21/07/2008
Rootshighway
VOTO: 6
I famosi 15 minuti di celebrità che non verrebbero negati a nessuno - secondo la profezia di Andy Warhol - esistono ancora, ma vanno aggiornati a massimo 5 oggigiorno. Un video di 15 minuti su YouTube sarebbe troppo lungo, e nei MySpace un artista ha una possibilità: se la prima canzone che mette on-line piace, allora - forse - qualcuno ascolta anche la seconda. Su queste pagine siamo ancora convinti che i minuti debbano essere di più, anche quando ti ritrovi ad affrontare Don't Tell, secondo disco di un'artista come Kathleen Haskard, una che ha come unica credenziale nel curriculum quella di essere stata una delle 100 voci della corale usata da Neil Young per Living With War, e già anche solo il segnalarlo dà un po' l'idea della piccola dimensione del personaggio. Lei viene dal back-office del mondo della musica, più nota come attivista politica per i Democratici piuttosto che per il suo dimenticato album d'esordio del 1998. Ma è anche una che ha vissuto per anni lavorando per la Bug Music, una società di edizioni musicali, e le giuste conoscenze le hanno dato la forza di riprovarci con la piena collaborazione del nostro beneamato Chuck Prophet, che qui offre chitarre e know-how produttivo. Quello che si sente in Don't Tell è il Chuck più Keith-Richards-dipendente, quello dei Green On Red epoca Here Come The Snakes per intenderci, quello che fa sempre la cosa più semplice ma più giusta nel momento perfetto. Sentirlo così, nudo e crudo, libero dalle diavolerie elettroniche che popolano da tempo i suoi dischi, è sempre un piacere. Ma poi dobbiamo pur ricordarci che i 5 minuti di ribalta, o 40 che siano, sono della Haskard, non suoi. E non è facile, perché se spogliamo queste dieci canzoni della chitarra di Prophet, ci ritroviamo con in mano un dischetto godibile quanto presto dimenticabile, il prodotto di una buona folksinger senza segni particolari da vendere. Anche i testi risultano raramente degni di particolare nota, a parte forse quelli che guarniscono la bella ballata acustica Losers Weep, scritta da Kathleen nel 1999 con Stacey e Jack Earle (rispettivamente sorella e padre di cotanto Steve), e probabilmente quelli di Pearl Necklace, sorta di riuscito dark-country. Ma altrove ci si muove nel banalotto (Will Someone Explain), nell'incomprensibilmente irrisolto (che senso ha il minuto e 47 secondi di Hallelujah, un blues rauco e chitarroso, che arriva dal fondo che è già iniziato e se ne va proprio quando si stava per cominciare a muovere il piedino?), o nel volutamente soporifero (la ninna-nanna di Until It's Time To Go, ma anche il faticoso finale di Leave To Remain). Meno male che la partenza del disco offre brani come Second Star o la stessa Don't Tell, che se non finiranno nelle nostre top list dell'anno, almeno richiamano ulteriori ascolti. Ma la sufficienza raggiunta grazie a qualche buona canzone e ad un suono a noi caro e familiare non la farà uscire da quel coro di 100, 1000 e forse più voci uguali a questa.(Nicola Gervasini)
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