BUSCADERO
Giugno 2008
VOTO: 5,5
Scusate la pedanteria, ma ogni tanto le statistiche sono necessarie. Sixes & Sevens, quinto album di Adam Green, annovera esattamente 20 canzoni per 48 minuti, vale a dire in media poco meno di due minuti e mezzo a canzone. Niente di così strambo in fondo, di album con queste caratteristiche ne abbiamo pieni gli scaffali, ma in genere si tratta di raccolte di hit-makers-band anni 60, o al massimo qualcosa era-Ramones, non certo di un ventisettenne folksinger moderno, chiamato a confermare al mondo quanto dimostrato con Gemstones del 2005 e Jacket Full Of Danger dell’anno successivo, titoli acclamatissimi (soprattutto dalla critica d’oltremanica) per quel gusto di rileggere la tradizione folk americana con un piglio poppish, unito al suo vocione baritonale da crooner. Più che folksinger, ormai bisognerebbe coniare per lui l’espressione “all-singer”, perché Sixes & Sevens è una sorta di enciclopedia del rock che non risparmia davvero nessuno (e nessun genere) dall’ essere riprodotto e distorto dai giochi di parole e dalla sue trovate stilistiche. Andiamo più o meno con ordine e capirete: Festival Song apre il disco con la maestosità del glam-rock più barocco alla Marc Bolan, Tropical Island è uno scherzo caraibico tra Jimmy Buffett e Harry Belafonte, la sorprendente Cannot Get Sicker è un potente blues, contrappuntato dall’immancabile coro di coloured girls che caratterizza un po’ tutto il disco. That Sounds Like A Pony è un piccolo rap percussivo di un minuto che serve a ostentare tutta la sua perizia nei giochi di parole, Morning After Midnight è una splendida cavalcata di fiati e cori alla Allen Toussaint, Twee Twee Dee invece sembra una registrazione di Al Green cantata da Nat King Cole. E se fino a qui il disco diverte davvero parecchio e offre già il meglio, da You Get So Lucky in poi Adam comincia comprensibilmente a perdere il filo del discorso, se mai ce ne fosse uno. Il brano è una sorta di scimmiottamento di El Condor Pasa di Simon & Garfunkel, rimpinguato con fiati, archi, chitarre wah-wah, e cos’altro poteva metterci in questo blob di arrangiamenti lo sa solo lui. Dopo un’anonima ballatona da nashvilliani con orecchie sensibili (Getting Led, che sembra una outtake da Self Portrait di Dylan) e il pigro duetto circense con Loribeth Capella (cantante improvvisata, è in verità l’autrice della foto di copertina) di Drowning Head First, tra bassi-tuba e scacciapensieri, si approda al piacevole wall-of-sound spectoriano di Broadcast Beach. It’s A Fine è forse uno dei brani meno evidenti (eppure meglio costruiti) di tutta la raccolta, una bella ballata acustica alla Jim Croce con sempre qualche arrangiamento di troppo, e anche le successive Homelife e Grandma Shirley and Papa battono il sentiero del cantautorato di marca roots degli anni 70. When A Pretty Face fa l’occhiolino alla Something Stupid di Frank Sinatra, anche se manca una Nancy (ma anche una Nicole Kidman sarebbe stata gradita) a dare la giusta leggerezza, mentre Exp.1 è una stramberia un po’ fine a sé stessa, tra Syd Barrett o il Robyn Hitchcock più burlone. C’è tempo ancora per un convincente spiritual (Leaky Flask), una canzonetta senza troppo futuro (Bed Of Prayer) e un esperimento balcanico da dimenticare (Sticky Ricki), prima di chiudere con la simpatica Rich Kids, una di quelle ballate che gli hanno fatto guadagnare il titolo di Jonathan Richman degli anni 2000. Al di là della confusione generata da un simile andirivieni di umori senza filo logico, il vero problema di questo disco è che si ha sempre la sensazione che Green ci stia pigliando in giro, che tutti i brani siano solo scherzi da artista, imitazioni cabarettistiche alla Zelig. Impressione già avuta con i precedenti lavori, ma se da Jacket Full Of Danger si usciva pur sempre con il dubbio se il ragazzo fosse un genio o un grande affabulatore, qui ci si diverte forse anche di più, ma si spegne lo stereo con la certezza che nemmeno lui possa prendere sul serio queste venti prova da grande imitatore, per quanto bravo a dare comunque un tocco personale a qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Gran bel intrattenimento dunque questo Sixes & Sevens, un disco che fa di Green una sorta di versione aggiornata del Beck degli anni 90 per quella naturale propensione a mischiare più carte possibili, anche se ci sarebbe veramente da domandargli quale sia il senso di tutto ciò. A meno che non stia davvero solo scherzando…
Nicola Gervasini
Nicola Gervasini
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