24/09/2007
Rootshighway
VOTO: 6,5
Che per Steve Earle fosse giunta l'ora di un cambio di direzione era ormai evidente. Assorbito da lotte e proclami politici, Steve aveva pubblicato negli ultimi anni due dischi (Jerusalem e The Revolution Starts Now) che potremmo definire "funzionali alla causa", dove l'urgenza di urlare i contenuti sovrastava la necessità di dar loro anche una forma. Washington Square Serenade è dunque il suo ritorno a casa dopo mille battaglie, tra le braccia dell'ennesima nuova moglie (la bella country-singer Allison Moorer), e ad un folk ancora più radicale che in passato, sempre più vicino allo spirito di Pete Seeger (a cui è dedicata la sconclusionata Steve's Hammer) e sempre più lontano dalla Nashville ingrata dei suoi anni ruggenti ("Goodbye Guitar Town" canta nell'iniziale Tennessee Blues). Ma Washington Square Serenade sarà anche "l'album delle batterie elettroniche", e qui starebbe il passo avanti, l'azzardo modernizzatore di cui dovremmo parlare. Per nulla avvezzo alla materia, Earle si è affidato al buon gusto del produttore John King, uno che ha imparato a programmare basi per suoni rootsy con un maestro nel genere come Beck, e che non a caso i Rolling Stones chiamarono nel 1997 per svecchiare Bridges To Babylon. E King si dimostra uomo intelligente, non cerca rivoluzioni strane, e abbina alle sue basi meccaniche suoni di chitarra rudi e per nulla radiofonici, con un risultato sonoro di grande impatto. Purtroppo però non sono le alchimie tecniche che fanno di questo disco un episodio non del tutto risolto, ma i brani stessi di Earle, a volte poco ispirati e convinti, così come le sue interpretazioni, francamente frettolose e sottotono rispetto alla rabbia del passato. Così se la bella sequenza centrale che dall'intensa ballad Come Home To Me arriva alla distorta Red is The Color, passando per le classicissime Jericho Road e Oxycontin Blues, ci riporta nei pressi del pericoloso e rauco fuorilegge di un tempo, non convincono invece la cantilena quasi rap di Satellite Radio o l'evanescente siparietto amoroso con la moglie in Days Aren't Long Enough, che scompare se confrontata agli incontri con Lucinda Williams e Emmylou Harris di una decina di anni fa. Non decolla neppure la ricerca di un motivo orecchiabile in Down Here Below, e soprattutto delude la brutta versione di Way Down In The Hole di Tom Waits, un brano che vantava già rivisitazioni più consone (quella di John Campbell su tutte). E se la giocosa Sparkle And Shine (che piacerebbe a John Prine) rientra nella normale amministrazione per uno come lui, lo spiazzante esperimento quasi etnico di City Of Immigrants, una canzone contro il razzismo caratterizzata dai cori del gruppo brasiliano Forro In The Dark, è da risentire e rivalutare in quanto apre la porta a interessanti sviluppi futuri. Speranza che ci conforta parecchio, perché la sensazione è che questo non sia il lavoro di un artista arido e svuotato, ma sembra più un embrione di un nuovo grande disco che deve ancora crescere. Vogliamo scommetterci?. (Nicola Gervasini)
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