lunedì 15 settembre 2008

LILITH & THE SINNERSAINTS - The Black Lady and The Sinner Saints


25/07/2008

Rootshighway


VOTO: 7



Lilith è un demone, portatrice di disgrazie nelle religioni islamiche e simbolo dell'emancipazione femminile nella cultura occidentale. Quella Lilith è musa ispiratrice di quest'altra Lilith, una vocalist che ha scritto la storia dell'underground italiano quando non esistevano ancora gli odierni efficaci canali alternativi alle logiche dello show-business. Lilith era la cantante dei Not Moving, una delle pagine più eccitanti del post-punk italiano, e nel 1988 aveva anche intrapreso una breve carriera solista, giusto un paio di dischi per fare di lei la Marianne Faithful nostrana, prima di sparire negli inferi della vita di tutti i giorni. Ma per Lilith nel 2005 è arrivata la reunion sul palco con i vecchi compagni e la voglia di ripartire con un grande progetto. Lilith ha quindi creato una propria backing-band (Tony Face Baciocchi alle pelli, Massimo Vercesi e Betty Blue alle corde), li ha battezzati The Sinnersaints con messa nera d'ordinanza, e ha pubblicato questo The Black Lady And The Sinner Saints, rimestando a suo piacimento le parole di un capolavoro di Charles Mingus ("The Black Saint And The Sinner Lady"). Lilith ha anche voluto una bella copertina in stile sixties-soul-album, e ha deciso che per il suo come-back bisognasse celebrare un rito voodoo per richiamare gli spiriti delle origini. The Black Lady And The Sinner Saints vuole di fatto essere un concept-album, una galleria delle radici e delle fonti di tutta la musica moderna per esorcizzare gli ignari giovincelli del 2000 che si cibano di gruppuscoli minori senza sapere da dove è iniziato tutto ciò. Lilith ci fa così da Virgilio in un viaggio nei gironi dell'Ade alla ricerca degli idoli passati e dimenticati, apre le danze con il mefistofelico racconto hard-blues di Mumbo Jumbo Talking Blues, ci getta come schiavi nel fango a cantare Hammer Ring, zozzo spiritual scoperto da Alan Lomax e rimpastato in chitarre inacidite. Lilith è sadica, proprio quando crediamo di poter trascorrere la nostra pena tra i sapori del Delta, ci getta improvvisamente in faccia una sgangherata versione di I Need Somebody degli Stooges epoca Raw Power, e quando decidiamo che sì, siamo disposti a graffiarci presto con del vero pre-punk, ci lecca le ferite con il giro tutto Bad Seeds di Core Of The Time. Ma il blues, il caro vecchio sabba del crocicchio, torna nella saltellante My Cousin Martino, frutto scaturito dalla ri-frequentazione con i Not Moving. Ma a questo punto la cattiva Lilith pretende doni per continuare il viaggio: si scomoda addirittura l'idolo underground Tav Falco, che solo per lei si inventa un tango oscuro chiamato Secret Rendez Vous, mentre lo storico bassista degli Stranglers J.J. Burnell offre, senza probabilmente saperlo, una Pretty Face da un suo dimenticato album solista del 1979 (Euroman Cometh). Lilith vuole anche l'aiuto di un'altra storica band indipendente italiana, i Julie's Haircut, che al gran completo rigettano i dannati nelle atmosfere "nickcaveiane" di Something Happens For The First Time. Lilith ha ancora fame di storia, e il trip prosegue in ogni-dove, nel jazz di Autumn Leaves (proprio il motivo di Jacques Prevert, nella sua versione inglese), nella tradizione nostrana di XOdos (Struggente Dream), brano in dialetto realizzato con i veronesi Peluqueria Hernandez, sorta di Los Lobos scaligeri in chiave jazzy. E Lilith chiude con una firma da vera idolatra, coprendo nientemeno che la stornellatrice romana Gabriella Ferri in Grazie alla Vita (traduzione italiana di un classico di Violeta Parra), ritrovando così la sua vera anima da chanteuse di casa nostra. Lilith forse ha esagerato, tra tante icone musicali così diverse, si rischia di perdersi più nell'arte della scoperta della fonte e della citazione, piuttosto che nella musica stessa. Ma da questa messa nera di blues italiano così ben prodotto è difficile non uscirne con una nuova anima, nera e fortissimamente donna come quella della cerimoniera.(Nicola Gervasini)

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