BUSCADERO - Febbraio 2008
VOTO: 7,5
Quel suo folk strambo, quei suoi testi visionari e spesso infervorati in polemiche socio-politico-religiose così lontane dalle nostre questioni quotidiane, quel suo canto stralunato e quel suo stile impossibile da catalogare: è sempre stato arduo per il pubblico italiano cogliere in pieno il significato della musica di Roy Harper. Certamente non ha aiutato in questo neanche la storia delle riedizioni in cd dei suoi dischi, disordinata e spesso lasciata in mano a piccole etichette poco attente ai particolari. Sophisticated Beggar, il suo disco d’esordio del 1967, era uno dei più difficili da reperire in edizione degna di tal nome, e stavolta a darne una versione definitiva ci prova l’etichetta belga Music Avenue. Originariamente edito dalla Strike, una delle prime label indipendenti inglesi di metà anni ’60, Sophisticated Beggar fu una scommessa vinta da un artista che leggenda vuole (e lui stesso conferma nelle note di copertina) abbia registrato queste tredici canzoni in una sorta di garage con un ben poco sofisticato registratore di prima generazione. Roy Harper ha curato direttamente il prodotto e nelle note ammette che nonostante la tentazione di rifare tutto fosse forte, alla fine si è deciso a ripresentare il disco così com’era in origine, semplicemente ripulito e rimasterizzato, con un risultato secondo lui più che accettabile a patto di seguire i suoi precisi consigli su come mettere i livelli dei bassi e dei tremble del vostro stereo. Fissazioni tecniche a parte, la cosa più interessante che emerge dalle parole di Harper è che lui stesso per trent’anni ha odiato questo disco come il mal riuscito parto di un artista ancora alla ricerca della sua strada, mentre ora che ci ha rimesso sopra le mani ha imparato ad apprezzarlo, e con la sua abituale poetica eloquenza lo definisce “un delizioso piccolo spazio che un tempo riempii”. Ed effettivamente riascoltato oggi sembra proprio che quello che è stato considerato a lungo un disco vecchio e sorpassato sia improvvisamente diventato un vademecum per i tanti giovani straniti folksinger di nuova generazione. Ancora lontano dalle influenze progressive e dagli arditi sperimentalismi che lo porteranno solo più tardi a produrre veri capolavori della musica inglese (Stormcock del 1971 su tutti) e persino a conoscere un certo successo commerciale nella seconda metà degli anni settanta, Harper registrò il disco in solitaria evidenziando subito il suo stile chitarristico che tanto doveva a John Fahey e un songwriting debitore della tradizione folk locale, anche se già molto più originale ad esempio del contemporaneo esordio del collega John Martyn. Ma ai tempi era tradizione che il disco d’esordio di un artista pagasse una sorta di tassa di riconoscenza ai padri ispiratori, per poi sviluppare solo nei lavori seguenti un proprio stile personale (oggi questa buona norma non scritta si è un po’ persa), e neppure l’anarchico Roy sfuggì alla regola. Harper indica nella title-track, nella stupenda melodia di Forever e nella praticamente strumentale Blackpool (brano dedicato al suo quartiere di nascita) i brani che più ha rivalutato e sicuramente ci azzecca nel segnalare gli episodi che meglio evidenziano la modernità della sua opera giovanile. Ma riascoltati oggi non si può fare a meno comunque di apprezzare anche la dolcezza di Girlie, la scrittura della lunga October The 12th, brano pare molto amato dai fans più stretti che per anni glielo hanno chiesto nei concerti, o la perfetta leggerezza di My Friend, splendida melodia con simpatico siparietto di partenza annesso (Roy si interrompe dopo pochi secondi perché c’è un ragno che cammina sul microfono!). Qualche episodio rimane inevitabilmente una prova di stile, come la dylanianissima Big Fat Silver Aeroplane, oppure scherzi da studio di registrazione che lasciano un po’ il tempo che trovano (Comitted ad esempio, con Roy che scoppia in fragorose risate a metà delle strofe, o Mr Station Master, vale a dire gli unici brani arrangiati con altri strumenti, con una buona dose di improvvisazione e poco know-how). Ma la capacità di intersecare alla perfezione parole e arpeggi di episodi come Legend o di anticipare con l’iniziale China Girl il genio stilistico di Syd Barrett rendono quest’opera prima un piccolo gioiellino da recuperare nel sottobosco degli anni 60. Spiace un po’ che la voglia di riproporre foto inedite dell’epoca abbia spinto i curatori a rifare completamente la grafica del libretto, vuoi perché così si perde il bel disegno della copertina originale, vuoi perché il tutto si risolve nelle interessanti note dell’autore e nella lunga biografia scritta da Alfie Falckenbach e non purtroppo nei testi delle canzoni, dandoci forse un’occasione in meno per apprezzare in pieno un disco pieno di meravigliosi ed amabili difetti.
Nicola Gervasini
Nicola Gervasini
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