mercoledì 17 settembre 2008

RADAR BROS - Auditorium


23/05/2008

Rootshighway


VOTO: 5,5


A Los Angeles i Radar Bros. sono una specie di piccola istituzione della cosiddetta scena "slo-core" di metà anni 90 (Red House Painters e Low gli involontari capostipiti del genere), e ancora oggi i "fratelli" continuano a cavalcare indomiti le scene americane, nonostante il successo non sia arrivato neppure con un titolo acclamato dalla critica come And The Surrounding Mountains del 2002. Con una cadenza di pubblicazioni pigra quanto la loro musica, Auditorium è dunque solo il quinto album in tredici anni di attività. Il leader Jim Putnam è una specie di David Gilmour prestato alla West Coast (o un Neil Young mandato a scuola a Canterbury, dipende in quale lato dell'oceano siete con la testa), un teorizzatore di una sorta di via "pastosa" della canzone d'autore americana. Auditorium suona più o meno come prendere il lato A di Meddle dei Pink Floyd e farlo suonare dai Crazy Horse ammorbiditi da una massiccia dose di sonnifero. In più aggiungeteci sezioni d'archi a non finire, tanto pianoforte (molto piano - poco forte), e voci che si rincorrono su frequenze psichedeliche, e avrete così una sorta di nuovo Pet Sounds che cerca di far tesoro di tante influenze (Lake Life è di base una semplice country-song ad esempio), senza però centrarne mai pienamente una. Lo strano mix rappresenta infatti il pregio e il difetto della band, e Auditorium conferma che i Radar Bros. restano ancora oggi solo un abbozzo di un gruppo seminale per la nostra musica, un progetto accattivante presto sfumato in una creatura senza contorni. Inoltre, più passa il tempo, più Putnam sembra perdere interesse nella scrittura, si accontenta di sovra-arrangiare semplici piano-song come Watching Crows o Happy Spirits, beandosi del risultato solare e cullatorio del sound, ma dimenticandosi della sostanza. Forse pensava bastasse l'innesto nel combo del polistrumentista Jeff Palmer, proveniente dai disciolti Granfaloon Bus (altra storica band di San Francisco, già trattata a suo tempo su queste pagine), oppure qualche solare e scanzonata ballata da fuoco sulla spiaggia come Pomona, per nascondere un pauroso calo di ispirazione compositiva. Invece Auditorium risulta coerente con il suo titolo anche nella sua ricetta: 90% suono, 10% canzoni. Qualcosa fortunatamente è rimasto: l'apertura di When Cold Air Goes To Sleep fa ben sperare, lo strano incedere di On Nautilus coglie impreparati chi già si era rassegnato a più di 45 minuti di ninna nanne, ma quando si arriva ad una canzone davvero faticosa come A Dog Named Ohio, si getta un po' la spugna. La nostra paura è che tutto questo sussurrare, smussare, ovattare e ingentilire che pervade ormai gran parte delle produzioni indipendenti, sia di vecchia, sia di nuova generazione, stia creando una sorta di piatta, masturbatoria e illusoria "New Age" della musica americana. Tendenza che, francamente, cominciamo un po' a temere come un flagello.(Nicola Gervasini)

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