martedì 16 settembre 2008

MALCOLM MIDDLETON - Sleight Of Heart


BUSCADERO - marzo 2008


VOTO: 6


C‘è una sorta di nevrotica urgenza nella fretta avuta da Malcolm Middleton di pubblicare un nuovo disco, giusto a ridosso dell’apprezzato A Brighter Beat del 2007. La stessa frenesia e voglia di azione che cattura quando finisce una lunga storia d’amore probabilmente, o forse semplicemente la necessità di un artista che deve ricrearsi una carriera di battere il chiodo finché è caldo. La storia d’amore lasciata al passato era quella degli scozzesi Arab Strap, duo composto con l’amico Aidan Moffat, giunti consensualmente al capolinea nel 2006 con un album che non poteva che chiamarsi The Last Romance. Middleton, che già aveva licenziato di suo due album nel 2003 (lo struggente 5:14 Fluoxytine Seagull Alcohol John Nicotine) e nel 2005 (il più respirabile Into The Woods), non ha perso tempo, e tra dischi in studio e pubblicazioni live, tiene alta l’attenzione di quel pubblico che ha mostrato interesse per il suo “indie post-folk” (o “new-folk”, o metteteci voi la categorizzazione che più vi aggrada, visto che ormai in questo calderone ci finisce qualunque cosa non sia ben definibile), tanto da portare recentemente nelle classifiche inglesi una improbabile hit come la lugubre We’re All Gonna Die. Sleight Of Heart continua sulla stessa strada dei suoi predecessori, anche se fa sua una leggerezza pop che dà più aria e sollievo al marchio di fabbrica crepuscolare dell’autore. A dominare nell’album è il suo bel piano e tutto l’armamentario base per un buon disco di brit-folk: intrecci di acustiche, arrangiamenti di archi, qualche controcanto femminile e sopratutto la voce pigra e indolente di Malcolm. La scelta di alleggerire i toni è evidente fin dalle 3 cover presenti nel disco, visto che il malinconico Middleton, in pieno “amarcord” della sua adolescenza, ha rimembrato quando comprò e consumò Like A Virgin di Madonna, a sua detta il terzo vinile della sua ricca collezione. Di quel disco Malcolm ripropone Stay, forse il brano meno noto (diciamo uno dei pochi che non uscì anche come singolo), una canzonetta sulle delusioni amorose adolescenziali della signora Ciccone che nelle sue mani si trasforma in una cadenzata filastrocca dal mood autunnale. Ma a Middleton piace sorprendere, e dalla sconfinata discografia del connazionale King Creosote pesca una splendida Margarita Red, bella melodia in mid-tempo che gli dà l’occasione di fornire l’episodio più scanzonato e ritmato della raccolta. Ma ancora più sorprendente è il ripescaggio di Just Like Anything, un brano contenuto nell’unico album pubblicato da un oscuro folk-singer di nome Jackson C. Frank, (un disco prodotto nel 1965 nientemeno che dal giovane Paul Simon), un nome dimenticato dai più che Middleton incorona in qualche modo come precursore di tutto lo sterminato mondo dell’indie-folk moderno. Se le cover movimentano molto la proposta, il registro non cambia invece nelle canzoni autografe, tra cui si segnalano la particolarmente ispirata Blue Plastic Bags e soprattutto Love Comes In Waves, l’highlight del disco, una lunga e sofferta ballata di oltre sette minuti che inizia come una scarna e involuta folk-song, si sviluppa più compiutamente nella parte centrale e si conclude con un laconico quanto contagioso coretto pop ripetuto ad libitum. E’ per brani come questo, o come anche la convincente Week Off che apre il disco, che abbiamo la conferma del gran bel talento di Middleton, ma anche il rammarico che a volte il dogma del minimalismo sonoro e compositivo a cui si è da tempo votato possano essere una sorta di freno a realizzare album più complessi e maturi. Infatti spesso Middleton cerca la leggerezza poetica a tutti i costi (Follow Robin Down), quando non trova la melodia giusta si aggrappa alla tradizione folk più tradizionale (Total Belief) o semplicemente chiude il disco con brani come Hey You, che sembra un abbozzo di canzone, quasi un demo di un disco che non ha nessuna intenzione di realizzare. Un gusto delle piccole misure evidenziato anche nella durata del disco, 33 minuti che sanno di vinile d’altri tempi, forse una saggia necessità per chi adotta uno stile molto omogeneo e rischia alla lunga di stancare, ma anche una forte sensazione di un whiskey stappato troppo presto e non lasciato opportunamente invecchiare e maturare. Il che è un peccato quando ci si rende conto che il distillatore avrebbe arte e coraggio per mescere prodotti ben più curati.

Nicola Gervasini

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