19/03/2008
Rootshighway
VOTO: 6,5
Nashville, Tennessee, la Mecca del country che qui tutti amiamo, ma anche la grottesca macchina da business descritta a suo tempo da Robert Altman, cresciuta nel cuore dell'America bianca e conservatrice come indotto di una trasmissione radiofonica (il Grand Ole Opry). Jim Lauderdale è un prodotto di questa Nashville, nel bene e nel male di una carriera discografica ormai quasi ventennale, nata all'ombra del suo pigmalione Rodney Crowell e proseguita tra tanti onori, Grammy Awards e vendite considerevoli. Non è un caso che anche il francese Philipe Cohen Solal dei Gotan Project si sia rivolto proprio a lui in primis per il suo trip nashvilliano delle Moonshine Sessions, Lauderdale infatti è forse il più rappresentativo e credibile trait d'union tra la Nashville marchettara e quella più sregolata e creativa degli "outlaws", con abbastanza personalità per non finire nella massa informe dei blockbusters alla Garth Brooks e troppo poca per arrivare a produrre opere a livello dei suoi padri artistici. Honey Songs è il suo quarto album negli ultimi 18 mesi, e saremmo tentati a sospettare un frettoloso contentino al numeroso pubblico che ha decretato il successo dei suoi recenti bestsellers dedicati al bluegrass. Invece Lauderdale ha evidentemente sentito il bisogno di tornare in fretta a fare la sua musica e a farla con la gente giusta. I Dream Players che lo seguono sono infatti una band da sogno di nome e di fatto: il chitarrista James Burton e il batterista Ron Tutt sono nati nella band di Elvis Presley, Garry Tallent al basso è proprio quello della E-Street Band in libera uscita, Glen D. Hardin al piano e Al Perkins alla pedal steel sono quanto di meglio si possa sperare di trovare in uno studio di registrazione del Tennessee. Si aggiungano ai cori Emmylou Harris, Buddy Miller, Patty Loveless e Kelly Hogan e il quadro è completo. Honeysuckle Honeypie inizia le danze nel modo migliore, con un bel seventies-sound corredato da cori femminili e un Burton straordinario nei ricami chitarristici, e sulla stessa falsariga si svolge anche la più rockeggiante Stingray. I Hope You're Happy segue rappresentando al meglio la sostanza del disco: il brano è scontato come il sereno dopo la tempesta, ma l'esecuzione e l'interpretazione di Lauderdale riescono a rivalutarlo a ottimi livelli. Le Honey Songs di Lauderdale sono queste, sospese a metà tra la pura accademia (Hittin' It Hard, Molly's Got A Chain o anche il motivetto balneare di Borrow Some Summertime), qualche soluzione melodica di facile impatto (la ballatona strappalacrime It's Finally Sinkin'in), e qualche convincente cavalcata nella prateria (le riuscite The Daughter of Majestic Sage e Those Kind of Things Don't Happen Every Day). La lunga dichiarazione di I'm Almost Back chiude poco più di mezz'ora di discrete country-songs suonate e cantate come Dio comanda…quanto basta per ritagliarsi un ruolo primario nella discografia di Lauderdale e un piccolo spazio nelle nostre programmazioni.(Nicola Gervasini)
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