19/02/2007
Rootshighway
VOTO: 7,5
Non ci sono vie di mezzo nella musica di Rickie Lee Jones: ti prende, ti colpisce, ti azzanna poi ti abbandona, ti scuote violentemente poi non ti tocca più, e quando ben pensi di averne afferrato in pieno il senso arriva sempre il punto in cui ti disorienta, ti porta fuori strada. Se The Evening of My Best Day aveva dato l'impressione di un punto di arrivo di una affascinante ricerca stilistica, piena di soddisfazioni quanto di clamorosi passi falsi, il nuovo album riparte da zero buttando a mare la teorica maturità raggiunta. Le sonorità acustiche potrebbero far pensare ad un nuovo Traffic From Paradise, ma qui non c'è un Leo Kottke a tessere divine trame armoniche, ma gli spigolosi Lee Cantelon, collaboratore fin dai tempi delle Naked Songs, e Peter Atanasoff (ex Tito & Tarantula), musicisti fuori dagli schemi e amanti dei percorsi spinosi. Se il cd ha due anime è proprio perché per le prime registrazioni Rickie si è affidata in toto alla loro produzione, ostica e a tratti anche irritante, ma resa comunque emozionante da una tensione artistica che non sentivamo dai tempi di Pirates. Fanno parte di queste session brani secchi e vibranti come l'iniziale Nobody Knows My Name, la bella Circle in the Sand, già edita l'anno scorso nella colonna sonora del film Friends with Money, ma anche gli episodi più discutibili e inafferrabili del disco come Lamp of the Body, la noisosetta Where I Like the Best o l'inutile strumentale Road to Emmaus. La Jones racconta che a metà della lavorazione si è resa conto che su questi binari l'album sarebbe diventato un affascinante gadget per fans dallo stomaco forte. Da qui la scelta di affidare la seconda parte al produttore Rob Schnapf, storico collaboratore del compianto Elliott Smith, il cui spirito sonoro aleggia non poco nei brani più melodici di questa raccolta. Sono nati così piccoli miracoli come Falling Up, che la Jones dice essere musicalmente ispirata dalla leggerezza pop dei Fleetwood Mac, la poetica Elvis Cadillac, le tese e direi quasi tomwaitsiane Tried to be a Man e It Hurts, fino agli incredibili 8 minuti finali di I Was There, una sofferta cavalcata acustica alla Astral Weeks che chiude alla grande il disco. Diciamolo chiaramente: se sfruttata fin dall'inizio, la felice alchimia con le idee di Schnapf avrebbe reso il cd da applausi e stellette a perdere, ma i tanti, troppi momenti irrisolti lo rendono "solo" un capolavoro mancato. Sui testi ci sarebbe troppo da dire: al rock i sermoni non sono mai piaciuti, ma qui siamo fortunatamente ben distanti dai vaneggiamenti missionari del Dylan di Slow Train Coming, soprattutto perchè questi frequenti inviti ad una spiritualità "vera" sono molto più assimilabili alla cruda condanna della modernità che permea le canzoni della Joni Mitchell più matura. Inviti sui quali ci sarebbe molto da pensare e discutere…magari in un'altra occasione, magari da soli nella nostra coscienza. (Nicola Gervasini)
Rootshighway
VOTO: 7,5
Non ci sono vie di mezzo nella musica di Rickie Lee Jones: ti prende, ti colpisce, ti azzanna poi ti abbandona, ti scuote violentemente poi non ti tocca più, e quando ben pensi di averne afferrato in pieno il senso arriva sempre il punto in cui ti disorienta, ti porta fuori strada. Se The Evening of My Best Day aveva dato l'impressione di un punto di arrivo di una affascinante ricerca stilistica, piena di soddisfazioni quanto di clamorosi passi falsi, il nuovo album riparte da zero buttando a mare la teorica maturità raggiunta. Le sonorità acustiche potrebbero far pensare ad un nuovo Traffic From Paradise, ma qui non c'è un Leo Kottke a tessere divine trame armoniche, ma gli spigolosi Lee Cantelon, collaboratore fin dai tempi delle Naked Songs, e Peter Atanasoff (ex Tito & Tarantula), musicisti fuori dagli schemi e amanti dei percorsi spinosi. Se il cd ha due anime è proprio perché per le prime registrazioni Rickie si è affidata in toto alla loro produzione, ostica e a tratti anche irritante, ma resa comunque emozionante da una tensione artistica che non sentivamo dai tempi di Pirates. Fanno parte di queste session brani secchi e vibranti come l'iniziale Nobody Knows My Name, la bella Circle in the Sand, già edita l'anno scorso nella colonna sonora del film Friends with Money, ma anche gli episodi più discutibili e inafferrabili del disco come Lamp of the Body, la noisosetta Where I Like the Best o l'inutile strumentale Road to Emmaus. La Jones racconta che a metà della lavorazione si è resa conto che su questi binari l'album sarebbe diventato un affascinante gadget per fans dallo stomaco forte. Da qui la scelta di affidare la seconda parte al produttore Rob Schnapf, storico collaboratore del compianto Elliott Smith, il cui spirito sonoro aleggia non poco nei brani più melodici di questa raccolta. Sono nati così piccoli miracoli come Falling Up, che la Jones dice essere musicalmente ispirata dalla leggerezza pop dei Fleetwood Mac, la poetica Elvis Cadillac, le tese e direi quasi tomwaitsiane Tried to be a Man e It Hurts, fino agli incredibili 8 minuti finali di I Was There, una sofferta cavalcata acustica alla Astral Weeks che chiude alla grande il disco. Diciamolo chiaramente: se sfruttata fin dall'inizio, la felice alchimia con le idee di Schnapf avrebbe reso il cd da applausi e stellette a perdere, ma i tanti, troppi momenti irrisolti lo rendono "solo" un capolavoro mancato. Sui testi ci sarebbe troppo da dire: al rock i sermoni non sono mai piaciuti, ma qui siamo fortunatamente ben distanti dai vaneggiamenti missionari del Dylan di Slow Train Coming, soprattutto perchè questi frequenti inviti ad una spiritualità "vera" sono molto più assimilabili alla cruda condanna della modernità che permea le canzoni della Joni Mitchell più matura. Inviti sui quali ci sarebbe molto da pensare e discutere…magari in un'altra occasione, magari da soli nella nostra coscienza. (Nicola Gervasini)
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