06/06/2008
Rootshighway
VOTO: 6,5
Per uno nato e vissuto a Las Vegas diventare un protagonista dei bar di Nashville deve essere stato un bel trauma, ma Mark Huff era fregato in partenza dalla sua faccia da eterno bravo ragazzo, esattamente il tipo che nella Mecca del gioco d'azzardo diventa preda da spennare, mentre nella capitale della country-music fa tanto "good ol'boy", uno di quelli a cui paghi subito da bere per sentirgli strimpellare un paio di buone canzoni. Poco importa se Huff "boy" non lo è più da parecchio, essendo uno che ha esordito ben 18 anni fa, a dispetto del fatto che Gravity sia solo il quinto capitolo della sua storia personale. Una vicenda fatta di un terzo disco (Skeleton Faith del 1999) che ha avuto riconoscimenti dal mondo della musica d'autore di serie A, onori che gli hanno permesso di fare da opening-act a sua maestà Dylan, ma che parla anche di un successivo Clean subito perso nei meandri delle produzioni indipendenti. Ma ancora una volta Huff ha coinvolto in studio qualche illustre compagno di bevute, tutti pronti a dare una mano perché questo Gravity possa finalmente essere il shot-record della sua carriera. Così qui uno dei factotum di casa (basso, chitarre e voci) è nientemeno che "Mr Georgia Satellites" Dan Baird, la batteria è affidata all'esperto Brad Pemberton, uomo fidato di Ryan Adams, così come lo è stato il veterano Bucky Baxter alle chitarre. Produzione, tastiere e altre chitarre sono invece appannaggio del giovane Adam Landry, quasi esordiente come produttore, ma session-man rodato da "Miss Earle" Allison Moorer, qui presente nelle vesti di "guest star" di lusso nel duetto di In The Dark. Con simili credenziali fallire sembrerebbe impossibile, e di fatto Gravity, dal lato produttivo, è un buon disco di classico country-rock autoriale e molto elettrificato, un delizioso "nulla di nuovo" che si fa sempre gradire in questi lidi. Purtroppo Huff a conti fatti si rivela artista non ineccepibile nel dare spessore e vera personalità con la propria voce anche ai brani più interessanti, come la stessa Gravity, o la ballatona corale Wrong Or Right. Al massimo quando il colpo è ben riuscito, come capita in Something That I Broke o in Killing Me Slowly, riusciamo a ritrovare con la mente (e soprattutto col cuore) lo spirito e la musica dei tanti losers alla Michael McDermott, per dirne uno che a mettergli per le mani un brano come Nothing Wrong With Us farebbe scintillare ben altre faville. Gravity è un disco che suona un po' vecchio, non solo perché in effetti registrato e pronto per la pubblicazione già dal 2004, ma perché gioca tutte le sue carte buttando sul piatto il gran cuore della copertina, un organo che un tempo bastava a creare durature leggende di perdenti-rock di primissimo livello, ma che oggi da solo produce al massimo buone colonne sonore per un paio di pinte tra amici. Quelle che saremo comunque pronti ad offrirgli il prossimo autunno, quando Huff dovrebbe transitare anche nella nostra penisola per un piccolo tour. (Nicola Gervasini)
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