domenica 14 settembre 2008

TERRY LEE HALE - Shotgun Pillowcase


21/09/2007

Rootshighway


VOTO: 6,5



Carriera davvero oscura quella di Terry Lee Hale: fin da sempre relegato ai margini del business discografico, pochi si ricordano dei suoi primi passi in quel di Seattle e della sua presenza come esordiente nella raccolta Subpop-200 del 1988, la compilation di singoli della famosa etichetta del luogo, considerata come la culla del grunge. Lui con il grunge in verità c'entrava poco, anche se ancora oggi ha in cantiere un disco di brani di artisti di Seattle scritti appositamente per lui che si prefigura interessante. Frontier Motel del '93 e Tornado Alley del '95 lo segnalarono come promessa per il nuovo folk americano, ma da allora in poi Terry ha vivacchiato con pochi mezzi, bei dischi mal prodotti (Leaving West del 1996 è un grande disco mancato), fino alla fuga nella più ricettiva Europa (una storia già vista tante volte nel genere…). Non è un caso che questo Shotgun Pillowcase sia stato registrato, come il precedente Celebration What For, negli studi Zuma di Lubjana con musicisti sloveni, sotto la guida del produttore e amico di lunga data Chris Eckman dei Walkabouts.. E se il precedente lo ricordiamo come una buona raccolta di folk-song autoriali e molto tradizionali nella struttura, in questa occasione Hale si è lanciato in coraggiose sperimentazioni che conciliano il suo dark-sound folk con influenze jazz e di varia ambient-music europea. Batterie elettroniche ovunque (ben programmate da Eckman però, non danno quasi mai la sensazione di musica plastificata), la tromba alla Chet Baker di Andrei Jakus a fendere l'aria nei momenti più coinvolgenti, evocative code strumentali che ci riportano al trip-hop di dieci anni fa (sentite il lungo finale di Streets Of Stone), sperimentazioni acustiche (gli strumentali Oliva e He's Still Drinking), persino una versione acustica di un brano dei Blur (No Distance Left To Run, era su 13 del 1999, ma l'originale, con le sue pigre schitarrate, era un'altra cosa). Tante belle idee, qualche ottima canzone (Hearts e Work Song tra le migliori), ma purtroppo, come è già successo spesso nel suo passato, un insieme finale che non convince completamente, causa i troppi momenti ancora involuti (il rap di Level 20 all'inizio sorprende, ma lascia il tempo che trova) e i troppi sbadigli provocati qua e là (la waitsiana Evergeen non decolla). Il fatto che quando il nostro tira fuori dagli inferi del suo songbook un classicissimo blues come Cable Ballad Blues ci si senta finalmente a casa dopo tanto peregrinare in terre lontane dà l'idea di come forse certi artisti dovrebbero pensarci due volte prima di mettere un nuovo paio di scarpe (per dirla come direbbero gli americani…). Nel suo sito Hale racconta la genesi del disco, dei mille dubbi e dell'emozione di creare qualcosa di nuovo, e qui sta la grandezza di Shotgun Pillowcase, nell'essere una esperienza umana e artistica raccontata con grande sincerità e trasporto, e ovviamente in questi lidi la cosa è più che apprezzata. Anche se i grandi dischi forse sono un'altra cosa… (Nicola Gervasini)

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