martedì 16 settembre 2008

STEPHEN SIMMONS - Something In Between


BUSCADERO - Dicembre 2007


VOTO 6,5



Delle volte anche le cose più semplici e banali possono essere gradevoli se fatte con cura e attenzione. E’ il caso di Something In Between, terzo album del cantautore Stephen Simmons, un ragazzone del Tennessee che fino ad ora si era fatto notare grazie a due produzioni indipendenti (Drinking Ring Jesus e il lunghissimo Last Call) senza però troppe fortune. Simmons l’anno scorso ha incontrato Richard McLaurin, un giovane promettente produttore con Matthew Ryan (suoi molti meriti dell’intenso sound di Concussion) e Jeff Finlin nel curriculum, e con lui ha condiviso l’intenzione di uscire dalle atmosfere folkie dei suoi primi lavori per abbracciare sonorità country-rock di più largo respiro che esaltassero la carica melodica dei nuovi pezzi. McLaurin ha portato così Simmons a Nashville, nientemeno che negli House Of David Studios di David Briggs, dove ad attenderlo c’era una gruppo di musicisti da sogno: oltre allo storico produttore, a cui va il merito di quasi tutte le ottime tastiere del disco (organo, piano e wurlitzer), erano della partita anche il mitico pedal-steel player Al Perkins (uno che negli anni settanta ha suonato con tutto il gota della musica americana e che magari qualcuno ricorderà anche come co-titolare di un album con Dan Stuart dei Green On Red nel 1994), la nota violinista country Tammy Rogers, il bassista Billy Mercer (sentito nelle band di Ryan Adams e Todd Snider), il chitarrista Joe McMahan (Allison Moorer, Kevin Gordon) e il batterista Ken Lewis. McLaurin rimane comunque protagonista assoluto tra mille chitarre, lap steel e organi e vero deus ex machina di un suono pieno, molto pulito, a volte forse fin troppo perfetto, senza mai una nota di troppo o un ricamo di chitarra fuori posto. Eppure proprio questa perfezione formale sembra aver in qualche modo giovato alle canzoni di Simmons, che è uno di quegli autori che ricercano l’essenzialità lirica e melodica, scrive testi lineari e sempre immediatamente comprensibili, incastonati in soluzioni musicali sempre elementari, quasi ovvie. La forza e assieme anche il limite di Something In Between è questa: queste undici canzoni inizialmente sembrano aver poco da dirti, ma dopo qualche ascolto ti si stampano nelle orecchie e non ti mollano più. Impossibile quindi non fare proprio il giro armonico dell’iniziale Don’t Mind Me, brano anche molto radiofonico, sicuramente adatto a far da singolo, così come non si può non apprezzare la scrittura di Hold You Today, dove McLaurin tira fuori dal cilindro persino l’effetto da sezione d’archi del mellotron per rendere ancora più perforante l’intreccio dei ritornelli. Il mix di chitarre acustiche ed elettriche trova poi il suo naturale sfogo nei riff taglienti di New Scratches, forse l’unico brano dove la soffice vena da folksinger di Simmons sfocia verso un rock più convenzionale, che tra l’altro ricorda non poco i momenti più energici del Rodney Crowell degli ultimi anni, mentre il nostro sicuramente si rivela più a suo agio nelle pigre ballate come l’intensa We’ll See o la malinconica Cloudy In L.A.. Tra i vari brani si distingue la bella Long Road, ben arrangiata con gli impasti vocali dei coristi Jodi Haynes e Dave Peterson. L’aria di Nashville invece si sente nella ballatona country Down Tonight, dove ovviamente è il violino di Tammy Rogers a dirigere le danze, mentre il feeling da cantante solitario viene fuori nelle acustiche Hey e nella un po’ troppo pastosa Blues On A Sunny Day. Chiudono il disco una bella cavalcata in stile West Coast come Go Easy On Me, una sorta di moderna Take It Easy anche nei suoni delle chitarre alla Eagles oltre che nell’atmosfera crepuscolare alla Jackson Browne, e la conclusiva All The Time I’ve Got, una ballata acustica che strizza l’occhio al songwriting di John Prine. Resta la sensazione che Something In Between sia uno di quei casi in cui la buona produzione abbia più meriti di un artista che ci regala undici canzoni piacevoli ma mai davvero memorabili. Ma Stephen Simmons sembra aver scelto una strada che gli ha permesso di fare un disco maturo e di buon livello e di uscire probabilmente dall’anonimato della scena indipendente, e se le compagnie rimarranno queste, potrebbe essere interessante continuare a seguire le sue vicende.


Nicola Gervasini

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