mercoledì 17 settembre 2008

LANGHORNE SLIM - Langhorne Slim

16/06/2008
Rootshighway
VOTO: 7


Nel mondo del paradosso qualsiasi artista eviterebbe volentieri di dover fare il secondo disco, passando direttamente dal primo al terzo. Ma nella realtà anche Langhorne Slim ha dovuto fare penitenza come tutti, e dare un seguito a quel When The Sun's Gone Down che nel 2005 lo aveva imposto come il più fresco tra i freak-folker di nuova generazione. Non potendo più sorprendere nessuno, il ragazzo ha deciso di non dare neanche un titolo al suo secondo figlio artistico (terzo in verità se si conta l'ep Electric Love Letter), ma semplicemente di far parlare la sua nuova musica. La seconda scelta significativa è stata quella di non tentare di ricreare pedissequamente lo sgangherato folk dell'esordio, ma ha avuto il coraggio di fare un disco pensato, ben suonato (la notevolissima sezione ritmica è composta dai fidi Malachi DeLorenzo alla batteria e Paul DeFiglia al basso), e professionalmente prodotto da Brian Deck (produttore delle sunday-morning-songs degli ultimi Counting Crows) e Sam Kassirer (collaboratore stretto di Josh Ritter). Ha scelto poi di non ascoltare il vespaio di lodi suscitate da chi ha visto in lui una sorta di innovatore alla Beck, ma si è tappato le orecchie davanti alle sirene dei facili elogi e ha preso la decisione più saggia: tentare di dimostrare di essere solo un buon cantautore, senza tanti inutili stravaganze da ostentare o discorsi accademici da suscitare. Questo disco rinuncia a qualsiasi occhiolino furbo ai terroristi del nuovo e si ciba di cantautorato anni '70 senza pudore, azzarda senza paura gli arrangiamenti retrò di Rebel Side Of Heaven, sospesa tra un hammond alla Al Kooper, una sezione ritmica che ti porta a cercare inutilmente Levon Helm e Rick Danko tra i credits, e una sezione fiati alla Blood, Sweat & Tears. Oppure propone lineari pop-folk alla Cat Stevens come Colette, si lascia andare alle feste raminghe di She's Gone senza mai pretendersi originale a tutti i costi. Oppure si serve a colazione i vetusti impasti di voci di Hello Sunshine, segue il ritmo lento di un wurlitzer polveroso in Diamonds And Gold (brano che potrebbe tranquillamente uscire da un disco di Ben Harper), trova un giro di chitarra che sembrava già abusato negli anni 50 come quello di The Honeymoon, ritrova un ritmo ancestrale da bluegrass in Tipping Point o uno da lenta country-song in Oh Honey. Langhorne Slim ha il grande merito di non chiederci troppo tempo (35 minuti) e di superare i 4 minuti solo nell'unico momento riflessivo del disco, quella Hummingbird che chiude in maniera malinconica un disco allegro, scanzonato, che fa della propria spensieratezza il proprio grande pregio. Questo disco non piacerà a tanti di quelli che due anni fa si erano parecchio esaltati per il suo esordio, eppure Langhorne Slim ha scelto fin da subito la via della maturità e della sobrietà, con risultati per ora solo più che discreti, ma che potrebbero anche essere il preludio per un percorso artistico lungo e non risolto in unica botta iniziale.(Nicola Gervasini)


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