sabato 20 settembre 2008

TIM HARDIN STORY


Tim Hardin "Hang on to a Dream"


Come tanti altri aveva percorso i sentieri della rinascita folk del Village, il quartiere simbolo di una riscoperta culturale per la giovane America dei primi anni Sessanta. Poi Tim Hardin ha cambiato subito le carte in tavola, diventanto un oggetto misterioso, un folksinger solitario e introverso, un eroe di culto che ha segnato, forse al pari del solo Fred Neil, spirito affine, una stagione di "loser" che cantavano con l'anima in mano
di Nicola Gervasini



:: Il ritratto



Tim James Hardin
Born: 23 dicembre 1941 Eugene, Oregon, USA
Died: 29 dicembre 1980 Los Angeles, California, USA

La storia del rock è un carrozzone neanche troppo elegante composto di poche e stereotipate figure umane: c'è la rockstar tutta "sex, drugs and rock & roll" alla Mick Jagger, l'artista maledetto alla Jim Morrison, il pensieroso intellettuale alla Leonard Cohen, l'anarchico genialoide alla Frank Zappa, e altre ancora. E poi c'è il "loser", una definizione che si utilizza spesso nella storiografia musicale, un po' per abitudine e forse magari senza neanche interrogarci sul suo reale significato e la sua origine. Ad aiutarci nell'impresa è la figura di Tim Hardin, protagonista suo malgrado della più tipica vicenda artistica da loser, la più esaustiva, quella che ha cementato in un cliché la definizione. Gli elementi che definiscono un loser possono essere i seguenti: il soggetto in questione deve avere un gran talento, questo talento deve essere riconosciuto dalla critica e dai colleghi, ma non dal grande pubblico, e questo mancato riconoscimento deve coincidere con una insicurezza negli affetti e nella vita, una fragilità che non necessariamente porta all'autodistruzione tipica dell'artista maledetto (di certo Morrison o Cobain non erano definibili come dei "losers"), ma molto più soventemente ad un triste isolamento dal mondo. La storia di Tim Hardin comincia, come quella tutti i folksinger di prima generazione, al Greenwich Village di New York, dove fin da subito Tim è una stella, conosciuto come il più blues-oriented tra i vari eroi del quartiere come Dylan, Fred Neil o Eric Andersen, e soprattutto noto per esser un parente del fuorilegge John Wesley Hardin, parentela in verità mai appurata a quanto pare. Ma è trasferendosi a Boston nel 1963 che Tim incontra Erik Jacobsen, un giovane produttore con l'orecchio svelto che ne intuisce le grandi potenzialità. Jacobsen, che presto farà fortuna scoprendo i Lovin Spoonful (una delle prime macchine da soldi del rock rurale americano) e più tardi diventerà il produttore di fiducia di Chris Isaak, lo porta nientemeno che alla Columbia Records, l'etichetta di Dylan, dove sosterrà un fallimentare provino. Alla fine il suo primo contratto lo troverà con la Verve, un'etichetta jazz sempre più interessata ad allargare il proprio raggio d'azione. Così quello che era un semplice blues-singer si trasformò in un innovativo cantautore sfruttando due grossi background della sua infanzia: da una parte l'educazione jazzistica impartitagli dal padre, che si rivelerà decisiva quando il nostro cercherà una propria via stilistica, dall'altro il suo amore adolescenziale per Hank Williams e il mito degli "hobo" americani, una passione ancora controcorrente nei primi anni sessanta quando la figura di Hank non era ancora stata sdoganata dall'"intellighenzia" musicale. Country, blues, folk e jazz: quattro mondi che nella musica di Hardin si sono incontrati e sono convissuti in piena armonia, tutti al servizio di un autore unico e inimitabile, maestro di qualsiasi cantautorato intimista e introspettivo. Nel 1969 la sua carriera era pronta a decollare: le canzoni contenute nei suoi primi due album in studio spadroneggiavano nelle hit parade nelle versioni di altri artisti, aveva pure conquistato una certa visibilità data dalla partecipazione al festival di Woodstock, insomma tutto era pronto per il primo successo personale. Finirà male invece la vicenda di Tim Hardin: nel 1970 investirà tutte le sue forze emotive in un rovinoso album dedicato alla moglie, e gli inutili tentativi della Columbia di rimetterlo in pista con album più accessibili aumenteranno solo il suo crescente disinteresse per la scrittura e la voglia di un isolamento e una autodistruzione che lo porterà a morire nel 1980 per overdose di eroina. Segnato come un loser fin dallo sguardo, Hardin ha insegnato a intere generazioni di cantautori come si raccontano le emozioni, e nessuno mai ha messo davvero in gioco tutto sé stesso per farlo come ha saputo fare lui. E ancora oggi sulla sua lapide campeggia l'epitaffio "He Sang From The Heart".

:: Il capolavoro

Tim Hardin 3 Live in concert
[Verve Forecast 1968]

1.The Lady Came From Baltimore/ 2. Reason To Believe/ 3. You Upset The Grace Of Living When You Lie/ 4. Misty Roses/ 5. Black Sheep Boy/ 6. Lenny's Tune/ 7. Don't Make Promises/ 8. Danville Dame/ 9. If I Were A Carpenter/ 10. Red Ballon/ 11. Tribute To Hank Williams/ 12. Smuggin' Manss

Nel 1968, in attesa di trovare le forze per registrare il terzo album in studio, Tim Hardin, ebbe un ingaggio per alcune serate alla Town Hall di New York. Non avendo una sua band fissa in città, Tim assoldò appena due giorni prima dei concerti alcuni musicisti della scena jazz newyorkese: il pianista Warren Bernhardt era un discepolo di Bill Evans e suonava da tempo nella band di Gerry Mulligan, dalla quale provenivano anche il bassista Eddie Gomez e il batterista Donald MacDonald, mentre il chitarrista Daniel Hankin era una giovane promessa non mantenuta della scena folk (sarà al fianco di Karen Dalton per due album prima di scomparire nel nulla…). Il pezzo forte della band era però il vibrafono di Mike Mainieri, uno dei più grandi virtuosi dello strumento, che caratterizzerà il suono di questo straordinario live. Non a caso nel 1982 Mark Knopfler dichiarerà candidamente di aver chiamato Mainieri a suonare in Love Over Gold dei Dire Straits solo sulla base del ricordo di questo disco. La registrazione del concerto, non perfetta tecnicamente forse, ma ugualmente suggestiva, divenne il terzo disco di Hardin e svelò al mondo tutte le doti di esecutore del cantautore. Innanzitutto perché permetteva di ascoltare i suoi classici spogliati dai fastidiosi arrangiamenti dei primi due dischi in studio, e in seconda istanza perché il concerto rappresentò un importantissima pietra miliare nell'incontro tra jazz e folk. Sicuramente a questo disco devono molto la svolta quasi free-jazz operata da un' altro loser newyorkese, Tim Buckley, ma anche, sull'altra sponda dell'oceano, due attenti ascoltatori come i chitarristi Bert Jansch e John Renbourn fecero tesoro di questi arrangiamenti quando produssero con i Pentangle alcuni splendidi momenti di brit-folk jazzato. Paradossalmente fu proprio l'aria di improvvisazione, evidente in alcuni passaggi anarchici di una band che semplicemente suonava senza conoscere i pezzi, che permise a Mainieri e soci di creare l'atmosfera perfetta per i sofferti vocalizzi di Hardin. Il quale dal canto suo dimostrò di trovarsi a sua agio con accompagnatori che stimolavano le sue interpretazioni, che a questo punto perdevano tutto l'imprinting country-folk per creare un nuovo modo stralunato di cantare. Da questo momento in poi Hardin insistè sempre sul fatto di voler essere considerato solo un jazz-singer e in una intervista arrivò a declamare che "to know jazz is to know god". Il disco, prodotto da Gary Klein, permise ad Hardin di pubblicare anche alcuni nuovi brani, tra cui la splendida Lenny's Tune dedicata a Lenny Bruce (che verrà riproposta da Nico in Chelsea Girl con un titolo leggermente diverso) e soprattutto la spettacolare Danville Dame, brani che avrebbero dovuto riempire un terzo album in studio per la Verve che non vide mai luce.


:: Dischi essenziali

Tim Hardin I
[Verve Forecast 1966]

Il disco di esordio di Tim venne prodotto da Erik Jacobsen, che riunì una serie di session-men allora ancora sconosciuti, tra cui l'armonicista John Sebastian (prossimo leader dei Lovin Spoonful) e il vibrafonista Gary Burton. Alcuni brani sono ancore fortemente legati al blues che caratterizzava il suo stile nei primi anni del Greenwich Village, come How Long, Ain't Gonna Do Without e Smugglin' Man, ma per il resto la vena da cantautore di Hardin viene fuori alla grande nei brani più storici. Primo fra tutti quella Reason To Believe che rimarrà uno dei suoi pezzi più belli e conosciuti grazie soprattutto alla degnissima versione del Rod Stewart di Every Picture Tells a Story (1973), che la porterà nei piani alti delle hit-parade. Con un testo semplice e toccante che già evidenziava tutte le debolezze dell'uomo nei rapporti umani, il brano è la prima vera testimonianza della rotta personalità di Tim e già prima di Stewart fu proposta da veri blockbuster-artists come i Carpenters (1970), Glen Campbell (nel suo Wichita Lineman del 1968, uno degli album più venduti del decennio), una giovane Cher nel 1968 e ancora i Dillards, Bobby Darin, Scott McKenzie, PeterPaul & Mary, tutti nel 1968. Più tardi il brano si potrà trovare anche nei repertori di Johnny Cash (1981), Ramblin' Jack Elliott, Marianne Faithful, Jackie DeShannon, e ne esiste pure una versione dei Jayhawks del 1993. Altri veri capolavori dell'album sono l'iniziale Don't Make Promises (anche questa conta varie versioni, ultima quella notevole di Paul Weller) e Misty Roses (di cui ne offrirono una versione pop i 5th Dimension). Il resto è rappresentato dai primi approcci dell'autore con la canzone folk, brani delicati come Never Too Far, Pat Of The Wind, While You're On Your Way Hardin, It'll Never Happen Again e Green Rocky Road. Chiudeva il disco la sublime How Can We Hang On To A Dream, una specie di lezione al mondo di come si possa fare un testo struggente, ma per nulla patetico o lagnoso, sul classico argomento dell'abbandono dell'amata. Probabilmente la canzone che meglio rappresenta il marchio di fabbrica poetico di Hardin. A rovinare un po' la poesia furono gli arrangiamenti, a volte appesantiti dagli archi o troppo leggerini e melodici, che strizzavano non poco l'occhio al sound di Roy Orbison, senza nulla togliere ovviamente a questo infallibile hit-maker dell'epoca.


Tim Hardin II
[Verve Forecast 1967]

Il secondo album di Hardin uscì neanche un anno dopo ed è sicuramente la raccolta di brani più importante della sua carriera, nonostante la produzione del duo Charles Koppelman e Don Rubin avesse gli stessi difetti di sovrabbondanza del precedente, anzi se vogliamo ancor più annacquati con soluzioni pop. Ad aprire il disco If I Were A Carpenter, probabilmente il suo brano più noto, che lo rappresenta in pieno anche come storia: in un ipotetico gioco di ruolo, Hardin si immagina nei panni di un umile muratore che chiede alla propria donna di sposarlo e avere dei figli con lui. Ma lì dove qualsiasi altro artista non solo sarebbe stato fiero della propria umile condizione sociale, ma anzi avrebbe assunto il tono di chi sta offrendo un'ancora di salvezza per emergere dall'immondizia (pensate solo alla analoga dichiarazione fatta da un umile ma sicuro Bruce Springsteen alla "working girl" di I Wanna Marry You), Hardin dimenticandosi che si tratta solo di un gioco, ad un certo punto chiede incerto would you marry me anyway?, dimostrando in una sola tentennante, speranzosa, persino patetica domanda tutta l'insicurezza e la fragilità di un uomo. Il brano ebbe fin da subito un successo enorme. Nel giro di tre anni finì in classifica nelle versioni di Bobby Darin e di Harry Belafonte. Unanime le attestazioni di stima sia dal mondo del country americano (oltre a Ramblin Jack Elliott (68), buon successo ebbe la versione di Johnny Cash contenuta in Hello I'm Johnny Cash del 1969), che dal mondo del folk (Joan Baez). E uscirono anche versioni più alternative, come ad esempio quella psycho-hard degli American Blues (che per la cronaca erano 2/3 dei futuri ZZTop) nel 1967, o quelle più pop dei Free Design e dei più fortunati Small Faces nel 1969. E ancora negli anni successivi Leon Russell al culmine del suo effimero successo (1972), il Bob Seger ancora sconosciuto di Smokin Op's (72), i Four Tops (73) fino alla buona versione offerta da Robert Plant nel 1994 e l'ultima, la più recente, cantata dalla coppia Sheryl Crow/Willie Nelson nel tributo a Rose June Carter. Per curiosità va citata anche l'immancabile versione del beat nostrano con l'imbarazzante Se Io Fossi Povero dei Rokes. Il resto del disco non era comunque da meno: Lady Came From Baltimore è il primo brano dedicato alla moglie Susan, con Hardin che stavolta si traveste da un ladro che si innamora della propria vittima. Oppure l'incredibile poesia di Red Balloon, cioè l'incontro dell'amata raccontato con gli occhi ingenui e carichi di sorpresa del bambino che compra il giocattolo nuovo, e ancora Black Sheep Boy, un altro titolo che rende evidente la mistica hardiniana del loser, negli anni recenti ben riproposta da Pierce Pettis, Paul Weller e naturalmente dagli Okkervil River, che ci hanno intitolato il loro album più cupo e introverso. Oltre a questi quattro capolavori, il disco offriva comunque brani di altissimo livello emotivo come You Upset The Grace Of Living When You Lie, Speak Like A Child, It's Hard To Believe In For Long. Da notare soprattutto la conclusiva Tribute To Hank Williams, bellissimo e sentito omaggio al mito di gioventù.


Suite for Susan Moore and Damion-We Are-One, All in One
[Columbia 1970]

Dopo una lunga serie di brani portati al successo da altri artisti, nel 1969 Hardin entrò in classifica (per la prima ed ultima volta…) al cinquantesimo posto con il singolo Simple Song Of Freedom, paradossalmente non un suo brano, ma una deliziosa cover di Bobby Darin che cavalcava l'onda del pacifismo post-Woodstock dell'america del tempo. La Columbia Records si decise allora a mettere sotto contratto Hardin, al quale diede carta bianca per autoprodursi un album in casa. Era la sua grande occasione, ma Tim la sprecò creando il suo disco più difficile e controverso. L'idea iniziale era quella di un concept dedicato alla propria moglie e al figlio, un atto d'amore di 40 minuti che Tim visse come l'appuntamento artistico di una vita, e che realizzò registrando l'album nella sua casa/ritiro di Woodstock, piazzando microfoni ovunque, in bagno, in camera da letto, qualunque posto per captare la più spontanea delle manifestazioni d'amore dell'amata e del piccolo pargolo Damion. La finale Susan ad esempio è una poesia recitata da marito e moglie nella cucina di casa. Inutile dire che fu uno dei flop più clamorosi dell'epoca, preso da due fuochi di un pubblico che lo ignorò completamente e la critica musicale del tempo che lo giudicò "imbarazzante quanto entrare nella camera da letto di due sposini durante la prima notte di nozze". Effettivamente il tono di queste canzoni raggiunge sfere di vita intima che per l'epoca erano davvero impensabili, il mondo era pronto ad ascoltare i giochi d'amore delle sue prime canzoni ma le confessioni così personali di queste canzoni sembravano davvero essere troppo per chiunque. La moglie Susan era talmente idealizzata che Tim le affibiò persino un nome d'arte, visto che in verità il suo cognome era Morss. L'iniziale First Love Song era una pura dichiarazione d'amore (You are the first love song I ever sing, you are the only woman I evere wanted to stay with…e via su questo registro), Everything Good Become More True un ingenua canzone di speranza e di positività terrena universale che cozza davvero con quella che sarà poi la sua storia. Il gran momento centrale formato dalla accoppiata Last Sweet Moments e Magician, insieme alle splendide divagazioni strumentali di One, One, The Perfect Sum, rimangono forse gli unici momenti in cui Tim riuscì a raggiungere quell'ideale di "sentimento che si fa arte" che perseguiva come una chimera personale. Ma l'album, in tutta la sua straordinaria unicità, ancora oggi rimane irrisolto e frammentario (a causa anche dei vari brani recitati), il frutto di una mente incapace di misura e giudizio, un capolavoro nelle intenzioni ma non sempre nei risultati, comunque imprescindibile per capire il suo percorso artistico.


Bird on a Wire
[Columbia 1971]

Visto che la suite per Susan Moore, toccò la posizione 129 di Billboard per una settimana prima di sparire nel nulla, per il secondo album la major costrinse Hardin a seguire istruzioni precise. Ma quello che entrò nei CBS Studios di New York nell'autunno del 1970 era già un uomo diverso dal grande autore degli anni '60. Deluso dal mancato riconoscimento di quello che riteneva un capolavoro, e, soprattutto, completamente distrutto dall'abbandono della stessa Susan, stanca a sua detta di essere una musa e non una moglie, Tim si fece manovrare come un burattino nella realizzazione del suo album in studio migliore sotto il profilo musicale. Prodotto dall'esperto Ed Freeman (produttore di Tom Rush e l'anno dopo dell'American Pie di Don McLean), suonato da vari session-man di casa Columbia e dalla sua fidata band di jazzisti, a cui venne aggiunto addirittura il Weather Reporter Joe Zawinul, Bird On The Wire venne registrato in assenza di Tim, che fornì a Freeman una lunghissima serie di registrazioni delle parti vocali da usare per il mixaggio finale. Per il materiale si riciclarono alcune canzoni che Tim aveva già registrato con Dave Briggs a Nashville nel 1968 (la bella If I Knew, la piano ballad Moonshiner, la jazzata Soft Summer Breeze) e addirittura qualche rimasuglio degli anni del Greenwich Village (l'orchestrata Southern Butterfly). Tim riuscì ad offrire due canzoni nuove, una Love Hymn che chiudeva imponentemente il disco sugli stessi toni della suite per Susan e la bella Andre Johray, parabola su successo e decadenza inconsapevolmente autobiografica. Il resto venne completato con alcune cover scelte senza grande fantasia, una A Satisfied Mind di cui esistevano già parecchie versioni, una Georgia On My Mind che Hardin cantò comunque con il giusto trasporto e la bellissima Hoboin', brano attribuito erroneamente a John Lee Hooker (era invece di Lightin' Hopkins), liberamente rivisitato nel testo e nella musica da Hardin con un risultato davvero emozionante di folk-free-jazz. Apriva il disco la title-track, il capolavoro di Leonard Cohen che Freeman arrangiò come se fosse una ballata di Otis Redding, con fiati a perdere e una prova vocale che ha semplicemente dell'incredibile. Il risultato, sebbene si senta l'assenza del protagonista, è comunque un disco di altissimo livello che merita una attenta rivalutazione.


:: Il resto


Painted Head
[Columbia 1973]

Nine

[GM/Antilles 1974]

The Homecoming Concert

[Line LICD 1980]

Nel 1972 Tim Hardin decise di lasciare la casa di Woodstock, dove ormai viveva praticamente da recluso. I tentativi di aiuto e le attestazioni di stima dei tanti facoltosi vicini di casa (il vecchio amico Dylan, The Band) furono vani, e anche Van Morrison tentò di coinvolgerlo nella genesi di Tupelo Honey, ma senza grandi risultati. Tim si rifugiò in Inghilterra, dove la droga gli veniva fornita da un programma di recupero del Sistema Sanitario Nazionale. L'album Painted Head venne realizzato a New York da session-men di casa Columbia e perfezionato in Inghilterra negli Apple Studios di Abbey Road con l'aggiunta della facoltosa chitarra di Peter Frampton, già una star con gli Humble Pie, e le parti vocali di Hardin. Interamente composto da cover, il disco è un bel prodotto professionale con un Hardin che nonostante le pessime condizioni riuscì a cantare in maniera più che convincente. Splendide le versioni di I'll Be Home di Randy Newman e Yankee Lady di Jesse Winchester, il resto viaggiava su binari più che degni che lo riportarono a riabbracciare anche il blues degli esordi negli standard Nobody Knows You When You're Down and Out o You Can't Judge A Book By Its Cover di Willie Dixon. L'album comunque fu l'ennesimo disastro commerciale e rappresentò il naturale epilogo del suo contratto con la Columbia. Nel 1974 uscì il suo ultimo disco in studio, intitolato laconicamente Nine, e registrato in Inghilterra per la GM records, con ancora cover (significativa la scelta di Fire And Rain di James Taylor) e brani originali, alcuni in realtà risalenti alle Nashville Sessions di molti anni prima (Shiloh Town), altri finalmente nuovi (Rags And Old Iron o Person To Person). Arrangiamenti pieni di fiati, archi, cori femminili, una nuova via che non si allontanava molto dal sound dei dischi di Joe Cocker, con una generale svolta verso atmosfere molto radiofoniche e l'evidente tentativo di dare una ripulita al personaggio fin dall'improbabile posa da gangster della copertina. Insuccesso ovvio e cd oggi reperibile a prezzi esorbitanti, questa la prevedibile conclusione dell'operazione. L'epilogo di tutto furono anni di dipendenza della droga in compagnia della moglie Susan, impietositasi e volata in Inghilterra per seguire gli ultimi anni del marito. Che morirà il 29 dicembre del 1980, dopo la pubblicazione di un decoroso album dal vivo (The Homecoming Concert), registrato nel gennaio dello stesso anno. Ovviamente le versioni dei suoi evergeen, cantate da un uomo in evidente crisi, non sono all'altezza dei tempi d'oro, anche se trasudano di tutta la tragica emotività di un malato terminale. Rimane godibile il finale gospel del traditional Amen, cantato con tanto di coro di voci nere, a dimostrare per l'ultima volta la grandezza dell'Hardin cantante.


:: Riepilogo (discografia)

Vista la storica difficoltà a reperire i titoli principali della discografia di Tim Hardin, caldamente consigliate per i neofiti sono due belle raccolte: Hang On To A Dream: The Verve Recordings (1994) perché racchiude i primi due album, l'album di inediti Tim Hardin 4 e ulteriori inediti risalenti al periodo blues degli esordi. L'altra è la benemerita Simple Songs Of Freedom: The Tim Hardin Collection, edita nel 1996 dalla Legacy, che oltre a recuperare il bel singolo del titolo (altrimenti introvabile), recupera le straordinarie Nashville Sessions del 1968, 3 brani della suite per Susan Moore suonati dal vivo e una intelligente selezione dei migliori brani tratti da Bird On The Wire e Painted Head. Questi due, insieme al live Tim Hardin 3 recentemente ripubblicato in cd, costituiscono un percorso obbligatorio per la conoscenza dell'opera di Hardin.

Tim Hardin 1 (1966, Verve Forecast) 9
Tim Hardin 2 (1967, Verve Forecast) 9,5
This is Tim Hardin (1967, Atco - raccolta originalmente non autorizzata di inediti periodo 1963/1964 - ) 7
Tim Hardin 3 Live in Concert (1968, Verve Forecast) 10
Tim Hardin 4 (1969, Verve Forecast - altra collezione di inediti, stavolta autorizzata dall'artista) 7,5
Suite for Susan Moore and Damion-We Are-One, All in One (1970, Columbia) 8
Bird on a Wire (1971, Columbia) 8
Painted Head (1973, Columbia) 7
Nine (1974, GM/Antilles) 6
The Homecoming Concert (1980, Line LICD) 7

Principali raccolte
The Shock of Grace (1981, CBS Columbia - solo periodo Columbia)
Tim Hardin, Reason To Believe (Best Of) (1990 Polydor)
Hang On to a Dream: The Verve Recordings (1994, Polydor 521583)
Simple Songs Of Freedom: The Tim Hardin Collection (1996, Legacy /Sony )
Person to Person: The Essential, Classic Hardin 1963-1980 (2000, Raven) - bella ed esaustiva compilation australiana di 27 brani.
20th Century Masters - The Millennium Collection: The Best of Tim Hardin (2002, Polydor) - 11 brani, solo lo stretto indispensabile del primo periodo, sconsigliata.
Black Sheep Boy: An Introduction to Tim Hardin (2002 Universal International) - un'introduzione a cui manca If I Were A Carpenter risulta ovviamente incompleta.
Through The Years 1964-1966 (2007 Lilith) recente piccola compilation di nastri inediti, tra alternate-version di brani noti e qualche chicca per collezionisti.

13 commenti:

Francio McLintock#5 ha detto...

è stato il più grande

Nicola Gervasini ha detto...

.....NON SO SE "IL" MA SICURAMENTE "UNO DEI"...;-)

Francio McLintock#5 ha detto...

''Loser'',aggettivo esatto,ovunque vado nessuno sa chi sia!
Essendo appassionato di calcio inglese e di Arsenal in particolare la sua melodia risuona nel fim febbre a 90 come nessun'altra!
un saluto e gran pezzo,mi posso permettere di trasmetterlo sul mio ToscanArsenal citando ovviamente la fonte?

Francio McLintock#5 ha detto...

''Loser'',aggettivo esatto,ovunque vado nessuno sa chi sia!
Essendo appassionato di calcio inglese e di Arsenal in particolare la sua melodia risuona nel fim febbre a 90 come nessun'altra!
un saluto e gran pezzo,mi posso permettere di trasmetterlo sul mio ToscanArsenal citando ovviamente la fonte?

Nicola Gervasini ha detto...

certo....a questo link trovi la versione ben impaginata

http://www.rootshighway.it/folklore/hardin.htm


mandami il link di dove posti ;-)

grazie

Anonimo ha detto...

splendido lavoro, grazie....!!!
perche' non scrivi anche una FRED NEIL story???

ciaoo

HELENA VELENA

Nicola Gervasini ha detto...

garzie Helena Velena, Fred Neil potrebbe essere l'argomento di una prossima monografia, se la meriterebbe anche lui

Anonimo ha detto...

Странно, искал совсем не это, гугл выдал Ваш сайт, и судя по всему не зря, есть что почитать! Goodwork!

Anonimo ha detto...

Secondo me sbagli enormemente nella definizione della parola "loser".
Essere "loser" non è prerogativa degli artisti che non hanno avuto un riscontro commerciale... allora Andrew Wood è un loser visto che nessuno lo conosce? Non direi proprio. Perchè il suo attegiamento era da star, positivo, vincente.
Cobain invece lo era, nonostante sia conosciuto dal grande pubblico, perchè il suo attegiamento interiore era quello. Essere "loser" è un modo di prendere la vita, non dipende da quante persone comprano i tuoi dischi.
Una persona che vende poco potrei definirlo un musicista indipendente, il che non lo fa automaticamente essere "loser".

Nicola Gervasini ha detto...

Ciao (anonimo?), sulla questione loser potresti avere ragione, però anche con la tua interpretazione il termine si addice bene a Tim Hardin , che tra l'altro non ha venduto molto, ma con le cover fatte da altri dei suoi brani avrebbe tranquillamente campato 100 anni, ma il suo atteggiamento era proprio quello dimesso di chi non sapeva far valere il proprio talento. non è un male in sè. Cobain secondo me non è un loser in senso classico (che è un senso che bada sia al successo/sconfitta che all'atteggiamento con cui lo si vive), era la rockstar dilaniata emotivamente, che è un personaggio diverso secondo me. Hardin non aveva atteggiamenti da rockstar distrubata, anzi, era molto composto come atteggiamento

Anonimo ha detto...

Si, anche secondo me il termine si addice perfettamente a Tim Hardin; notavo quanto dicevi di Cobain affiancandolo a Morrison.
Jim Morrison di sicuro non era un loser, ma Cobain che è stato un'antistar per eccellenza secondo me rientra nella definizione.
Hardin non aveva atteggiamenti da rockstar perché non lo era! Anche questo è da tenere in conto nella valutazione di comportamenti provocatori o stravaganti; probabilmente era molto composto perché avendo una privacy poteva permetterselo.
Comunque bella monografia :)
Sara

Nicola Gervasini ha detto...

grazie ;-)
diciamo che proprio Tim non aveva il physique du role della rockstar, Cobain e Morrison erano belli oltre che bravi

Anonimo ha detto...

E' vero, anche questo ha la sua (non poca) influenza.

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