20/02/2008
Rootshighway
VOTO: 5,5
Più che di una confessione da artista, Willy DeVille avrebbe proprio bisogno di una bella terapia psicoanalitica. A furia di giocare con il proprio personaggio, sempre sospeso tra realtà e finzione, il nostro eroe è finito per diventare la macchietta da fumetti della copertina di Pistola, un ammasso di tatuaggi colorati su un uomo che non riesce neanche più a farsi fotografare con gli occhi completamente aperti. Eppure Pistola esaurisce nelle foto del booklet la buffonata delle pose da pirata del rock con sigaretta di ordinanza, una galleria iconografica che francamente comincia a sembrare un po' caricaturale per uno di 57 anni. So So Real infatti gli sbatte in faccia subito la dura realtà: "I ain't a rocket, just a shooting star, like I've become so unreal", e da qui la necessità di trovare una nuova consapevolezza di sé stesso. E per farlo Willy è ripartito dal via, recuperando proprio in So So Real quelle chitarre sporche che costellavano le prime storie di New York raccontate nei due album d'esordio dei Mink DeVille. E così si parte in un viaggio a ritroso nella vita Devilliana, prima con il selvaggio funky di Been There Done That, che riprende il tema di un uomo che cerca di non rifare gli stessi errori del passato, poi con l'ottima ballata acustica When I Get Home, in cui Willy si fa prendere dalla nostalgia di un casa e di un abbraccio rassicurante. Oppure nei ricordi di gioventù suscitati dalla cover di Louise, brano del dimenticato cantautore Paul Siebel, un testo che Deville usava cantare già nei primi anni della carriera. Ma a questo punto del disco la sua memoria comincia ad impantanarsi nell'alluvione di pensieri scatenati dal ricordo della sua New Orleans, prima con la suggestiva The Band Played On, una sorta di funerale personale ("I lost my New Orleans") alla città che lo ha ospitato umanamente e artisticamente dal 1990, poi con il faticoso blues di You Got The World In Your Hands, un confuso sogno ("Lord, I want this feeling when I awake") che sa ancora una volta di training autogeno. C'è tempo per una poco convinta romanza d'amore sui suoi primi passi in materia (Remember The First Time), ma anche qui alla fine sale la sconsolata considerazione che i ricordi affiorano "nonostante sia passato tanto tanto tempo". E' a questo punto che DeVille, convinto di essersi riscoperto, si cala nei nuovi panni di un poeta metropolitano e chiude il disco con due recital (Stars That Speak e The Mountains Of Manhattan) e una strascicata dichiarazione di intenti sulla sua vita futura (I'm Gonna Do Something The Devil Never Did). Quindici minuti in totale di un uomo che descrive le immagini delle sua mente senza curarsi di trasformale in canzoni vere o proprie, di un artista che aveva bisogno di fare un disco importante per sé stesso ma non certo per noi, che dopo una prima parte convincente, passiamo gli ultimi venticinque minuti del disco cominciando a chiederci se davvero abbiamo voglia di sapere chi sia veramente Willy DeVille o se davvero non fosse meglio l'irreale e pittoresco zingaro della copertina.(Nicola Gervasini)
N.B voto originale più che sufficente, ma l'album nei mesi ha perso molto: delusione cocente
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