Già con Rosario i Sacri Cuori avevano accarezzato il concetto, ma Delone comincia davvero a portare i primi importanti risultati. Perché è un disco vario, di vedute aperte, forse fin troppo eclettico, ma i Sacri Cuori sono prima di tutto dei provocatori, nel senso buono del termine. L'ascolto di un loro disco infatti non finisce col tasto stop al termine dell'ultimo brano, anzi, si potrebbe dire che è lì che inizia, perché le mille idee disordinatamente sparse e spesso volutamente abbozzate che popolano questi brani sono lì per tutti, per il musicista che alla fine di Delone troverà ispirazione per una nuova canzone, e per noi che ascoltiamo e che scopriamo quanto anche la nostra infinita collezione di dischi di roots-music e classic-rock possa essere espressione di una visione musicale parziale. I paragoni con i Calexico sono finiti dunque, quelli vanno nella direzione di trovare non più il suono, ma la canzone perfetta (si ascolti il recente Edge Of The Sun), i Sacri Cuori continuano invece a cercare la base strumentale per il disco del futuro. Che non definiremo "roots" (radici) semplicemente perché qui siamo già oltre, alle prese con un genere che definirei "bud" (germoglio), in attesa che diventi un fiore vero e proprio (categoria "bloom"). L'elenco dei nobili collaboratori (Evan Lurie,Marc Ribot, Steve Shelley dei Sonic Youth, Howe Gelb) serve solo a sottolineare la visione globale della loro musica, così come l'utilizzo della suadente voce di Carla Lippis, italo/australiana che regala con La Danza (presente anche in differente versione in inglese) e una title-track in puro stile alla Lee Hazlewood/Nancy Sinatra i brani forti del disco. In mezzo a tante lingue (italiano, inglese, e pure francese in Seuls Ensemble) troverete i loro tipici strumentali che guardano alla commedia italiana (La Marabina, Dirsi Addio a Roma), al noir (El Comisario), al tex-mex (Bendingo), o a nuove forme di blues (Portami Via, Cagliostro Blues). Si ascolta (Billy Strange), e si balla (Madalena) la musica dei Sacri Cuori, ma soprattutto si pensa a dove potrà arrivare incontrando per strada nuovi compagni di un viaggio importante proprio perché privo di una meta fissa predefinita. |
mercoledì 30 dicembre 2015
SACRI CUORI
lunedì 28 dicembre 2015
KEITH
E proprio in quegli anni di guerre, litigi e dichiarazioni di eterna devozione al rock and roll contro le voglie di spaziare in altri mondi di Mick, era nato Talk is Cheap, il succo di tutto il suo discorso, bissato quattro anni dopo dall'ugualmente godibile Main Offender. Paradossale che solo 23 anni dopo arrivi il terzo capitolo, e ancor più significativo che Crosseyed Heartsuoni esattamente come i suoi due predecessori. Sarà forse perché la prima gestazione risale al periodo post Voodoo Lounge (1996), quando Keith accarezzò l'idea di un album interamente reggae (Love Overdue arriva da quelle sessions), o perché alla fine a suonare sono sempre i medesimi amici di un tempo (gli X-Pensive Winos, alias Steve Jordan, Waddy Wachtel, Ivan Neville, Sarah Dash e lo scomparso Bobby Keys), ma qui ritroviamo le stesse quattro idee di sempre: pezzi rock a iosa (Trouble, Heartstopper, Amnesia), un reggae, una folta manciata di quelle sue ballatone soffuse da gattone innamorato (Robben Blind, Suspicious, Just A Gift, Lover's Plea), un bluesaccio tanto per gradire (Blues in the Morning), un funkettone per ribadire la sua anima black (Substantial Damage), un duetto con Norah Jones tanto per avere un ospite (Illusion), la solita incursione nel country per permettere a noi giornalisti rock di ricordare la sua amicizia con Gram Parsons (il traditionalGoodnight Irene), e qualche pezzo "alla Stones" che fa solo pensare che "certo che se ci fosse Mick…" (Something For Nothing e la bella Nothing On Me). Il tutto a dimostrazione che il rock è fermo a 23 anni fa, nonostante qualche sparuta giovane leva provi ancora a ripartire da qui per andare avanti (ascoltate ad esempio i Titus Andronicus più recenti). Poi ora non pretendete che vi spieghi perché tutto ciò suoni ancora oggi come meraviglioso, o come può succedere che basta solo che lui muova anche un poco le sue corde per riconciliarmi con questo rock ormai stanco e sorpassato. Non ne ho idea, se non appellandomi alla mia età anagrafica (esisterà un under 30 che ascolterà Crosseyed Heart, se non perché l'ha comprato il padre?). Perché, a mente fredda, io so che Crosseyed Heart non è certo un capolavoro, ma è solo il nuovo disco di Keith Richards, ed è esattamente come tutti gli altri dischi di Keith Richards, ma, nonostante questo, io sono davvero contento che esista ancora Keith Richards. |
mercoledì 23 dicembre 2015
DANIEL MARTIN MOORE
Stavolta Daniel ha buttato a mare lo stile da busker tutto voce e chitarra del primo album, ed è volato in America a farsi produrre un disco da Jim James, il leader dei My Morning Jacket, unendo in uno studio di Louisville due mondi musicali apparentemente agli antipodi. Il risultato però è interessante: James dona corpo alle canzoni di Moore con i suoi arrangiamenti un po' barocchi, grazie ad una band dove spiccano il piano e le tastiere di Dan Dorff, Jr, vero mattatore del disco, e una timida sezione d'archi. Il dubbio e la discussione che andrebbe aperta non sta quindi nell'opportunità dell'ennesimo incontro tra mondo britannico e musica americana, e nemmeno nella capacità di Moore di scrivere brani intensi e adatti ad una qualsiasi giornata uggiosa della vostra vita (per quanto siano gli unici che pare capace di scrivere in maniera convincente), quanto nel chiedersi se poi il suo (come anche quello di Walker) non sia solo un gioco a perfezionare ciò che era già perfetto 45 anni fa. Non c'è nulla di male a pensarlo, Golden Age è un giocattolino pieno di deliziosi canzoni (come How It Fades, Lily Mozelle oAnyway) che ti scivolano addosso senza lasciare troppe tracce se non quel senso di malinconia che il disco vuole a tutti i costi comunicare, e alcuni episodi davvero riusciti (la full-band On Our Way Home e soprattutto lo splendido crescendo diProud As We Are) fanno pensare che forse accontentandosi un po' meno di aggiungere solo un briciolo di arrangiamenti in più (oltretutto forse fin troppo legati al marchio di fabbrica di Jim James), si poteva arrivare anche a qualcosa di meglio. Invece qui troppe volte ci si accontenta della suggestione di un piano o di archi messi al punto giusto (In Common Time), finendo solo a produrre un disco bello da sentire, ma che non si imprime nel cuore come vorrebbe. Forse gli manca il fuoco che ha animato il ben più riuscito ultimo disco di Ryley Walker, o forse la sua risposta l'aveva già trovata nel suo piccolo e timido folk degli esordi e non c'era bisogno di cercarla altrove. |
martedì 15 dicembre 2015
FABIO CERBONE - America 2.0
Chi ama la musica se bene cosa
vuol dire immaginarsi una canzone: c’è un testo, una storia, un suono e un
ritmo, e insieme creano un immaginario che per l’ascoltatore non è mai lo
stesso dell’autore. E quell’immaginario può essere visivo se da un brano nasce
l’idea di un film (pensate a Lupo Solitario di Sean Penn ad esempio, ispirato
da Highway Patrolman di Bruce
Springsteen), ma anche letterario, se dalle sensazioni create da una serie di
brani cardine per la musica americana Fabio Cerbone ha tratto ispirazione per
la raccolta di racconti America 2.0 -
Canzoni e Racconti di una grande illusione (Quarup). In puro stile alla Raymond Carver il
giornalista musicale prova a raccontare nuovamente la provincia americana,
tracciando, storia dopo storia e brano dopo brano (Springsteen ancora una volta
presente con Used Cars), una sorta di
nuova geografia delle miserie e contraddizioni di una nazione che, volenti o
nolenti, ha condizionato il mondo culturale del secolo scorso, ma che ora
fatica a trovare una nuova identità egemone. Il punto di partenza è sempre un
brano di alcuni grandi autori come Tom Petty, Tom Waits, Kris Kristofferson,
Townes Van Zandt, Dave Alvin, James McMurtry, John Hiatt, John Prine, Guy Clark
e Jerry Jeff Walker, ma l’arrivo sono vicende completamente nuove che, tra
citazioni musicofile e rimandi letterari colti, parlano di un’ America non più mitica
e sempre più lontana dal resto del mondo, vista da chi continua però a
sviscerarne con passione i mezzi espressivi.
Nicola Gervasini
mercoledì 25 novembre 2015
SACRI CUORI - DELONE
Sono un caso più unico che raro
in Italia i Sacri Cuori, band
emiliana che ruota intorno alla mente e alla chitarra di Antonio Gramentieri. La
loro è una storia nata nella nostra provincia, con un gruppo di amici con
l’orecchio teso ai suoni rurali americani, ma con il cuore ben piantato nella
tradizione italiana. Musicisti come anche il percussionista Diego Sapignoli o
il polistrumentista Francesco Giampaoli, che hanno voluto non solo imitare o
ricreare tradizioni lontane, ma provare a far progredire un genere che perfino
negli Stati Uniti è diventato pura nicchia. Delone (Glitterhouse) è
la prima vera importante pietra miliare di un percorso che dopo due album già
più che interessanti (Dauglas and Dawn
del 2009 e Rosario del 2012), è
passata anche attraverso l’azzeccata colonna sonora al film Zoran - Il mio nipote scemo di Matteo
Oleotto. Facile definire cinematografica la loro musica, spesso strumentale,
che qua e là incontra Morricone, ma anche incappa anche molto nel jazz italico,
se non addirittura in vaghe reminiscenze di liscio romagnolo. Ma Delone sta ottenendo riconoscimenti
ovunque nel mondo grazie ad una nuova poliedricità nata anche grazie alle tante
collaborazioni internazionali collezionate negli anni, con una ispirazione più
incline alla forma-canzone che trova sfogo nei brani cantati della straordinaria
vocalist italo-australiana Carla Lippis, che regala con La Danza (presente anche in differente versione in inglese) e una Delone in puro stile alla Nancy Sinatra,
i momenti più memorabili. Anche in questo caso le collaborazioni importanti non
mancano: qua e là aiutano il sassofonista dei Lounge Lizards Evan Lurie, il
chitarrista Marc Ribot (sentito spesso con Tom Waits e il nostro Vinicio
Capossela), Steve Shelley (batterista dei Sonic Youth), Howe Gelb dei Giant Sand, Hugo Race dei Bad
Seeds di Nick Cave, i messicani Sonido Gallo Negro e tanti amici italiani. Il
menu prevede finti temi di commedie mai realizzate (La Marabina, Dirsi Addio a Roma), noir mentali (El Comisario), inevitabili echi di
Sergio Leone (Bendingo), danze sfrenate
(Madalena) e nuove forme di blues (Portami Via, Cagliostro Blues). Tutte
colonne sonore di film che qualcuno dovrebbe prima o poi girare.
martedì 24 novembre 2015
MILK CARTON KIDS
The Milk Carton Kids
Monterey
(Anti,
2015)
File Under:
Ryan & Pattengale Over Troubled Water
In Musica non è mai facile raggiungere il perfetto connubio
tra forma e sostanza. La sostanza, leggi anche il songwriting, è facile che sia
personale e possa avere quel pizzico di originalità che chiunque abbia
necessità di esprimersi riesce in qualche modo a mostrare. Ma la forma è
l’aspetto sempre più difficile, perché crearne una nuova è frutto di un
rarissimo mix tra genio, personalità e studio. E così la storia della musica è
piena, direi pure colma, di gruppi come i Milk
Carton Kids, duo (Kenneth Pattengale e Joey Ryan i loro
nomi) proveniente dalla California, giunto ormai al quarto album. Monterey
è infatti uno di quei prodotti formali e formalmente perfetti, in cui il
modello del duo soft-folk acustico, che dagli ovvi riferimenti a Simon &
Garfunkel e Everly Brothers passa attraverso la lezione poppish degli America
per arrivare ai Lumineers e al nuovo easy-folk revival, viene assunto a unico
obiettivo finale. E’ difficile trovare difetti ai loro intrecci di chitarre
acustiche, o riscontrare smagliature negli impasti vocali che suonano a lungo
provati (esercitatevi ad improvvisare anche un brano semplice semplice come Getaway, non ci riuscirete se non dopo
molte prove). Impossibile non ritrovare sapore di ascolti antichi in una
apertura come Asheville Skies, nel
pigro incedere della title-track, per cui Paul Simon potrebbe chiedere
partecipazione al copyright a prescindere dal numero di battute uguali ad uno qualsiasi
dei suoi brani. E qui sta un po’ il bello e il brutto dei Milk Carton Kids, e
cioè che sono i nuovi capostipiti di una corrente puramente estetica ed
estetizzante del roots di questi anni dieci, dove la forma è tutto, e oltretutto
serve solo a rinnovare una tradizione che i giovani sembravano aver perso (anche
se poi il successo dei Lumineers ha dimostrato che a volte è solo questione del
pezzo giusto al momento giusto e non di sonorità il vincere la guerra della
rete in numero di ascolti e download). A noi però resta un disco piacevole
quanto impalpabile, perché la sostanza manca di quel grado di personalità che
li faccia elevare tra la folla, perché in tutto il disco non c’è un solo
momento in cui si prova ad uscire da uno schema, nessuna piccola auto-violenza,
nemmeno qualche piccolo atteggiamento da indie moderno per cui si possa
presentarli come i nuovi Kings Of Convenience. C’è solo la pura forma di brani
perfettini come Freedom (che rimanda
ad America di Simon), qualche occhiatina a Nashville (High Hopes), ma nulla di più. Se è di forma che avete bisogno,
allora Monterey è il disco per voi: è
ineccepibile e inattaccabile. Se invece ancora credete nella sostanza, sappiate
che arriverete alla fine dei 37 minuti riscoprendo il significato di noia e
banalità. A voi la scelta.
Nicola Gervasini
lunedì 23 novembre 2015
RON SEXSMITH - Carousel One
Ron Sexsmith
Carousel One
(Compass
Records, 2015)
File Under:
Tim Hardin followers
Il vantaggio di seguire la
carriera di Ron Sexsmith è che non c’è grande pericolo di perdersi qualche
puntata fondamentale. Fin dal suo bell’esordio datato 1995, il buon Ron ha
sfornato titoli con regolarità, non offrendo mai niente di molto diverso dal
suo standard iniziale. Si tratta quindi di decidere se vedere il bicchiere
mezzo pieno (in fondo nessuno dei suoi album può essere classificato come
brutto, anzi…) o il bicchiere mezzo vuoto (di fatto l’uomo sembra riscrivere la
stessa canzone da vent’anni). Carousel One, quattordicesimo
capitolo della sua saga, non cambia la sua storia, anche se la produzione
dell’esperto Jim Scott (Foo Fighters
e Wilco tra i suoi clienti) pare dare qualcosa in più rispetto agli ultimi
capitoli. Ron poi in fase di scrittura non si risparmia mai, e anche questa
volta offre un menu di ben sedici 2-3-minute
songs concentrate in 51 minuti, in cui non è mai semplice isolare quanto
davvero vale la pena. Perché poi ancora una volta il punto è sempre quello:
Sexsmith sa scrivere, sa cantare, sa anche ogni tanto provare a uscire dal
seminato della sua solita slow-song melliflua (Getaway Car), ma alla fine non sa mai andare oltre il suo stile.
Incapace di violentarsi stilisticamente, il nostro trova qui abbastanza lampi
di ottimo songwriting per giustificare l’acquisto anche di questo nuovo album,
ma non sufficienti motivi per considerare i suoi dischi dei punti di
riferimento nel 2015. Eppure in fondo gli va storicamente riconosciuto il
merito di aver anticipato molto di quello che sarà la canzone d’autore degli
anni 2000, con palesi influenze sia in ambito roots che in ambito indie-folk.
Eppure se Saint Bernard, Lucky Penny o Lord knows portano nuove gemme al suo
già ben nutrito songbook, il complesso ancora una volta lo vede adagiarsi sul
suo tran-tran espressivo con brani di
ordinaria medietà come Sun’s Coming Out
o All Our Tomorrows. Poco male, in
qualche modo siete già avvertiti sul contenuto ancora prima di ascoltarlo, e
magari poi dalla sensibilità di ognuno dipenderà se vi innamorerete o no del country
suadente di Loving You, della
spensierata Before The Light Is Gone o
di numeri alla Tim Hardin come No One,
alla Elvis Costello come Many Times o
del giro di piano alla Roy Bittan di Can’t
Get My Act Together. Nel finale poi trovate anche la cover che aggiunge
sale alla zuppa, con una bella resa di Is
Anybody Goin' to San Antone (brano reso da famoso da Charlie Pride, ma la
versione di Sexsmith guarda naturalmente a quella di Doug Sahm). Per cui
suonala ancora Ron, noi sapremo già cosa aspettarci.
Nicola Gervasini
lunedì 16 novembre 2015
DAWES
Sono almeno sei anni che ci
provano, e forse ora anche per i losangelini Dawes è giunto il momento del salto di qualità. Il trono dei
paladini dell’Americana che fu, lasciato un po’ vacante dai Jayhawks dopo i
fasti degli anni novanta, potrebbe davvero essere loro se è vero che All
Your Favourite Bands (Hub
records), loro quarto album, li scopre maturi e finalmente convincenti,
dopo tante promesse tradite da un terzo album opaco. Nati come convinti fautori
di un ritorno al West Coast sound alla Jackson Browne (in questo caso To Be Completely Honest lo omaggia apertamente),
con questo album la band di Taylor Goldsmith aggiunge una elettricità alla Neil
Young al loro solito mix di impasti vocali e melodie aperte, in un gioco che
resta derivativo (ma d’altronde anche il titolo dell’album gioca
sull’argomento), ma che almeno trova canzoni di gran livello (Somewhere Along The Way su tutte) e
suoni ottimamente prodotti dall’esperto Dave Rawlings. Anche se trovano un
gusto dell’improvvisazione in studio del tutto nuovo per loro (i nove minuti di
Now That’s It’s Too Late, Maria), Il loro sound malinconico resta
pulito, potremmo quasi dire radiofonico. Come se gli riuscisse il miracolo di
imitare gli Eagles suonando comunque moderni e non troppo costruiti a tavolino.
Il futuro del genere era ieri forse, ma il presente trova con i Dawes nuovi
interpreti degni della tradizione.
Nicola Gervasini
JESSE MALIN - New York Before The War
Non ha più tanto quella certa aria da pusher di
strada Jesse Malin, ma gli anni
passano anche per i rocker più indomiti, e così anche lui. come un novello Lou
Reed, arriva a produrre il suo ragionato affresco della sua città. New
York Before The War (Little Indian) è il settimo album di questo
artista che negli anni 90 giocava a fare il punk con i D Generation, mentre
negli anni 2000 ha avuto una encomiabile carriera solista sponsorizzata da Ryan
Adams e Bruce Springsteen, con i quali condividi sensibilità d’autore (basta
sentire qui alcune ballate romantiche come Oh
Sheena) e poetica da riscatto del perdente di strada. Le sue strade però
sono quelle della grande mela, dove nasce questa summa del suo percorso
artistico, che ai tempi dello splendido Glitter
in the Gutter
del 2007 era anche andato vicino ad un certo successo. Ci sono piano-ballad
melodrammatiche (The Dreamers), ballatone in odore di REM (She’s so
Dangerous, ma Peter Buck si aggira nelle session), stilettate a suon di chitarre
secondo la vecchia lezione dei Replacements (Turn Up The Mains),
folks-songs (The Year That I Was Born) e quei flirt con il power-pop
danzereccio alla Blur di Boots Of Immigration e Death Star. La
rabbia giovanile è divenuta la saggia arguzia del buon osservatore, e così
Jesse Malin si appresta a diventare l’ultimo dei poeti di strada di New York, una
città che ha già avuto la sua terza guerra mondiale
Nicola Gervasini
venerdì 13 novembre 2015
CALEXICO - Edge Of The Sun
Quando si diventa un punto di
riferimento o un paragone obbligato è segno che si è già lasciato un’impronta
pesante nella storia, e ai Calexico non si può certo negare il pieno
raggiungimento di questo traguardo. Ma per Joey Burns, John Convertino e soci
sembrava davvero giunto il momento di smettere di guardare ad un passato che ha
prodotto dischi importanti e molto influenti come The Black Light (1998) e Hot
Rail (2000), ma che negli ultimi anni stava dando l’impressione di avere il
fiato corto. Edge Of The Sun (Anti) si
annuncia dunque come un disco di svolta, e non piacerà a tutti, se è vero che
la band ha deciso di abbandonare il largo uso di suggestivi strumentali da
colonna sonora (qui ci sono solo i tre minuti di Coyoacan) a favore di una serie di canzoni brevi, orecchiabili e
ben definite. Scelta che si può discutere quella di rinunciare al lato più
sperimentale e caratteristico del loro suono, ma è innegabile che il duo ha
avuto la capacità di mettersi in discussione, calandosi nel ruolo da cantautori
(When The Angels Played, Follow The River),
e lasciandosi soprattutto trascinare dalle emozioni dei molti ospiti in studio.
L’influenza più evidente è quella di Sam Beam, alias Iron& Wine, che impone
il suo ego in molti episodi (Tapping On
The Line, World Undone), mentre
tra i collaboratori si segnalano anche Neko Case, Nick Urata (Devotchka) e
Carla Morrison. Edge Of The Sun diventa così una piccola enciclopedia
dell’indie-rock più roots-oriented di questi ultimi 15 anni, in cui il marchio
di fabbrica Calexico (i fiati mariachi di Falling
From The Sky o l’escursione nel tex-mex del singolo Cumbia de Donde) finisce annegato in un tripudio di melodie accattivanti
(Miles From The Sea), sovra-arrangiamenti
(Bullets & Rockets) e timidi interventi
di elettronica. Se li scopriste con questo album non avreste mai l’idea di cosa
intende la frase “un sound alla Calexico” sparsa in mille recensioni di musica
americana di questi anni, ma potreste anche innamorarvi al primo ascolto di un
disco che sembra nato apposta per la veloce e frammentaria fruizione in
streaming. In fondo, se bisogna adattarsi alla modernità, meglio farlo al
meglio come han saputo farlo loro.
Nicola Gervasini
giovedì 12 novembre 2015
BROTHERS KEEPER
In fondo è consolante se ogni tanto in America a qualcuno viene ancora voglia di mettere in piedi una band (o una nuova Band diremmo) dedita alla più classica forma di roots-music. Le speranze di dire qualcosa di nuovo, o di scrivere nuove importanti pagine del genere, sono forse pari allo zero, ma la probabilità di poter produrre ancora della buona Americana sono molto alte, quando nei paraggi si aggira un nostro vecchio conoscente come Jono Manson. I Brothers Keeper sono un trio formato da veterani e session-men di genere come Scott Rednor (voce, chitarre), e la sezione ritmica di Michael Jude e John Michael, per quindici anni utilizzata dal celebre John Oates per le sue sortite soliste. Todd Meadows è il loro primo album, e per certi versi ricorda molto i dischi degli US Rails e di altri combo di validi cultori delle radici musicale statunitensi.
Undici brani scritti dalla band con l'ausilio del citato Jono Manson (anche produttore) e l'armonicista John Popper dei Blues Traveler (vero sponsor-man dell'operazione), e due cover finali che servono solo a ribadire gli ovvi debiti di ispirazione, vale a dire una The Weight della Band forse anche fin troppo riverente e rispettosa, e una più interessante resa di I'll Be Your Baby Tonight di mastro Dylan. Due chicche sempre piacevoli (esiste forse un momento della nostra vita in cui potremmo non avere voglia di riascoltare The Weight, in qualunque versione essa sia?) che potevano anche rimanere relegate alle serate dal vivo, perché in fondo il disco camminava con le proprie gambe anche senza. La storia del fuggiasco per amore di Chamberlain (brano decisamente in stile primi Counting Crows), la malinconia della lontananza decantata in If Only For A While, i duelli chitarra-armonica di Days Go By (qui siamo in pieno territorio Blues Traveler), fino ad arrivare all'elegante southern-blues in stile Gregg Allman di Cold Rain (con un curioso duetto armonica - scratch da rapper nel finale).
E ancora l'alt-country di Why Do You Fall, il bar-boogie muscolare di Nothing To Do, un brano affidato a Jono Manson anche alla voce (Bring The Man Down), a riprova del clima da suonata tra amici del disco (anche se forse, in amicizia, sarebbe stato meglio contenere i sempre un po' troppo invadenti interventi dell'armonica di Popper). Cantata collettiva finale in West Coast style con Still Missing You, e tempo ancora per una ospitata per la fisarmonica di Joel Guzman in Along The Way, prima delle cover di cui abbiamo già detto. Consigliato, ma siete avvertiti: sarà come entrare al bar e chiedere "il solito grazie" ed uscirne felici.
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lunedì 9 novembre 2015
CESARE BASILE
Le ultime notizie su Cesare
Basile e sulla sua indole da indipendente erano quelle di un clamoroso rifiuto dell’ambita Targa del Premio
Tenco, sorta di Sacro Graal della musica d’autore italiana, in segno di
protesta per le politiche vessatorie della SIAE. Lo aveva vinto nel 2013 grazie
ad un disco impermeato da liriche in siciliano, un definitivo ritorno alle
origini dopo un percorso artistico che dall’alternative-rock anglofono degli
esordi con i Candida Lilith e i Quartered Shadows, lo aveva portato a sposare
una formula tutta personale che ha prodotto tanti ottimi dischi (anche per
altri artisti, vedasi la bella collaborazione con Nada). Tu prenditi l'amore che vuoi e
non chiederlo più (Urtovox/Audioglobe) è il più classico degli album in
cui l’artista di turno tira le somme di una carriera, mischiando sapori e
storie nere regionali in lingua (Araziu
Stranu, A Muscatedda) a testi d’autore (Filastrocca
di Jacob Detto il Ladro). A volte
sembra una versione sudista di un disco di Vinicio Capossela (Franchina), ma alla fine è al De André
di Nuvole o Anime Salve che brani come la title-track (che assomiglia a La Domenica delle Salme) o La Vostra Misera Cambiale guardano
maggiormente. Lo aiutano alcuni vecchi amici come Manuel Agnelli, Rodrigo
D’Erasmo o la bella voce di Simona Norato per un album, a tratti (splendido il
blues-siculo di Ciuri), davvero di
altissimo livello.
Nicola Gervasini
venerdì 6 novembre 2015
Mumford & Sons
Non è ancora ben chiaro se i Mumford & Sons siano
dei miracolati del “disco giusto al momento giusto” o se davvero possano
rappresentare una delle realtà guida di una certa musica folk-oriented degli
anni duemila, e di certo con il loro terzo album Wilder Mind (Island) la discussione sarà ancora più aperta. Eletti
paladini del movimento indie-folk britannico nel 2009 con l’album Sigh No More, straordinario quanto
inaspettato successo (più di un milione di copie vendute per un disco nato
indipendente) che ha ridato vita ad un mercato discografico che da sotterraneo
stava diventando sotterrato, la band di Marcus Mumford non aveva bissato con lo
stanco Babel del 2012. Arriva così la
più classica delle clamorose svolte stilistiche operata da una band con il
fiato corto a causa delle troppe aspettative. Potevano rimanere nella loro
pigra e piccola dimensione folk e non avrebbero fatto male a nessuno, invece
loro si lanciano in una rivoluzione elettrica coraggiosa quanto stordente.
Difficile non discutere davanti ad un brano come Believe, che sembra più adatto al repertorio da grandeur-rock dei
Muse che a quello di una band nata come espressione dei buskers di strada, ma fate
attenzione, perché in mezzo a tanta sovrapproduzione radiofonica troverete
anche tracce di un talento (la bella Tompkins
Square Park) che indica che questo pasticcio potrebbe essere un work in
progress verso uno stile tutto loro.
Nicola Gervasini
martedì 3 novembre 2015
BIG STAR
BIG STAR
SOUTH WEST
Nova
***
Bisogna fare attenzione al feticismo rock. Chi scrive è, esattamente
come voi, un assetato di chicche e rarità di ogni grande artista del passato, e
sicuramente, tra ristampe e cofanetti, abbiamo tutti avuto tempo di renderci
conto di quanti tesori siano rimati nascosti nel tempo a causa dei crudeli
meccanismi delle case discografiche. Ma, detto che forse ormai si è raschiato
tutto quello che c’era da raschiare, c’è sempre da fare una distinzione tra ciò
che sarebbe stato un sacrilegio lasciare negli archivi, e ciò che invece
rappresenta sì un valido documento di un’epoca, ma che forse può essere meno
interessante come prodotto discografico in sé. Nel caso dei Big Star il box della Rhino Keep
An Eye On The Sky del 2009 apparteneva sicuramente alla prima
categoria, mentre South West, registrazione di un broadcast radiofonico del gennaio
del 1975, appartiene senza dubbio al secondo caso. L’interesse storico di
questi 34 minuti piuttosto sgangherati (e anche non proprio perfettamente registrati)
è però alto, perché la registrazione coglie un allucinato Alex Chilton nel
pieno del proprio delirio autodistruttivo, intento a presentare l’album
Third (registrato nel 1974, ma in verità pubblicato solo nel 1978 per
mancanza di labels interessate al titolo) eseguendo in veste acustica canzoni
nuove che non faranno parte dell’album (e che verranno recuperate solo anni
dopo nei suoi dischi solisti), una serie di cover più o meno nelle sue corde (la
sua Femme Fatale di Lou Reed era già
nota, più curiosa invece la stonatissima versione di I will Always Love You di Dolly Parton), e versioni di Oh Dana, Jesus Christ o Death Cab For Cutie che certo non
lasciano presagire che un giorno questi brani sarebbero diventati dei classici che
avrebbero fatto scuola per ogni band sotterranea degli anni 80 e oltre. Quasi a
sottolineare lo sberleffo al proprio talento, finale con una The Letter che serve solo a far capire
perché il suo meritato posto nell’olimpo rock è stato poi occupato da artisti
sicuramente meno talentuosi, ma forse un po’ più furbi e capaci nello sfruttare
il proprio successo. South West è dunque un cd per fan e
storici del rock, ma purtroppo fallisce nel soddisfare la voglia di avere per
le mani quel grande live che una band come i Big Star avrebbero meritato nei
loro anni d’oro. E’ però un disco che coglie in pieno lo spirito di Chilton, un
uomo che nel momento di cogliere il successo ha preferito camminare sul lato
selvaggio seguendo cattivi maestri con esecuzioni sofferte e strascicate come
queste (che tanto fanno venire in mente certi dischi di Vic Chesnutt), e che
solo vent’anni dopo diverranno la regola di tutto l’indie-folk moderno.
lunedì 26 ottobre 2015
LANGHORNE SLIM
LANGHORNE SLIM
THE SPIRIT MOVES
Dualtone
***1/2
Strano destino quello di Sean
Scolnick, alias Langhorne Slim:
salutato agli esordi come una vera nuova promessa della canzone folk, grazie ad
un album (When the Sun's Gone Down
del 2005) che resta un piccolo classico della musica indie degli anni zero, dieci
anni dopo sembra essere un po’ dimenticato dai più. Colpa di due album (Langhorne Slim del 2008 e Be Set Free del 2009) che hanno fallito
nel consolidarne la fama, e anzi, per molti erano suonati un po’ come una
delusione (ma sarebbe il caso di riascoltarli bene), e forse colpa anche del
suo essere personaggio schivo e non certo attento a seguire l’onda del nuovo
folk. Lui però non si è perso d’animo, e già con The Way We Move del 2012 aveva dimostrato che la sua coerenza stilistica
non era necessariamente da scambiarsi per mancanza d’idee. L’ironia della sorte
è quindi quella di star maturando come autore e artista proprio quando le luci
della ribalta non lo illuminano più, e sono rimasti in pochi ad aspettare il
suo nuovo disco come quello che salverà una stagione discografica. Non che The
Spirit Moves sia l’album che risveglierà il 2015 del mondo indie-folk da
un certo torpore, ma, tra i sopravvissuti al decennio scorso, pochi possono
ancora oggi vantare di scrivere ballate come l’acustica Changes o maneggiare a dovere un duello con un’intera sezione
d’archi come quello di Whsiperin’,
brano degno del giovane Bill Fay. Sebbene non ci siano fuochi d’artificio, non
c’è nulla in questi dodici brani (per 37 minuti) che sia fuori tema. Eppure di
certo Langhorne Slim non ama andare sul sicuro, azzarda anche pop-song tutto
fiati e coretti come Strangers e ne
esce comunque a testa alta, soul-ballad improbabili solo in apparenza come Life’s A Bell, sgangherati blues (Bring You My Love) che esaltano il
wurlitzer di David Moore (tastierista, ma curiosamente anche autore del disegno
di copertina) e una sezione di voci e fiati in puro stile New Orleans. Ma è
proprio quando fa le cose più semplici, come nell’ottima Airplane o nel finale di Meet
Again, brani sospesi un po’ tra Dylan e Will Oldham, che Slim dimostra di
saperci davvero fare come folksinger. The
Spirit Moves in un certo senso conferma i suoi pregi (ottenere molto con
poco) e difetti (gli manca comunque sempre la zampata vincente), grazie ad una
produzione attenta (a cura dell’amico e anche co-autore Kenny Siegal) e a brani brevi e diretti come Southern Bells. Bisognerebbe forse ricordarsi di lui più spesso
quando si saluta con facilità l’ennesimo nuovo folksinger indipendente, potremmo
scoprire che in fondo già avevamo trovato quello che ancora cerchiamo.
Nicola
Gervasini
lunedì 12 ottobre 2015
TITUS WOLFE
TITUS WOLFE
HO-HO-KUS N.J.
Score and
More Music
***1/2
Con un nome
d’arte che sarebbe piaciuto molto a Tom Waits per uno dei tanti nighthawks che
popolano le sue canzoni, il tedesco Titus
Wolfe è il classico fan che si fa protagonista dopo anni di gavetta nei
club di Francoforte. Titolare di una poco conosciuta discografia locale, Wolfe
prova ad uscire dai suoi confini con un album nato come omaggio ad uno dei suoi
padri spirituali, Willy DeVille. Storia vuole che Wolfe abbia mandato una sua
versione di Heaven Stood Still che
potrebbe essere quello che ne verrebbe fuori dando la canzone in mano ad un Greg
Brown (molto simili le voci in alcuni momenti) a David Keyes, bassista di Deville. Convinto dalla bellezza della
versione, Keyes ha organizzato per Wolfe una session nel New Jersey (da qui lo
strano titolo del disco) con alcuni amici e professionisti di genere (spicca su
tutti Kenny Margolis alle tastiere),
per un album che racchiude le migliori composizioni di Wolfe e due cover in
omaggio a Deville (oltre a Heaven Stood
Still, anche Angels Don’t Lie,
struggente ballata ripescata da Loup Garoup). L’album ha una partenza
particolarmente triste e ispirata con le notevoli Your Name in The Clouds e Too
Far Gone, perfette per esaltare il suo vocione roco e basso, ed è solo con Guru For A Dime (qui Margolis si esalta
con il Wurlitzer) che si trova un po’ di ritmo. Da qui si procede su buoni
livelli, per quanto sia evidente che Wolfe non sia interessato a dimostrare
particolare originalità e innovazione nelle soluzioni. Where Roses Grow, A Trip Nowhere (che sembra una ballata dello
Springsteen epoca Devils And Dust), Calling
Your Name o la soffice The Trouble
You Must Have Seen si susseguono tra sussurri e una particolare attenzione
ai suoni caldi e riverberati, evidenziando un autore comunque capace e un
interprete di livello. Esame di maturità dunque superato per Wolfe, uno dei
tanti che vede l’omaggio come punto di partenza per la propria arte, anche quando
potrebbe farne a meno, come quando affronta l’abusatissima Willin’ dei Little Feat facendosi aiutare alla voce da Joe Lynn Turner, ex vocalist dei
Rainbow e dei Deep Purple (Mark 5), uscendone degnamente, ma non aggiungendo
poi niente che già i suoi brani non fossero in grado di dire. Consigliato per
Deville-lovers e amanti della buona canzone roots.
Nicola
Gervasini
giovedì 1 ottobre 2015
DAN WALSH
Dan Walsh
Incidents and Accidents
(Dan Walsh,
2015)
File Under:
Banjo on my Knee
Abbiamo incontrato Dan
Walsh solo nelle vesti di chitarrista (per Romi Mayes) e produttore (per
Brock Zeman), ma affrontiamo per la prima volta un suo lavoro solista.
Banjoista di altissimo livello e adepto di una roots-music vecchio stampo,
Walsh è inglese, e con questo Incidents And Accidents sta
ottenendo critiche positive soprattutto dalla stampa britannica, che già aveva
spinto non poco il precedente Same But
Different. Suonato con l’ausilio del violino di Patsy Reid e il mandolino
di Nic Zuappardi (bandita la sezione ritmica invece…) , l’album è un piccolo
manuale di musica rurale, eseguita con rigore anche negli strumentali (The Tune Set) e nei brani più autoriali
(The Missing Light). Si potrebbe fare
il paragone con gli album di William Elliott Whitmore, ma a Walsh manca una
voce così caratterizzante, e soprattutto sembra essere meno interessato ad
avventurarsi fuori da schemi predefiniti. Il disco è comunque piacevole e
interessante, anche se pare difficile condividere l’entusiasmo d’oltremanica se
non constatando come sempre più le posizioni estreme e meno volte ad un futuro
(incerto e forse inesistente per quanto riguarda questo tipo di musica, ma vale
davvero la pena smettere di cercarlo?) ottengano i consensi di critica più
sperticati. In ogni caso dategli un ascolto e non avrete comunque perso tempo.
Nicola Gervasini
lunedì 27 luglio 2015
BROWN BIRD
BROWN BIRD
AXIS MUNDI
Supply
& Demand
***
Nel cantautorato di marca
folk/roots due sono le vie oggigiorno: o seguire la linea di songwriting
classica del rock americano da Dylan in giù, oppure assumere un atteggiamento
più dimesso, “indie” si dice ormai da almeno vent’anni, decisamente più
“british” nel suo essere solo apparentemente fuori dagli schemi. Perché poi ad
uno schema risponde anche l’arte dei Brown Bird, duo indie-folk formato
da David
Lamb (barba d’ordinanza, voce alla Sam Beam, aria timido-depressa come
da manuale) e la bassista/violoncellista/violinista MorganEve Swain (bellezza
dimessa, non volgare, nascosta…sempre come da manuale). Duo attivo fin dal 2007
con una disordinata discografia tra ep e album interi (anche questo aspetto
risponde ad un preciso canovaccio alla Will Oldham e compari), pubblicano con
questo Axis Mundi la loro opera
finale, visto che Lamb si è spento alla fine dello scorso anno per una leucemia,
lasciando alla Swain la difficile decisione su come continuare la carriera. Un
po’ come è stato The Wind di Warren
Zevon, Axis Mundi è dunque un disco
registrato da un artista conscio di eseguire il proprio canto del cigno, e
questo lo rende già emotivamente pregnante e significativo. Ma la fretta di
chiuderlo (o forse, visto quanto molti di questi brani suonino abbozzati, non è
in verità stato finito) ha forse portato a pubblicare un’opera interessante
quanto contraddittoria. I riferimenti più evidenti, oltre a quelli citati dei
mostri dell’indie-folk dell’ultimo ventennio, potrebbe comprendere anche Syd
Barrett (quanti Pink Floyd si sentono in Forest
and Fevers?), vuoi anche per quell’amore dell’arrangiamento scarno e
zoppicante che molti brani mantengono. I due di fatto hanno fatto tutto da soli
in casa, senza altri session-man, ed è un peccato forse, perché qua e là in una
scaletta di ben quindici titoli si ravvisano non pochi embrioni di ottime
canzoni (Focus, Adolescence, Ephrain).
Ma in mezzo troviamo anche troppe idee già note e sentite meglio sviluppate da
altri (Iron & Wine su tutti qui direi), e quell’aria di disco casalingo che
forse è ora di lasciarsi un po’ alle spalle, dopo che tanto ha contribuito a salvare
la musica folk nei tempi di crisi dei primi anni duemila. Non c’era tempo
probabilmente, o Lamb invece davvero cercava il proprio Pink Moon prima di lasciarci, in ogni caso questo testamento lascia
una eredità monca, e la morte del protagonista ha impedito che la sigla Brown
Bird potesse maturare in qualcosa di veramente importante per i prossimi anni.
Peccato, in ogni caso.
Nicola Gervasini
mercoledì 22 luglio 2015
SAM LEWIS
SAM LEWIS
WAITING ON YOU
Brash Music
***1/2
Il suo nome è un po’ ordinario e sarà difficile tenerlo a mente o distinguerlo (banalmente, anche ricercare informazioni nel web appare impresa alquanto difficoltosa visti i tanti casi di omonimia in cui si incappa), ma Sam Lewis, musicista attivo da anni a Nashville al secondo album solista in carriera dopo il debutto omonimo del 2012, è uno da cominciare a tenere d’occhio. Nulla di nuovo: il suo è un mix di voce da cantautore roots classico (molto simile a quella di Amos Lee direi), un approccio alla roots-music pieno di ritmi (il gospel caraibico dell’iniziale ¾ Time ricorda il miglior Brett Dennen) e molto soul nella musica (Love Me Again potrebbe essere una ballata di Van Morrison). Registrato a Nashville con qualche nome noto in session (Darrell Scott, Will Kimborough, la Wood Family ai cori), Waiting On You è il classico album senza sbavature, che scorre senza intoppi da capo a fine, con una serie di brani in stile tradizionale ben scritti e ancora più finemente arrangiati. Lewis è un amante delle ballate romantiche e intense, siano esse di marca black/soul (la title-track) o anche country (She’s a Friend, materia che un Willie Nelson in versione malinconica troverebbe irresistibile). Ma il menu offre anche momenti di svago, come la lunga cavalcata dylaniana di Things Will Never Be The Same, divertissement che introduce alla bellissima Talk To Me, sospesa a metà tra il Ray Lamontagne più ispirato e l’innegabile peso della lezione di Van Morrison. Reinventing The Blues è invece un episodio più ordinario, canzonetta in dodici battute che serve ad alleggerire i toni di un album emotivamente molto intenso, prima di arrivare al gospel-country di Never Again (inconfondibile qui il tocco di Darrell Scott), ad una Texas che ha antichi sapori da outlaw-country degli anni settanta, così come Little Time sembra un brano di Jesse Winchester. Finale importante con l’acustica Virginia Avenue, tripudio di dobro e slide per una malinconica ballata di pregevole fattura, ma apoteosi finale con la corale I’m Coming Home, davvero riuscito finale che potrebbe richiamare mille nomi (mi torna in mente il primissimo Kris Kristofferson o John Prine anche), ma che alla fine evidenzia come, seppur nel suo stile per nulla originale, Sam Lewis è uno che ci sa fare. Non aspettatevi rivoluzioni, quanto piacevoli e sempre ben accolte conferme.
WAITING ON YOU
Brash Music
***1/2
Il suo nome è un po’ ordinario e sarà difficile tenerlo a mente o distinguerlo (banalmente, anche ricercare informazioni nel web appare impresa alquanto difficoltosa visti i tanti casi di omonimia in cui si incappa), ma Sam Lewis, musicista attivo da anni a Nashville al secondo album solista in carriera dopo il debutto omonimo del 2012, è uno da cominciare a tenere d’occhio. Nulla di nuovo: il suo è un mix di voce da cantautore roots classico (molto simile a quella di Amos Lee direi), un approccio alla roots-music pieno di ritmi (il gospel caraibico dell’iniziale ¾ Time ricorda il miglior Brett Dennen) e molto soul nella musica (Love Me Again potrebbe essere una ballata di Van Morrison). Registrato a Nashville con qualche nome noto in session (Darrell Scott, Will Kimborough, la Wood Family ai cori), Waiting On You è il classico album senza sbavature, che scorre senza intoppi da capo a fine, con una serie di brani in stile tradizionale ben scritti e ancora più finemente arrangiati. Lewis è un amante delle ballate romantiche e intense, siano esse di marca black/soul (la title-track) o anche country (She’s a Friend, materia che un Willie Nelson in versione malinconica troverebbe irresistibile). Ma il menu offre anche momenti di svago, come la lunga cavalcata dylaniana di Things Will Never Be The Same, divertissement che introduce alla bellissima Talk To Me, sospesa a metà tra il Ray Lamontagne più ispirato e l’innegabile peso della lezione di Van Morrison. Reinventing The Blues è invece un episodio più ordinario, canzonetta in dodici battute che serve ad alleggerire i toni di un album emotivamente molto intenso, prima di arrivare al gospel-country di Never Again (inconfondibile qui il tocco di Darrell Scott), ad una Texas che ha antichi sapori da outlaw-country degli anni settanta, così come Little Time sembra un brano di Jesse Winchester. Finale importante con l’acustica Virginia Avenue, tripudio di dobro e slide per una malinconica ballata di pregevole fattura, ma apoteosi finale con la corale I’m Coming Home, davvero riuscito finale che potrebbe richiamare mille nomi (mi torna in mente il primissimo Kris Kristofferson o John Prine anche), ma che alla fine evidenzia come, seppur nel suo stile per nulla originale, Sam Lewis è uno che ci sa fare. Non aspettatevi rivoluzioni, quanto piacevoli e sempre ben accolte conferme.
lunedì 6 luglio 2015
SUGARCANE JANE
SUGARCANE JANE
DIRT ROAD’S END
ArenA
recordings
***
Non muore mai l’abitudine del duo di coniugi folk nella
tradizione americana, e così non è certo nuova la formula dei Sugarcane
Jane, coppia di musicisti che si presenta romanticamente mano nella
mano fin dalla copertina di questo Dirt Road’s End. Lui è Anthony
Crawford, session man che i fans di Neil Young ricorderanno come membro
degli Shocking Pinks (con cui Young ha registrato Everybody’s Rockin’) e negli International Harvesters (la band che
lo spalleggiò nel tour per Old Ways,
apprezzabili nel bel live A Treasure
uscito nel 2011), oltre che collaboratore di Dwight Yoakam (grazie al quale ha
pubblicato nel 1993 un suo album solista prodotto da Pete Anderson), Steve
Winwood e Nicolette Larson. Lei invece è Savana Lee, giovane buskers senza
grandi esperienze finché un tour a spalla di Loretta Lynn e tanta vita da
musicista di strada non le hanno aperto le porte degli studi di Nashville come
autrice e musicista nei dischi, tra gli altri, di Lucinda Williams e Emmylou
Harris. Due figure fortemente legate a Nashville e alla country music, che
sotto il nickname di Sugarcane Jane offrono però un country-folk da strada che
ricorda molto i momenti più rurali dei Bodeans (sarà per la somiglianza della
voce di Crawford con quella di Sam Llanas). Dirt Road’s End (che è
già il loro quarto titolo) è un disco che, nonostante l’assenza di batteria (ma
ci sono mille percussioni di ogni altro tipo), è un album molto ritmato,
gioioso e quasi da ballare. Sia l’indiavolato rock acustico di Heartbreak Road o la cavalcata da
bisonte della strada di Not Another Truck
Song, le canzoni del duo sono perfettamente coerenti con l’immaginario da
strada che ha fatto da cornice alla loro carriera, capaci di lanciarsi in
country corali alla Gram Parsons come Sugar
o in baldanzose gighe folk da festa paesana come Ballad Of Sugar Jane. Ci sanno fare anche con la penna (Home Nights, San Andreas), anche se a
livello produttivo il clima decisamente da instant-record fa perdere un po’ i
dettagli, e il muro di acustiche, mandolini e mille altri strumenti acustici a
volte pare un po’ confuso e non sempre
ben amalgamato, ma pare evidente l’intenzione di ricreare in studio il clima e
il suono di una esibizione di piazza. Disco fresco sebbene legato senza troppi
voli di fantasia ad una tradizione consolidata. Solo per veri viaggiatori.
Nicola Gervasini
mercoledì 1 luglio 2015
MANDOLIN ORANGE
MANDOLIN ORANGE
SUCH JUBILEE
Yep Roc.
*** 1/2
Storie di raccolti, montagne rocciose, miniere abbandonate,
amori impossibili da maturare nella vita desolata della provincia americana.
Esiste ancora questo immaginario semplicemente perché l’America non ha mai
smesso di avere angoli in cui il tempo si è fermato da almeno un secolo, fuori
dalle coordinate del grande correre degli Stati Uniti di Obama per non perdere
il ruolo egemone che la storia gli aveva assegnato nel ventesimo secolo. E se
esiste ancora quell’America, normale che esistano e nascano ancora band come i Mandolin Orange, nome
quanto mai esplicativo sulla direzione della loro musica. Duo formato da Emily Frantz e Andrew Marlin, vengono dal North Carolina e hanno all’attivo già
quattro album prima di questo Such Jubilee, secondo disco
decisamente americana-oriented edito per la Yep Roc.. Musicalmente non è niente
che già non si era sentito dalle band dell’alternative country anni 90, o, se
vogliamo, potremmo presentarli come una versione meno lugubre e più melodica
della Handsome Family, capaci di portare in cascina brani di struttura
tradizionale come Old Ties and Companions,
ma anche ottime prove d’autore come l’acustica Rounder. Unico membro aggiunto in session è Josh Olivier (che
aggiunge voci, chitarre e wurlitzer qua e là), per il resto il disco è
completamente autoprodotto dal duo, ormai capace di dimostrare piena maturità
anche nell’amalgamare le tante chitarre acustiche con il violino della Frantz
(bellissima, in questo senso, From Now On).
L’album comunque ha un tono decisamente dimesso e crepuscolare, permeato da una
grande malinconia che traspare anche dai testi, intrisi di tutti quei fantasmi
che una provincia in crisi (umana, ancora prima che economica) si portano
ancora appresso. La vita è altrove sembra dire un brano come Jump Mountain Blues, vero inno
all’impossibilità di trovare la felicità tra le rocce desolate del North
Carolina (“adesso ogni pensiero di te è
solo un piccolo ricordo di tutti i miei rimpianti, se solo tu avessi conosciuto
la vera felicità, probabilmente ci sarebbe un fantasma in meno che si aggira
come un bambino perduto in queste colline di Rockbridge County”), o un
titolo già di per sé esemplificativo di ciò che rimane come Blue Ruins. All’economia del disco manca
forse il momento di respiro in mezzo a tanta mestizia, ma è palese che non era
nelle intenzioni del duo dare un attimo di tregua: gli Stati Uniti inseguono la
Cina, la Russia, il mondo Arabo, e intanto si stanno dimenticando dei luoghi
che hanno fatto la loro storia. E resta solo questa musica a ricordarli.
Nicola Gervasini
venerdì 26 giugno 2015
STORNOWAY
STORNOWAY
BONXIE
Cooking Vinyl
***
Sono di Oxford gli Stornoway,
anche se il nome deriva dal piccolo capoluogo delle isole Lewis e Harris in
Scozia, città che i quattro non hanno mai visitato, ma che pare sia nota in
tutto il Regno Unito perché sempre citata nelle previsioni del tempo nazionali.
Sono attivi dal 2006, e Bonxie è il loro terzo album dopo Beachcomber's Windowsill del 2010 e il
ben accolto Tales from Terra Firma
del 2013. Una storia breve ma radicata quanto basta perché la realizzazione di
questo album sia stata totalmente finanziata dal crowdfunding (ci tengono a far
sapere che hanno raggiunto il 222% di quanto sperato inizialmente). Dediti ad
un folk di marca indie un tempo votato agli strumenti acustici, sono visti in
patria come una valida alternativa ai più noti Lumineers (ma avere una hit folk
che finisce negli ipod dei quattordici anni è un caso talmente anomalo che non
capiterà più per almeno i prossimi trent’anni).
Il combo è formato dal cantate/autore/chitarrista Brian Briggs, dal tastierista Jonathan Ouin e dalla sezione ritmica
formata dai fratelli Oli e Rob Steadman. Dopo una partenza tutto sommato
coerente con lo stile degli album precedenti (Between the Saltmarsh and the Sea), Bonxie si rivela subito
come un ulteriore salto avanti nella creazione di uno stile proprio. Lo
scanzonato e divertente dance-pop di Get
Low e la beatlesiana Man On The Wire
infatti virano il suono verso un brit-pop anni 90 di marca Blur, nonostante la
voce di Briggs sempre più sembra un mix tra Colin Meloy dei Decemberists e un
Damon Albarn in versione più folk. Molto bella The Road You Didn’t take, folk song di stampo classicissimo, che
apre ad un ulteriore cambio di stile con la scanzonata e quasi ska Lost Youth (siamo in zona Madness qui),
mentre Sing With Our Sense torna a
citare modelli brit-pop come i James. Dopo i primi frizzanti colpi il disco si
siede leggermente con una We Were Giants
che non trova una propria personalità, una ripetitivamente troppo poppish When You’re Feeling Gentle e un numero
alla Pulp un po’ confuso come Heart of
The Great Alone. Si torna in carreggiata con il folk corale di Josephine e
si chiude con il muro di fiati della bella Love
Song of The Beta Male. Troppe idee e voglia di fare troppe cose, ma in ogni
caso Bonxie è una buona occasione per
conoscerli e apprezzarli.
Nicola Gervasini
lunedì 22 giugno 2015
DANNY SCHMIDT
DANNY SCHMIDT
OWLS
Live Once
Records
***1/2
Danny Schmidt fa
parte di quella nuova schiera di cantautori anni 2000 che vivono ai margini del
mercato discografico ma tengono alta la bandiera del buon songwriting d’altri
tempi. E’ anche uno di quelli che ancora , dopo ben 8 album solisti, cerca una
conferma definitiva del proprio talento, uno alla John Gorka per dire, che fin
dagli esordi è sempre vicino al fare il disco della vita, ma alla fine non ci
riesce mai. Se volete recuperare qualche puntata precedente buttatevi senza
remore su Instead The Forest Rose To Sing del 2009, sicuramente il suo
lavoro più maturo e rappresentativo, piuttosto che sul scialbo seguito del 2011
Man Of Many Moons o sul disco a due
mani prodotto nel 2014 con la neo-moglie Carrie Elkin (For Keeps). Owls arriva giusto a confermare la
caratura del personaggio, sia nel bene che nel male: non è un campione di serie
A Danny Schmidt, ma resta una penna capace di emozionare un vocalist davvero notevole,
al quale manca solo forse un po’ del fascino che rende Ray Lamontagne più
efficace, per citare uno che viaggia sullo stesso binario stilistico. Prodotto
in Texas da David Goodrich e suonato
da una schiera di fidati amici (tra cui va notata perlomeno la steel guitar di Lloyd Maines), Owls è un buon disco che non cerca di strabiliare con effetti
speciali, ma punta dritto al cuore delle canzoni. Se l’apertura di Girl With Lantern Eyes non abbaglia, il
livello si alza con la bella The Guns
& the Crazy Ones e con la tesissima Soon
The Earth Shall Swallow, sei minuti che partono come un blues oscuro e si trasformano
in un triste canto strada facendo. Si ritorna su stilemi più classici con
l’incedere alla Neil Young di Faith Will
Alway Rise, o con il folk minaccioso di Bad
Year For Cane, che porta invece al momento più rilassato e spirituale di Looks Like God. La band non suona una nota
che non sia men che meno prevedibile e fuori posto, ma il sound è pieno e
perfettamente calibrato, e ricorda molto anche i dischi più recenti di Amos
Lee. Magari gli si potrebbe far notare che la ballata Cries Of Shadows è davvero simile a mille altre, ma sembrerebbe
anche fuori luogo quando pare evidente che lui è artista che si accontenta
dell’espressione senza voler fare impressione. Nel finale il disco rallenta
ritmo e livello, ma c’è tempo ancora per godere di brani come All The More To Wonder (davvero bella),
la semplice Cry On The Flowers, la
folkish Paper Cranes, per chiudere
dopo 45 minuti con la dylanianissima Wings
Of No Restraint. Buon ritorno e disco imperdibile solo per gli amanti della
canzone d’autore più soft ed elegante.
Nicola Gervasini
mercoledì 10 giugno 2015
SONNY AND THE SUNSETS
SONNY AND THE SUNSETS
TALENT NIGHT AT THE ASHRAM
Polyvinl
Record
***
Sonny Smith è un
personaggio davvero particolare, uno storyteller di penna e pentagramma che viene
da San Francisco. Ha già all’attivo parecchie pubblicazioni discografiche (ma
anche alcuni libri di storie), molte su commissione (incideva canzoni per una
rivista letteraria che era solita allegare cd con canzoni ispirate dai racconti
pubblicati nel mese), più svariati progetti trasversali e meta-artistici. Il
più importante lo ha visto nel 2010 invitare 100 pittori a disegnare le
copertine di 100 dischi immaginari, ementre lui si prodigava nel comporre i
brani per questi dischi sulla base dell’immagine di copertina (compose in totale
200 canzoni). Curiosità a parte, Talent Night At The Ashram, sebbene
sia un home-record autoprodotto, è il tentativo di dare corpo organico alla sua
vasta produzione. Lo accompagnano nell’impresa i Sunsets, band della West Coast nata a pane e Beach Boys, benedice
con un intervento ai cori il cantautore (e leader degli Honeycut) Bart Davenport. Fin dall’apertura di The Application, tra organetti e cori
alla Fleet Foxes, si respira una leggiadra aria indie, incalzata dalla voce del
padrone di casa che ricorda, a seconda di casi, quella di M Ward o di Bon Iver.
Album musicalmente vario, ma che bene o male richiama gli eroi dell’indie-rock
anni 2000: Cheap Extensions sembra un
brano uscito dall’ultimo album dei War On Drugs, con i suoi toni decisamente new wave, oppure
la brillante Alice Leaves For The
Mountains, puro pop per giornata di surf. L’album è breve e non annoia,
anche se il tono ironico e scanzonato di testi e interpretazione (la lunga Happy Carrot Health Food Store sembra una
lunga parodia di un brano degli Eels) lascia tutto nella dimensione del divertissement.
Per certi versi brani come Blot Out Of
The Sun con il suo piano pulsante ricorda le pop-song stralunate di Ben
Folds, mentre Icelene’s Loss è un
palese omaggio al sound del flower power anni sessanta (siamo in zona Spirit).
Pop songs leggere e intelligenti, con forse troppi elementi ed ispirazioni diverse
buttate a casaccio in un patchwork di indie moderno…un disco specchio dei tempi
che vale la pena ascoltare, anche se non lascerà un gran segno.
Nicola Gervasini
giovedì 4 giugno 2015
FOY VANCE
FOY VANCE
LIVE AT BANGOR ABBEY
Glassnote Record
***1/2
Per sapere chi sia Foy
Vance andate pure alla voce “miracolati delle tv-series” della nuovissima
enciclopedia della storia del rock (una qualsiasi..). Irlandese doc, Vance ha
due soli album all’attivo (Hope del
2007 e Joy Of Nothing del 2013),
senza contare un buon numero di EP, ma deve i suoi canonici 15 minuti di notorietà
al fatto che nel 2006 ben due sue canzoni finirono in un episodio di Grey’s
Anatomy. Era sconosciuto allora (se non per una curiosa partecipazione ad un
talent show televisivo in una imitazione di Andrew Strong dei Commitments), non
è conosciutissimo oggi se non in patria, eppure per lui è già tempo di
live-record antologico. Ben venga, perché Live At Bangor Abbey ci permette di
scoprire un cantautore di stampo american-rock tradizionale davvero valido, per
quanto non originalissimo. Per darvi coordinate classiche siamo dalle parti di
un Willie Nile quando ha velleità d’autore (come ad esempio nell’ultimo album If I Was a River), un Michael McDermott
quando s’innamora, momenti di folk-riflessivo alla John Gorka (Be My Daughter, Two Shades Of Hope) o parecchie affinità ha con il James Maddock più recente. L’album assembla il meglio di due
serate in cui Foy Vance è stato accompagnato da un intera orchestra d’archi
oltre che dalla sua band, e questo rappresenta davvero un’opportunità speciale
per una produzione indipendente. Il suono infatti è pieno, gli archi fanno
davvero il loro mestiere nel l’estetizzare un pugno di valide canzoni, e Vance,
conscio della grande occasione, canta con forza e trasporto. Qualcuno magari
lamenterà l’assenza di un taglio più rock, il fatto che praticamente tutti i
brani mantengano un tono epico-romantico (Regarding
Your Lover ad esempio gira dalle
parti di David Gray), ma è innegabile
che il disco abbia un impatto emotivo davvero suggestivo e una registrazione
talmente perfetta che lascia qualche dubbio sul fatto che ci siano state o no
qualche sovra-registrazione di studio (il pubblico normalmente si sente solo a
fine brano). C’è anche uno dei brani finiti in Grey’s Anatomy (Homebird, numero solo voce e chitarra), momenti
di sentita partecipazione del pubblico (il coro e battimani finale di Guiding Light), per il resto la scaletta
offre davvero il meglio della sua produzione e costituisce un punto di partenza
ideale per poterlo seguire. Vi basta avere ancora un cuore-rock che pulsa sul
lato romantico della strada, lasciarvi andare alla grandeur in melassa di brani
come Feel For Me o You And I, dimenticarvi il rock da
barricata, e questo album vi entrerà nel cuore.
Nicola Gervasini
lunedì 25 maggio 2015
DECEMBERISTS
Colin Meloy nelle foto di
presentazione di What a Terrible World, What a Beautiful World (Rough Trade, titolo rubato da un discorso di Barack
Obama), ha la faccia sorridente e sorniona di chi in qualche modo ce l’ha
fatta. Con numeri rapportati ai nostri tempi (quindi bassi), la storia dei suoi
Decemberists ricorda davvero quella dei R.E.M., band passata al successo
planetario dopo dieci anni di gavetta underground. Anche la loro musica era
finita per sembrare quella dei R.E.M., forse anche fin troppo nel precedente The King Is Dead del 2011, album che li
ha consacrati a gruppo simbolo dell’indie-rock di questi anni 2000. Ma i
Decemberists non erano partiti dal jingle-jangle rock di Stipe e soci: prima
c’erano stati il folk stralunato e cabarettistico di album come Her Majesty e Picaresque, poi il flirt con il prog di The Crane Wife e il rock anni 70 del concept The Hazards Of Love. Ma il nuovo album li conferma definitivamente:
ora i Decemberists piacciono a tutti, avanguardisti e tradizionalisti, classic-rocker
e giovani alternativi. E la vera vittoria è che per mettere d’accordo tutti,
Meloy ha realizzato il più classico dei Greatest Hits stilistici da band in
piena maturità. Qui ci sono tutte le loro anime, quella stravagante (come terminare
la scaletta con un brano intitolato A
Beginning Song), quella istrionica (l’esperimento sixty-pop di Philomena), quella tradizionalista (Make You Better è puro mainstream-rock) e,
ora, dopo quindici anni di carriera, anche quella più furba, fin dall’idea di
produrre un disco di brani easy & catchy
con fiati da canticchiare in coro (Cavalry
Captain) e archi sinuosi (Lake Song).
Manca quindi il loro lato più ostico e cervellotico, ma Meloy appare un uomo
diverso oggi, meno tormentato, più risolto, forse meno artista e più rockstar. Uno
stato di grazia produttivo quanto pericoloso il suo, che per qualcuno è
significato l’appiattimento e l’appagamento, per altri l’inizio di una nuova intrigante
vita artistica. Per loro chissà: di certo a rifare un album così perfettamente
orecchiabile al primo colpo come questo si rischierà la perdita del colpo di
scena, e quindi la noia. C’è dunque solo da sperare che Colin si complichi di
nuovo la vita.
venerdì 22 maggio 2015
RAY BARNARD
Il soul non è materia per timidi, anche nelle sue versioni più sofferte e lamentose, necessita di spiccate doti di istrionismo e di esternazione piena dei sentimenti, per cui l'espressione indie-soul appare davvero stridente. Per il resto abbiamo un nuovo bravo emulo in città signori miei, che ci propone un album fresco e veloce che non aggiunge nulla a quanto ci aveva già portato in casa un Aloe Blacc, per dirne uno tra i più famosi. Ma a questo punto una piccola sorpresa: Ray Barnard infatti non è un tipico americano nero in cerca dei propri padri musicali, ma un bianco texano abituato a presentarsi con Stetson di ordinanza. Prima del suo esordio infatti era il leader dei Copperheads, band che deve proprio a Steve Earle la propria denominazione sociale, che hanno realizzato tre album in proprio negli anni 2000 e sono stati usati come concert-band da artisti come Rosie Flores, Jack Ingram, Chris Scruggs e tanti altri. Questo spiega i vaghi sapori roots sparsi anche in questo Where Would I Be Without You (le armoniche e slides di Lost In The Flood ad esempio), un po' meno una voce decisamente soulful e black. Il che davvero dimostra quanto siano finiti i tempi del "razzismo al rovescio" per cui un tempo si pensava che solo uomini dalla pelle nera potessero suonare vero blues e soul, e forse anche evidenzia quanto questi ormai tanti anni di rinascita del soul classico abbiano ormai codificato il genere in regole talmente semplici e lineari, che anche un texano dagli occhi di ghiaccio può far emozionare tra fiati, piani wurlitzer, chitarre wah-wah e ritmi funky-soul. Segnalo poco i brani perché il disco si ascolta con piacere, ma manca delle classiche zampate del fuoriclasse, per quanto Roseville sia intensa, l'apertura di Bone Of My Bones impressioni, e il funky corale diBrothers riporti ai migliori Neville Brothers. In ogni caso la storia del soul non passa da queste parti. |
mercoledì 20 maggio 2015
CHADWICK STOKES
CHADWICK STOKES
THE HORSE COMANCHE
Nettwerk
***
Chadwick Stokes è
il leader di alcune interessanti band di Boston di questi anni 2000 (spesso
accreditato come Chad Urmston), i Dispatch (5 album tra il 1996 e il 2012, un
trio in qualche modo assimilabile alla Dave Matthews band come filosofia
musicale a metà tra jam, pop e roots-rock) e gli ancor più noti State Radio
(quattro album tra il 2006 e il 2012, di cui il terzo, Let It Go del 2009, è entrato anche nella Billboard americana
grazie al passaparola dei fans). Di suo aveva già prodotto due album (Live At the Brattle Theater del 2009 e Simmerkane II del 2011), ma è da questo
interessante The Horse Comanche che
possiamo senza remore occuparci di lui come di artista maturo e pronto a
solleticare anche i nostri esigenti palati. L’album ha avuto una genesi davvero
particolare, per quanto evidente segno
dei tempi: il nostro infatti ha chiesto ai propri fans di tutto il mondo la
disponibilità a organizzare degli house concerts (massimo 50 invitati) in cui
ascoltare, discutere e scegliere i dieci brani che hanno poi costruito l’album.
Una sorta di via democratica alla composizione che fa storcere il naso per chi
magari vede ancora l’artista come qualcuno che dovrebbe elevarsi dalla massa e
non confondersi, ma se il risultato è interessante è perché poi dopo un anno di
tour, prove e ripensamenti, Stokes ha realizzato il tutto con la dovuta
professionalità. Innanzitutto si è affidato a due mostri di genere, il grande Sam Bean alias Iron & Wine (e basta
ascoltare la conclusiva Walter per
sentirne la pesante eredità) e l’espertissimo produttore Brian Deck, per un
suono puramente indie-folk solo apparentemente scarno. Poi ha lavorato molto
sugli impasti vocali, un po’ Bon Iver, un po’ Fleet Foxes, un po’ John Grant,
un po’ anche sé stesso in alcune buone nuove idee, forse per lo più racchiuse
nei funambolici sei minuti e passa della title-track. Il disco per il resto si
barcamena tra momenti di intimo indie-folk (Pine
Needle Tea), pop stralunati e percussivi (Mother Maple) , strani esperimenti di indie-limbo caraibico (Prison Blue Eyes), l’innesto quasi-rap
di Our Lives Our Time, brano che
gravita in area Decemberists. Tanta carne al fuoco, anche se forse manca il
brano che faccia la differenza, a parte forse il bel singolo New Haven, impreziosito dall’intervento
dei Lucius. In ogni caso un artista da seguire lungo questo suo nuovo percorso.
Nicola Gervasini
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