domenica 14 settembre 2008

THEA HOPKINS - Chickasaw


10/10/2007

Rootshighway


VOTO: 6,5



Una bella ma alquanto titanica impresa sarebbe riuscire a stilare una precisa geografia di tutte le scene locali statunitensi, città per città, onde meglio comprendere meglio dischi come questo Chickasaw di Thea Hopkins, che ci arriva in redazione seguito da precisi elenchi di premi vinti in gare cittadine o esaltazioni di giornali di contea. Vista l'impossibilità di tanta certosina analisi, e restando con la non risolta curiosità di sapere ad esempio chi vinse in quel Boston Folk Festival del 2004 dove Thea si piazzò al secondo posto, prendiamo per buona la definizione di "one of the most literate, poetic and emotionally moving of the new singer-songwriters". D'altronde è impossibile per noi non essere incuriositi da un disco sottotitolato come una raccolta di "American Short Story Folk", etichetta che rende subito evidente il carattere molto letterario delle sue canzoni. Di fatto la Hopkins si rivela subito essere una penna veramente notevole, con uno stile lirico che predilige il racconto per immagini e suggestioni. Si prenda ad esempio il plot di Jesus Is On The Wire (un brano inciso anche in un disco recente dallo storico trio folk Peter, Paul & Mary), storia di un ragazzo di strada trovato morente sul ciglio della Route 25, ma con un testo che si sofferma nel descrivere la visione di quello che sta intorno al corpo, relegando ad un unico verso ("They said that he slept with guys") l'unica ambigua spiegazione dell'accaduto. Oppure ancora l'avvincente title-track, una sorta di Hey Joe al contrario, dove la Hopkins racconta tutte le fasi del viaggio in treno di una squaw indiana (lei stessa è una mezza pellerosse) che armata di pistola va in città ad ammazzare il cowboy che l'ha sedotta e abbandonata. Ma anche racconti personali (Newspapers Wings), poesie d'amore alla Emily Dickinson (Once There Was A Lover), veri e propri road movie in versi (Medicine Line) e appassionati canti religiosi (Little White Church). Purtroppo però trattandosi non di un libro ma di una collezione di canzoni, arriviamo al punto ancora dolente: la Hopkins ha una voce molto particolare, quasi jazzistica (ricorda lontanamente quella della chanteuse Madeleine Peyroux), ma il risultato che ottiene risulta essere piuttosto monocorde, ed è difficile quasi distinguere una canzone dall'altra. Non l'aiutano uno stuolo di pur validi musicisti come il pianista Tim Ray e la pletora di chitarristi di professione tra cui David Goodrich e Bob Metzeger, gente che vanta Suzanne Vega, Leonard Cohen o Lyle Lovett nel curriculum, che realizzano un bel tappeto acustico multilivello (sempre almeno 4 o 5 strumenti a corda in contemporanea), purtroppo reiterato in maniera poco varia per tutto il disco. Promossa dunque la sostanza, rimandata la forma, ma una menzione speciale per la canzone Jenny Danced, descrizione dei sogni di una bambina che sente i genitori litigare al di là del muro: un brano devastantemente bello che speriamo venga notato presto da un interprete di maggior peso.(Nicola Gervasini)

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