VOTO: 8
Che la libertà d’esprimersi sia una bella cosa siamo tutti d’accordo, che da sola basti a garantire anche maggiore qualità, è tutto da discutere. Prova ne è James Jackson Toth, un giovane artista che, fin dai primi passi della carriera, ha goduto delle moderne leggi del “pubblico tutto quel che voglio, quando voglio e come voglio”. A partire dal 2004, con lo pseudonimo di Wooden Wand, questo freak-folker del Tennessee ha pubblicato ben 7 dischi, due all’anno circa, mettendo in circolazione di tutto, canzoni finite, bozzetti, scherzi d’autore, spesso corredati da colorate copertine ironiche (quella di Second Attention era esattamente la cover di Stormbringer di John e Beverly Martyn, con lui al posto di John). Tutto questo per capire che fino ad oggi questo ragazzo di evidenti origini ungheresi ha fatto la doverosa gavetta (quella che tutti dovrebbero fare prima di pubblicare album a vanvera) giocando a fare il piccolo Frank Zappa del mondo indie. Ma quando poi capiti nelle mani di un’etichetta come la Rykodisc, specializzata da venticinque anni nel trasformare in professionisti nomi raccolti alla fiera dell’amatore, allora le cose cambiano necessariamente. Significativo infatti che per questo Waiting In Vain Toth abbia abbandonato i vari nicknames usati fino ad oggi, e si presenti come un esordiente a tutti gli effetti nel mondo della musica che conta. Decisivo nella buona riuscita del disco anche il fatto che queste dodici canzoni sfruttino l’esperienza di rodati musicisti abituati a coniugare stravaganza e concretezza, con risultati storici anche clamorosi. Il produttore Steve Fisk, figura chiave del rock anni 90, è l’uomo che ha prodotto i primi passi di Soundgarden, Screaming Trees e anche Nirvana, e ha in seguito continuato a predicare originalità dando anima ai dischi dei Boss Hog, Low e Soul Coughing,. Il chitarrista Nels Cline è il valore aggiunto dei Wilco più recenti, mentre la polistrumentista Carla Bozulich (che ora pubblica in proprio con lo pseudonimo Evangelista) è la ciliegina sulla torta in termini di sregolatezza. Il resto della band di casa è composto da una serie di validi musicisti della scena alternativa di S.Francisco, come il chitarrista John Dietrich, Andy Cabic e Otto Hauser dei Vetiver (band spesso al seguito di Devendra Banhart), e il bassista Shayde Sartin. Il grande merito del team Toth/Fisk è stato quello di non lasciare che tanta fantasia creasse solo un anarchico giocattolino, probabilmente destinato agli amanti della eccentricità a tutti i costi, ma di riuscire perfettamente a incanalare tanta creatività in una serie di canzoni semplici, ma che richiedono comunque impegno e dedizione per essere sviscerate. Nothing Hides infatti inizia laddove il mondo del folk psichedelico odierno finisce ogni volta, in un mix di suoni roots e voci impasticcate, ma la successiva Doreen già depista le indagini sulle possibili categorizzazioni della sua musica, offrendo una straordinaria stralunata love-song, sviluppata melodicamente senza il timore di viaggiare sul pericoloso confine tra emozioni e melensaggini. Toth predilige prendere in prestito schemi classici e renderli obliqui e fuori logica, vuoi seguendo le orme del non-sense-folk alla Robyn Hitchcock (The Banquet Styx), oppure lasciando che sia la chitarra di Nels Cline ad ubriacare l’incedere strascicato di Look In On Me. Toni lugubri alla Nick Cave (che farebbe carte false per tirare ancora fuori una Becoming Faust dal suo cilindro) si alternano a momenti più riflessivi e rilassati, come Poison Oak o Midnight Watchman, che rinunciano saggiamente a qualche trovata produttiva per evidenziare l’abilità del Toth songwriter. Spettacolare la parte centrale del disco: Beulah The Good è una cavalcata dylaniana tesa ed emozionante, tappezzata dai cori della Bozulich, mentre le elettriche di The Park mischiano pop e psichedelia con il giusto ardore. Prima del gran finale, ancora alcuni bozzetti semi-acustici (la tenue Do What You Can e la sgangherata My Paint), e poi i 7 minuti di ipnosi di The Dome, con la sfida tra le voci di James e Carla e la chitarra di Cline, che chiude in pieno feedback il disco. La perfezione è un’altra cosa, le credenziali a posto per diventare un classico anche, ma Waiting In Vain è il disco giusto per far partire qualcosa di importante, con tante belle idee che chiedono solo di essere ulteriormente sviluppate e fatte crescere. In una parola sola: promettente.
Nicola Gervasini
Nicola Gervasini
Nessun commento:
Posta un commento