiamenti e del suono, con archi e fiati a contorno, come ad esempio il sax di Dario Acerboni in Acqua ai fiori (il cui riferimento letterario è Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin).

Ancora più dissacrante fin dalla copertina è Compost, settimo album di Paolo Rig8, disco che ha avuto un lungo iter produttivo per definire in dieci brani il punto della situazione di un neocinquantenne alle prese con un decadimento sia fisico, che motivazionale e morale. Il junk food della copertina (realizzata palesemente con l’intelligenza artificiale per aumentare il senso di grottesco della nostra modernità) rappresenta solo una delle tante tossine (descritte con precisione in Respiro e nella title-track) che l’esistenza ci propina per appesantirci nella seconda fase della nostra vita. Il tema è innanzitutto quello dell’artista indipendente che decide dii smettere di venire a compromessi, e se in Solo Se Mi Va decide di non partecipare alla questua di recensioni in cambio di una finta visibilità (“La medicina per l'autostima, in mezzo a tanti nomi, è comprarsi le recensioni che non legge nessuno, però i pareri son buoni, preferisco cantare per te che suonare per tre” canta), in Questa è l’Ultima ironizza sui concerti fatti in situazioni del tutto inadatte pur di poter avere una data da qualche parte (“Questa è l'ultima, lo sai, dopo mettono il D.J”). La reazione a tutto ciò può essere violenta (Spacca Tutto, che sembra un testo del Finardi della prima ora), o rassegnata, come quella dei pendolari raccontata in Binari. Il finale è ancora più amaro, con una Ancora in Tempo che descrive bene quella sensazione del cinquantenne odierno di essere troppo vecchio per poter ancora cambiare le cose, e troppo giovane per mollare davvero tutto (Too Old to Rock and Roll, Too Young to Die cantavano i Jethro Tull sullo stesso argomento), e una Ho Fatto un Dio che si porta avanti nel rispondersi se poi la religione possa aiutare o no in questi casi. Toni dark e atmosfere da new wave italiana anni ‘80 sono il bagaglio musicale di un disco completamente autoprodotto e suonato in veste di polistrumentista.

NICOLA GERVASINI

mercoledì 15 gennaio 2025

Bright Eyes

 

Bright Eyes
Five Dice, All Threes
[Dead Oceans/ Goodfellas 2024]

 Sulla rete: thisisbrighteyes.com

 File Under: di ritorni e riconferme


di Nicola Gervasini (01/10/2024)

Nella mia mente esiste un filo diretto e conduttore fra tre nomi come Conor Oberst (Bright Eyes), Colin Meloy (Decemberists) e Will Sheff (Okkervil River), artisti in verità con pochi contatti reali tra loro. Ma oltre alla piena contemporaneità della loro storia artistica, quello che ai miei occhi li accomuna è lo stesso medesimo approccio che hanno avuto verso il folk, o “indie-folk” si diceva ai tempi dei loro esordi di fine anni ‘90, visto che poi le loro rispettive band negli anni Zero hanno pubblicato i migliori dischi di un genere tutto loro in cui si univano alla perfezione tradizione e autorialità stramba e non categorizzabile.

Nel 2024 possiamo dire che Will Sheff dei tre è stato sicuramente il più continuo e coerente rispetto al suo credo musicale, Meloy invece, dopo aver sperimentato anche parecchio, si è poi trincerato coi suoi Decemberists in ua folk-rock più rassicurante e a colpo sicuro, con cui ha comunque pubblicato dischi più che notevoli (vedi il recente As It Ever Was, So It Will Be Again per esempio ). Conor Oberst, che forse dei tre era considerato l’enfant prodige, è quello che si è perso un po’, quello che non ha saputo tenere ben salde le briglie della propria straripante creatività. E paradossalmente quello che ha sacrificato di più la propria band, i Bright Eyes, a nome di una carriera solista, interessante quanto confusa, che di fatto non è mai decollata a dovere. E il fatto che molti suoi titoli solisti siano stati decisamente meglio dei due album usciti a nome Bright Eyes dal 2008 ad oggi (The People's Key nel 2011 e Down in the Weeds, Where the World Once Was 2020) fa capire come mai questo Five Dice, All Threes sia già stato ovunque salutato come una sorpresa, se non proprio addirittura un “ritorno”, nonostante siano passati solo quattro anni dal suo predecessore.

La ragione la potete capire anche solo al primo ascolto: Oberst qui si è concentrato a scrivere grandi canzoni, ben costruite e con testi ben studiati, e le ha prodotte ritornando a mettere il folk al centro, ma senza disdegnare tutto quanto ha sperimentato in questi anni, usato finalmente con criterio e senso della misura. Il risultato è che il disco è finalmente il mai arrivato seguito di Cassadaga, l’album con cui aveva abbracciato anche più che idealmente l’elaborato folk dei colleghi Meloy e Sheff, riuscendo peraltro benissimo nell’impresa.

La band, se così si può chiamare, è un trio di factotum che oltre a lui vede il grande guru della scena musical di Omaha Mike Mogis (ha lo studio di produzione più importante della città, e dalle sue produzioni sono partiti molti artisti della sua zona) e il fido pianista Nate Walcott. La lista degli ospiti e session-men è comunque lunga, ma ovviamente spiccano i contributi di Cat Power nella davvero splendida All Threes e Matt Berninger dei National in The Time I Have Left. Ma, a parte i credits colorati, il disco convince perché sa essere scanzonato (il toy-piano di Bas Jan Ader, una delle collaborazioni più convincenti con l’artista Alex Orange Drink, il fischio divertito di Bells and Whistles), riflessivo (Tiny Suicides pare quasi uno dei brani dei Pink Floyd più malinconici e acustici) o in vena di provare nuove soluzioni (il finale tex-mex dell’ottima El Capitan, questa si una canzone che Meloy gli ruberebbe volentieri).

Insomma, pur senza forse arrivare a giustificare la parola genio che qualcuno spese per Oberst agli inizi della sua carriera, Five Dice, All Threes ha tutta l’aria di essere quel punto fondamentale di recuperata affidabilità anche per il futuro.


Matteo Nativo

  Matteo Nativo Orione RadiciMusic Records File Under: Blues per un matrimonio Matteo Nativo è un virtuoso chitarrista toscano atti...