lunedì 15 settembre 2008

DANNY COHEN - Shades of Dorian Gray


19/03/2007

Rootshighway


VOTO: 5



Potrei annoiarvi con lunghi discorsi sul rapporto tra creatività e pazzia nel rock, potrei citare a casaccio Syd Barrett, potrei diventare accademico e sciorinare i passi che Kant ha dedicato all'argomento, concorde con il fatto che "genio e follia si toccano da vicino" (Diderot). Ma qui ad annoiarci basta e avanza la prosopopea del Signor Danny Cohen, uno che nella storiografia rock passa per essere l'artista underground per eccellenza, talmente "under" da esordire solo nel 1998 nonostante da più di quarant'anni illustri esponenti dell'intelligenza rock lo acclamassero come "l'artista sconosciuto più geniale", o se preferite la mai emersa "next big thing". Lui in verità è uno strano personaggio vissuto all'ombra di veri geni (o veri folli?) come Captain Beefheart, che giunge all'appuntamento con il terzo album vero e proprio, considerando che i primi due dei cinque titoli della sua discografia sono in verità raccolte di materiale sparso nel corso degli anni. Shades of Dorian Gray, diciamolo subito, è un informe ammasso di strambe/spocchiose/pretenziosamente intellettualistiche /falsamente ironiche canzoni, 16 per la precisione, come già nei precedenti We're All Gunna Die (2005) e Dannyland (2004). La sensazione è quella di una persona normalissima che si atteggi a pazzo genialoide nella speranza di imitare i suoi mentori Beefheart e Tom Waits. Peccato che dei due il buon Cohen non abbia né il talento, né tanto meno i mezzi. Spiace in un certo senso dover affossare così questo disco, perché lo sforzo creativo di Cohen è sicuramente notevole, il tentativo di crossover tra mille stili (si svaria tra folk, gospel, blues, i soliti Brecht-Weill, qualche svicolamento verso il jazz avanguardistico alla John Zorn, altro suo mecenate) testimonia la sua grande cultura musicale, e forse anche perché i due album precedenti, seppur appesantiti dagli stessi difetti, erano comunque apprezzabili. Qui invece si gioca a strabiliare, ci si diverte ad infastidire, con la pretesa di farci sentire inadeguati all'ascolto di tanta magniloquenza. Il problema non è essere irrimediabilmente stonati (il timbro è quello di Jerry Garcia, la tonalità…lasciamo perdere…), il problema è fare apposta a storpiare la voce come in The Fall o la conclusiva Beneath The Shroud con effetti che lui vorrebbe essere grotteschi, ma che finiscono per essere semplicemente sgradevoli. Il problema è pretendere più di un ora della nostra attenzione per i suoi testi irriverenti, i suoi arrangiamenti zoppicanti, i suoi canti strazianti. Potrei anche dirvi che The Prophecy e For George Bailey, LaPado and Bottom sono comunque dei brani di spessore, che non tutto è da buttare, che qualcuno lo potrà anche trovare stravagantemente "cool", ma non c'è più spazio, e soprattutto, da parte mia, non c'è più la pazienza di scoprirlo. (Nicola Gervasini)

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