lunedì 15 settembre 2008

JOHN DOE - A Year In The Wilderness



02/07/2007

Rootshighway


VOTO: 7,5



Il problema della carriera solista di John Doe è sempre stato quello di non avere un fine ben chiaro. L'ex cantante degli X, non sempre per sua volontà sia chiaro, ha pubblicato in questi ultimi vent'anni in maniera disordinata e scriteriata. Progetti abbandonati e poi ripresi a distanza di dieci anni (For The Best Of Us), dischi acustici senza molta sostanza (Dim Star, Bright Sky), molte cose anche discrete, ma niente che possa minimamente rivaleggiare con quanto fatto con il suo gruppo negli anni d'oro. La questione di fondo è che la musica di Doe è sempre rimasta anonima e senza definizione come il suo nome (traducibile come il nostrano "Pinco Pallino"), indeciso se fare il cantautore folk e seguire le orme texane dell'amico Dave Alvin, oppure cavalcare le scariche elettriche del punk californiano alla X. A Year In The Wilderness arriva a dare un seguito all'album Forever Hasn't Happened Yet del 2005, album apprezzabile, ma con le solite idee confuse ad impedirne il decollo, e se ancora forse non ci siamo nella definizione di un suo suono, almeno comincia a far intravedere un autore e un performer in stato di grazia. Album relativamente breve, calibrato su brani rilassati e alcune convinte sferragliate elettriche, il cd si avvale di alcune collaborazioni di rilievo, tra cui il duetto con la bella Kathleen Edwards in The Golden State, così come l'"amarcord" con la vecchia compagna d'avventura Exene Cervenka nella delicata Darling Underdog o le backing vocals di Aimee Mann nella country ballad A Little More Time. Nelle vene di questa musica, oltre al bravissimo slide-guitarist Greg Leisz, bazzicano le chitarre di Dave Alvin, Chris Bruce (spesso alle spalle dell'ex Ministry Chris Connelly) e Dan Auerbach dei Black Keys, particolarmente evidenti nei brani più duri come l'iniziale Hotel Ghost (un brano davvero notevole anche dal punto di vista della scrittura) e nel devastante hard-blues di There's a Hole. Tutti brani incisivi, brevi e diretti, subito digeribili, che fanno di A Year In the Wilderness il suo album più compiuto dai tempi di Meet John Doe. Non perfetto purtroppo, perché comunque quando tenta di ricreare il sound degli X in Lean Out Yr Window, quando non azzecca la melodia come in Unforgiven o quando tenta strade autoriali che non gli sono congeniali (The Bridge), il ritmo arranca un po'. Ma c'è tempo anche per notare la bella doppietta finale con The Meanest Man In The World, un brano che potrebbe saltar fuori dal repertorio di Kris Kristofferson, e la notevole Grain Of Salt, unico minutaggio che supera i quattro minuti anche grazie a un bel finale in crescendo con le chitarre in evidenza. Non abbiamo ancora capito cosa voglia fare John Doe da grande, per adesso possiamo al massimo goderci una sana e creativa scelleratezza di un adolescente di cinquantatre anni.(Nicola Gervasini)

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